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Incontro fortuito

Creato il 22 aprile 2014 da Salone Del Lutto @salonedellutto

No, per dirvi… Sto a dirvi che… non è stata la mia, la colpa, dico… macché… gli è che m’è spuntata davanti così… all’impensata e… e io ho cercato di, ho provato a, mannò: tardi! Pigio sul pedale ma… tardi!… il suo bel pà-PUM! et adieu Voglio dire, c’entro niente io. Cioè, a entrarci ci entro, sì vabbe’, ma un puro caso, credetemi! Io da parte mia son lì che svolto, lei che si butta sotto in pratica, senza buttarci un occhio e… c’era mica il tempo di, di… e poi, a pensarci bene che miseriaccia ci faceva da ste parti? Ché, dico, la sua destinazione era all’altro capo della città… Essì, dato che… ’nsomma cheee… se comincio dall’incomincio è meglio, va’.

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Che, che tutta sta storia – che è storia da poco, intendersi – è iniziata sarà manco un’ora. Un’ora e mezza, va’, a farla lunga… che io me ne stavo ancora bell’e placido a rigirarmi i pollici sul divano del salotto, con un occhio chiuso e l’altro mezzo, ma ancora a occhieggiare controvoglia le pagine della Gazzetta allargate sulla pancia, quando mia moglie mi passa a fianco per darsi un’ultima sistematina alla messimpiega o a diosolosacòsa davanti allo specchio a 20 centimetri dai miei piedi, e mi riporta al mondo di botto, con una razza di zaffata al muschio che si lascia sei metri dietro di sé come una lunga coda fantasma, capace di entrarmi per le narici e salirci, su su fino a battermi a martelletto sulle meningi. «E che cazzo» le faccio nauseato, «ti sei tuffata in una piscina di colonia?!». Quella: darmi retta, figuriamoci… Non smette di sorvegliarsi il rossetto, fin quando non ne stacca lo sguardo per abbassarlo su di me, però non prima d’averlo trasformato in un’espressione di sufficienza e papale sfiducia e si fregia di comunicarmi: «Vado da mia sorella. Bene?». See, see faccio io. Vacci. Vacci pure dalla tànghera. Vai dritta filata a berti quel che c’ha di nuovo sull’ultimo dei boyfriends ad averla mollata. Vacci, penso e non dico, che intanto io oggi ho tutt’altri affari… Una volta sì che… Be’ fino a pochi mesi fa… un anno, to’. Quando per la testolina ancora le giravano certe fregole da femmina, nella nascosta speranza di rianimare le mie vecchie gelosie e, insieme a quelle, passioni più defunte che Giulio Cesare oramai, se le arrivava una telefonata tipo quella di stamattina, ad esempio, che s’è fiondata al ricevitore così di prescia… per una conversazione poi, in cui lei, mia moglie intendo, più che altro se ne stava zitta, mentre si appuntava su un block-notes credo l’ora, comunicata da parte della sorella scervellata o d’una delle sue amiche… be’, allora, uno di sti squilli pisquani si sarebbe pure presa la briga di spacciarmeli per quelli d’un amante. L’avevo scoperta più che una volta che addirittura se le spediva da sola certe letterelle profumate ricamate di un romanticume da due soldi, se non da un soldo buco. Certo, all’inizio stavo al gioco, sapete com’è, e simulavo pure certi sbuffi d’ira. Ma come attore valgo pochetto… Le mie scenate avevano tutta la credibilità che dareste a un Massimo Boldi che agiti la mano a mezz’aria e da quella facciona in bambola, resa ancor più ridicola dalle smorfie da varietà dei più pezzenti, faccia uscire una voce bagnata d’un patema di macchietta che fa: «Adeso basta. Adeso basta eh!» un attimo prima che gli caschi nel piatto quel parrucchino che sin dall’inizio della scena s’intuiva falsissimo… Così andò a finire che mia moglie si stancò ben presto del mio scarso melodramma: anziché snocciolarmi i suoi improbabili adulteri ora era passata alla sincera banalità dei fatti… Vado da mia sorella. E vacci, penso io, riprendendomi a fatica dalla siesta per via della nausea muschiata. Anzi, tanto meglio, penso e non dico, visto che oggi ho ben altre faccende di cui occuparmi e non dovrò neanche trovarti una scusa per quando uscire di casa…

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Sì perché oggi, tra poco, mi becco con Paola, ah ah… Paola chi? Forza, non chiedetemelo con quella luce di predica negli occhi… Certo, certo: Paola è… la più classica delle amichette. A-mi-chet-te, sì. Sapete: quelle che un uomo ammogliato da una decina d’anni e spingi ancora nelle sue piene facoltà ha tutto il diritto di farsi. O no?!… Capitemi, se tutto fosse filato come cinque, sei anni fa, quando io e mia moglie si moriva vivi a forza di sbatterci tra le pratiche del letto o prima ancora delle nozze, quando, avvinti in alcove di fortuna, ci sgranchivamo per ore e ore al suono dei tamburelli di Venere, inventandocene sempre di nuove, allora che lei – ah, se ci ripenso! – era buona a farmi certi occhi da gatta che io – ah, se ci ripenso! E si muoveva in quel modo tutto suo che… come se danzasse, vi dico. Tempi che nella borsetta ci aveva perennemente un vasetto di, udite udite, miele d’acacia. Miele d’acacia, esatto. Sapete, per i giochetti erotici più leziosi che ora non sto qui a dettagliarvi ma… be’!… Poi si sa come vanno le cose e che il tempo è come acqua per le faville del cuore e blablablà. In definitiva, la medesima pappa alla lunga viene a noia, e va così che ti cerchi pepe di cayenna nuovo, a insaporirla… Paola fa la commessa al reparto maglieria di cui sono supervisore. Non lo chiamo amore, attenzione, ma… quella, quella freschezza, quella voglia di vivere… la sua bella gioventù. M’ha rapito tutto, di Paola. E poi, mi fa certi occhioni: da gatta, proprio… pare mia moglie al tempo che fu… Son robe che ti fan perdere la testa come niente… Così tra una parola e l’altra, tra una mezza promessa sullo scatto di carriera e l’altra, ho cominciato a cercarla sempre più assiduamente, e in proporzione inversa al numero di trucchetti che mi tocca escogitare per non essere stanato. Perché, vedete, fino a poche settimane fa mia moglie ci andava in puzza intorno a ste mie… scappatelle. Si mostrava parecchio sospettosa ogni volta che ficcavo il naso fuori di casa. Sempre sulle sue, dico… Certi spiegoni dovevo montarle su in estemporanea che quasi mi spariva la voglia (che poi, a dirla tutta, sparita sparita non mi è mai). Ma adesso come adesso, miseriaccia, sembra fatto apposta. È da un po’ che le chiamate di quella scema di sua sorella fioccano quasi ogni giorno comandato, tanto che c’ho manco più il cruccio di inventarmi scuse su riunioni d’ufficio o visite di lavoro e cazzi vari per assaporare le poche ore liete della giornata: assieme a Paola. Mi basta aspettare con pazienza che mia moglie esca e io, subito dopo, idem. Proprio come oggi, dico, che mi fa: «Vado da mia sorella». E vacci, penso io. Dopo che ha levato le tende col suo bel completo nero a tubino che le fascia alla perfezione quel popò di forme che lo scorrere degli anni, lo ammetto, ha graziato, e perdendo per tutta casa quella nuvola di profumo da vomito – che poi, dico io, come cazzo si va a tappare per fare una visita alla sorella… – mi accendo una sigaretta per popparla con gusto, a mio agio, mentre scelgo quali vestiti più adatti al rendez-vous.

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Va per un abbinamento sul casual (tanto, per quel che mi servono i vestiti) e dopo un’energica frizione di shampoo e di balsamo – che io il balsamo, prima: mai usato. E di fatti nei primi periodi pretendeva delle giustificazioni, mia moglie. Il mio capo esige che noi si migliori il nostro aspetto in ogni sua componente dice, le mentivo… Adesso sembra crederci: manco più una parola in merito… Dunque eccomi, solo ricco d’un paio di jeans e di una polo azzurrina, dirigermi fuori dal garage al galoppo della mia Roadster rossa nuova di pacca, tirata a lucido. Una convertibile, sapete… Letteralmente un bijoux! Che pacchia andarci a zonzo in questa primavera quasi estate! Credetemi: coi capelli al vento e il caro vecchio Elvis Costello che il woofer pompa a palla spargendolo per il tragitto e il mondo che ti scorre ai fianchi come un film a velocità raddoppiata… Una roba che. Una roba, vi dico, che verrebbe voglia di non scendere mai da ‘sto bolide… certo, tranne i casi in cui la meta come la mia… Ah, così cambia tutto eh. Mmm se solo ci penso… A, a quella scheggia di paradiso che m’attende tra un paio di chilometri. Mmm, le tendine rosa e quell’arredamento un po’ pacchiano e le candele dall’odore vanigliato e i cappelli color rosso montati sulle abat-jours in camera da letto che insanguinano i muri e le lenzuola e danno carica a rimescolii già tanto accesi… E poi, be’ poi lei, Paola dico: già me la vedo mentre schiude la porta piano piano per scoprire il bel sorriso infilzato dalle fossettine e uh-la-là la vestaglietta in chiffon rosa che mette in bellavista quel che da lì a poco mi accoglierà tra i suoi calori. Un cordialino, una marlboro fumata in due, quattro chiacchiere, tanto per gradire… poi… se ci penso. Accelero. Pistare di brutto su ‘sta razza di bolide a duemila cavalli e spingi… Taglio le vie al brucio: viale Vesuvio, viale Monterosa, Bastioni Gran Sasso, vicolo Stretto e vicolo Corto. Il Viale dei Giardini me lo bevo proprio: lo faccio scomparire sotto i pneumatici, e poi alle spalle, con un’unica, frenetica pigiata sul pedale. Svolto per largo Augusto, poi corso Impero. La strada, tutta mia! Largo, gente. Largooo! Guarda un po’ sto cretino: non ne vuol sapere proprio di farmi passare. Sembra che vada dietro a un funerale e sta lì, piantato in mezzo alla strada, dio! Vagli a strombazzare, va’, che intanto manco se ne accorge… Specie di vecchio rincoglionito… Via, via che c’ho da fare, io. Lo sai?!… Via Roma. Mmm è una bellezza spingere ‘sto motore. Sto galvanizzato oltre misura, dalla guida sì, da quel che palpeggerò tra un minutino sì, niente niente che disegno una perfetta ellissi intorno a piazza Libertà che ora imbocco con una grinta im-mo-ri-ge-ra-bi-le… E sto giusto per concluderla, ‘sta maledetta piazza, velocizzando i pistoni in modo da rendere il curvare quasi quasi un rettifilo, quando mi si para davanti agli occhi una figura che da subito mi pare di riconoscere… questione d’un microsecondo, mi si rivela quella inequivocabile di mia moglie, e in rapidissimo avvicinamento. Stesso abito nero, stesso trucco, stessa piega dei capelli. Quasi riesco a percepire pure quel profumaccio che aveva addosso un’ora, un’ora e mezza fa massimo.

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Proprio lei, come la visualizzazione d’un rimorso! D’un, d’un senso di colpa… Ma a pensarci su bene – anche se è sempre questione d’un microsecondo – io rimorsi proprio niente. Anzi, soltanto un entusiasmo eccitato, almeno fino a un attimo fa. Mi rendo conto che quella donna che sta attraversando la strada senza badare al traffico non è già un’allucinazione ma mia moglie fatta e finita… Ma ormai è tardi!… Nel suo abito nero, sui suoi tacchi da dodici attraversa la strada con un sorriso beato da sotto due occhioni trasognanti che manco ci pensa a spostarli verso il lato della strada da cui provengo… Capite adesso? Mi è apparsa di fronte all’improvviso: senza guardare. E alla velocità che tenevo è dura schivare qualcosa di inaspettato. Ci ho provato, eh. Giuro! Ho spinto fino in fondo il pedale del freno ma il bolide al posto di calmarsi si è imbirrito e per quanto sterzassi e controsterzassi non era più mio il comando… Insomma, ha preso a scodare e rullare impazzito finché non è partito diritto per centrarla, la mia mogliettina, che, senza dar segni apparenti di accorgersi di un che, spacca il parabrezza col contenitore del cervelletto per poi catapultarsi in quella lunga parabola solo interrotta da un orribile strakkt! una decina di metri distante dal cofano della mia auto. Mi affretto all’indirizzo di quel povero corpo inerte sotto il quale si espande lenta una chiazza di sangue. Mi faccio largo tra i molti accorsi dai bar, dalla passeggiatina. «Sono il marito! Sono il marito!» urlo, per di passare, a quel muro di folla. «Bella roba… E non potevi ammazzarla col gas come tutti?!» commenta qualcuno, mentre io, sopraffatto, mi piego sulla cera scolorita di mia moglie. «Ma che ci facevi per qua? Che cazzo ci facevi? Tua, tua sorella sta da tutt’altra parte… Venti chilometri da qua, sta…». Lei, che non boccheggia neanche. Gli occhi chiusi. Eppure uno strano ghigno, come la smorzatura d’un sorriso, le è… le è rimasto… Incredulo, sebbene tutto, t-u-t-t-o mi confessi la realtà dei fatti, pur sforzandomi di sperare in una coincidenza voluta, dal destino, più tortuosa delle altre, raccolgo la borsetta che ancora le cinge l’avambraccio e prendo a frugarci… La carta d’identità finalmente… Il nome è quello, il cognome è quello. I dati, tutti. Tutti! Ogni dubbio fugato, ormai… «Perché, perché?» non faccio che ripetere a un disco rotto. «Che ci facevi mai da ste parti, piccioncino mio… Tua sorella sta a venti chilometri, sta… Che ci facevi, dimmelo…». E, e intanto che continuo e continuo a piangere e disperarmi, chino sul corpo della povera cara, il fermo delle dita s’allenta e la borsetta scivola sino a toccar terra… Con la coda dell’occhio noto – ma sulle prime neanche me ne curo – rotolarne fuori pian pianino, e tracciare un cerchio che non conclude, la lucida rotondità di un, oh cazzo!… di un tondo barattolo di miele di acacia. Miele d’acacia, esatto!

di Pee Gee Daniel

Foto di Pivio Silvio Bramardo

occhio in bocca
Pee Gee Daniel è nato a Torino il 7 luglio 1976. Nella vita è stato impiegato, magazziniere, aiuto-camionista, poliziotto, responsabile di sala-giochi, agenzie di scommesse e sale-slot, bibliotecario, copywriter, addetto ufficio-stampa. È laureato in filosofia. Ha pubblicato Gigi il bastardo (& le sue 5 morti), Montag, 2012, Phenomenorama, Inbooki, 2013 e Il politico, Golena Edizioni, 2014. È autore del libretto di Cogli l’attimo, musical al suo debutto teatrale nel maggio 2014. Il suo saggio “Sometimes I think there’s naught beyond” ovvero, le influenze del Dizionario Storico-Critico di Pierre Bayle sul Moby Dick di Melville è stato pubblicato nel numero di dicembre 2013 della rivista Ethics & Politics, afferente all’Università di Trieste. Scrive sulla rivista on-line Maintenant Mensile.


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