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Incontro con Adelchi

Da Auroita @Vincenzo_Durso

AdelchiIncontrare persone in questo ospedale letterario non può che farmi piacere. Ed un tipo come Adelchi è una speranza di sopravvivenza. Un po’ quando mangi a colazione il brodo fatto con chissà quali ingredienti. Quindi sei sicuro di vivere, nonostante il cibo sia pessimo. Be’, Adelchi sembra stufo, ha un carattere che definire morboso è un complimento. Oggi l’ho incontrato nel corridoio, mentre mi dirigevo verso la sala del personale. Avevo bisogno che un medico mi controllasse la ferita. Il mio cuore ormai è ridotto a pezzi di carta, a devastazioni bianche che non so mica se riuscirò a ricomporle per scrivere ancora. Ci riesco appena. E, tra l’altro, lo faccio anche male. Eccolo, Adelchi e il suo pallore. Sembra un’alba che avanza davanti ai miei occhi. Il suo andare è come un cerbiatto smarrito nel bosco. Io sono il suo cacciatore. Non temo l’incrocio di sguardi. Avanzo verso di lui appoggiandomi alla parete. La scrittura ha deturpato persino le mie gambe. A stento riesco a camminare. Poggio le mie mani sulle sue spalle. Lui sembra volersi esprimere solo con lo sguardo. La mia bocca prende vita. E insieme alla sua carnosità, inizio a tessere parole che non mi appartengono. Sono di un’altra persona. Di un mito che ha invaso il mio corpo. Sembra che anche il linguaggio si sia mitizzato, come le attività fantastiche degli uomini.

«A quest’ora di notte vai in giro, Adelchi?».

«Ho bisogno di una camomilla. Ho paura di vedere ancora il giorno, capisci?».

«Ci conosciamo da tanto. Non ti ho mai visto così agitato. Perché ti tormenti?».

«No, no. Sono gli altri, non sono io che mi tormento. Capisco che subire sempre ingiustizie è nella mia natura. Insomma nascere per essere un uomo rinchiuso nella passività è nel mio DNA. Ma io sono esasperato!».

«Non riesci proprio a ribellarti?».

«Vorrei. Ma mio padre dice che mi vuole bene. Lo fa solo per questo. Mi costringe a curarmi. A sentirmi ancora inutile».

«Essere un principe deve essere difficile».

«Proprio così! Poi, noi Longobardi abbiamo un codice d’onore. Ma tu sai a cosa mi riferisco? Stamane hanno dimesso Carlo! Io non ci credo. Con quale criterio? Mio padre dice che noi non siamo pronti. I medici hanno ancora da fare accertamenti per poterci dimettere».

«Ma tu vorresti uscire?».

«Per me è inutile. Se esco sarò più inquieto di adesso. Ti immagini? Mio padre che mi potrà assillare con le sue pretese. Ma non voglio neppure dire che qui non lo faccia. Ma viene limitato a causa della morfina che prende abitualmente ogni pomeriggio. Così riesco a stare in pace per qualche ora».

«Però non è neppure facile essere un re, o sbaglio?».

«Ti riferisci a mio padre? Ah! La mia stanchezza traduce la risposta. Pensi che se il lavoro di re non fosse facile, io sarei ridotto in queste condizioni? Il sovrano delega e i sudditi obbediscono».

«Avete mai pensato alla democrazia?».

«Che cos’è? Un nuovo piatto? Non l’ho notato nel menù della mensa. Strano».

«Come posso spiegarti… la democrazia è… la democrazia è… sì, un piatto nuovo della mensa. Forse hai ragione».

«Poi non ho neppure appetito a causa di Ermengarda…».

«Ho sentito delle voci…».

«Sono voci infondate! Ermengarda voleva solo l’amore di Carlo! Non le sue ricchezze! Ma quando ha visto che l’operavano, e sapeva benissimo che questo avrebbe comportato la sua libertà, lei si è annullata. E nella sua disperazione si è uccisa impiccandosi con le sue lunghe trecce».

«Hanno già fatto l’autopsia?».

«Il referto dice che la morbidezza della sua chioma l’ha soffocata con gentilezza. Non ha sofferto, almeno questo».

«Oltre a quelle voci, ho sentito che ha aperto la finestra prima di impiccarsi…».

«Amava che l’affanno del vento le soffiasse sul viso. È morta con dignità!».

«Anche se riteneva che la dignità fosse il delirio?».

«Senti. Qui tutti soffrono. I medici non fanno nulla. Curano, liberano, chi vogliono, senza alcun criterio. Almeno la morte facciamo che sia una nostra decisione!».

«Ma le malattie non cambiano i comportamenti? Voglio dire io sono malato. Tu sei malato. Io non riesco a dormire. Sento l’angoscia del luogo che visita la mia stanza. Pensi che questo non c’entri con la disperazione di Ermengarda?».

«L’amore è una malattia! Lo sai meglio di me. Pensa te che un mondo può essere fatto da passioni d’anime. Da un continuo oscillare da illusioni a stupide razionalità».

«Sono stanco… vado in camera mia. A presto!».

Allontanarsi, partire, viaggiare, non è forse un modo elegante per eludere la propria realtà? Ma il limite che esso ci impone è come un pugnale che si conficca nel cuore. Parlare con Adelchi mi fa piacere. Ma quando inizia con le sue elucubrazioni, manco ci voglio pensare a cosa gli farei… tra l’altro, si avvicina Natale. Stare qui è come una salvezza. Io non sopporto questa festività sacra. Che poi cos’abbia di sacro non l’ho mica capito. Anche Gesù bambino è diventato un’icona della moda. E mica lui se ne lamenta. Quando entro nella mia stanza il crocifisso si muove con estrema eleganza. Con una sensualità tutta sua. E quando, stanco e afflitto dai molteplici esami ospedalieri che devo compiere, mi getto sul letto e Gesù mi appare genuflesso e mi dice: «La preghiera è condanna. Solo chi è condannato prega per la salvezza». Non voglio dire che io non sono condannato, ma genuflettersi è un gesto d’obbedienza, e Gesù non è un uomo? A me non sembra tanto diverso dai Longobardi. Tra l’altro la loro stanza è di fronte alla mia. Schiamazzi e confusioni sono i loro codici d’onore. Forse è per questo che Gesù, volendo bene a Carlo, lo ha aiutato ad uscire dall’ospedale. Be’, un giorno anche io imparerò a simulare l’obbedienza.


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