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Inconscio, affezioni e tropi

Da Straker
Inconscio, affezioni e tropi
Si sta affermando l’idea che la mente possa influire sul corpo e che, in ultima istanza, la salute e la malattia dipendano in toto dal pensiero. Di solito si chiama in causa l’inconscio e qui casca l’asino. Le “cause” all’origine delle affezioni sarebbero da ricercare nella dimensione inconscia.
Premesso che nessuno sa che cosa sia di preciso tale sfera psichica, per definizione inaccessibile alla logica, si dovrebbe in primo luogo ridefinire l’inconscio, chiamandolo transconscio, intendendolo come un ambito che è situato di là dalle (dal latino trans, oltre, di là da) esperienze individuali. Sorvoliamo nondimeno su questioni terminologiche e chiediamoci non tanto in che modo la mente possa agire sulla materia (abbiamo sviscerato il tema nella serie “La legge dell’attrazione”), ma se le categorie razionali siano legittimate a rendere conto di ciò che razionale non è.
Se davvero tutte le patologie trovassero le loro radici in un humus psicologico, tutte le persone gioviali e positive non dovrebbero cadere inferme. Perché allora alcuni bambini che vivono in un universo spensierato e giocoso conclamano patologie anche gravi? Che l’umore influisca sulle condizioni fisiche è indubbio, ma da questa relazione non si può desumere una legge che spiega tutte le relazioni. Davvero l’ambiente non esercita alcun influsso sul corpo a tal punto che si ammala solo chi per una recondita ragione ha, per così dire, deciso di ammalarsi?
Si vuole offrire una visione nuova della medicina, più aperta e più duttile, ma si ricade nel più scontato nesso causale. Così, se, ad esempio, un’adolescente è colpita dall’anoressia, ci si affanna alla ricerca di un trauma inconscio, di un singolo evento interiore che ha provocato la sindrome. Non bisognerà, invece, studiare una costellazione di circostanze che potrebbero non essere riconducibili al soggetto, ma alla madre o a qualche altro parente, visto che il transconscio valica i confini della psiche individuale?
Quando si prova ad esplorare l’enigmatica, ambigua e sfuggente regione del transconscio, si potrebbero usare i criteri che si adottano quando ci si interroga sulle sorprendenti peculiarità del mondo subatomico. Qui una particella può interferire con sé stessa, sdoppiarsi, l’”effetto” può precedere la “causa”, qui l’osservazione rende indeterminato il fenomeno etc. Sono tutte caratteristiche che gli scienziati seri riconoscono come controituitive e, fino ad oggi, non inquadrabili in una teoria coerente ed esaustiva.
E’ altresì auspicabile che il misterioso libro delll’inconscio sia letto con gli strumenti della Glottologia, anzi della Retorica. Lo psicanalista francese Jacques Lacan, nonostante l’ipoteca di un approccio post-freudiano e la fumosità del suo pensiero, a nostro parere, ha il merito di valorizzare la dimensione linguistica dei processi con cui l’inconscio, trasfigurando le rappresentazioni, produce i sogni, i lapsus, gli atti mancati, i sintomi. Egli equipara la condensazione (processo per cui una singola immagine può riassumere più raffigurazioni) alla metafora. Assimila lo spostamento (il meccanismo con il quale un contenuto inconscio, di forte significato emotivo, è dirottato verso un oggetto almeno all’apparenza estraneo alla dinamica interiore) alla metonimia. Se ricordiamo che il cosmo della psiche si manifesta (e si occulta) con il simbolo, archetipo e tropo di inesauribile ricchezza, si può concludere che l’inconscio possiede una sua struttura retorico-linguistica, tanto complessa quanto complessa è la lingua.
Rigettiamo dunque non l’impegno a percorrere nuovi sentieri che conducano a liberare l'umanità da tutte le patologie, ma il riduzionismo e la superficialità con cui si crede di poter debellare un’affezione, non appena si individua il conflitto (la causa) che ne sarebbe la matrice.
Da un lato si corre il rischio di diffondere delle illusioni, convincendo i pazienti che, ripetendo un mantra o con qualche bizzarra terapia, potranno ottenere una totale remissione, dall’altro, da un punto di vista filosofico, si ribadisce un modello concettuale incentrato su un nesso meccanico ed ingenuo tra “causa” e “conseguenza”.
Infine è forse errato proclamare la necessità di una vita del tutto emancipata da scompensi psichici: una dose, seppur minima, di disagio esistenziale è non solo ineliminabile ma necessaria alla crescita ed alla realizzazione del proprio essere. Gli antichi sapevano che, almeno in una certa misura, la vita è una forma di malattia. Si pensi alla conclusione dell’Apologia di Socrate.
Un orizzonte è suggestivo ed attraente non quando coincide con un arco netto, ma se è increspato da flutti di nuvole e screziato da riflessi.

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