Magazine Diario personale

Indentions in the sheets, where their bodies once moved

Da Margherita

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"Every woman or every woman artist or every person no matter the gender, every artist but especially every woman who has ever wanted to die or just said she did or had that feeling when she felt so maligned and so misunderstood and so defaced and loathed and ignored that she has either died or not, has died inside herself or has dreamed or longed for an exit like death, has been her and we who have promised ourselves to live have to live with that death and the fact it sometimes looks horrendously attractive although we reject it. The way we have felt cannot be divided from what we think, by which I mean I am committed to admitting the ways I have felt into the ways I must think. It has to be this way right now."
An Hourglass Figure: On Photographer Francesca Woodman by Ariana Reines

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L'ultima volta che ho messo piede nel quartiere in cui vissi per i primi due anni della mia ricollocazione trentina mi sono resa conto del perché lo evito con tale inconsapevole pedanteria. Stavo pedalando lungo la ciclabile che porta in periferia, ai campi sportivi. Quando con la coda dell'occhio ho scorto una luce accesa nella mia vecchia stanza, ho provato l'irrefrenabile desiderio di correre, di sottrarmi alla vista di quel luogo.
Ora non riesco a rivisitarlo senza che tutti quei mesi di domesticità siano contaminati dal ricordo del giorno in cui si decise che quella sarebbe stata casa nostra, e da quello dell'ultima estate trascorsa entro quelle tiepide mura.
La perfetta circolarità che emerge mettendo in relazione tali ricordi è il motivo per cui temo il confine invisibile tra il quartiere del mio passato e il quartiere del mio presente.

Visitammo l'appartamento il giorno del funerale di mia nonna Lilia. Partimmo da Crespano del Grappa dopo la fine della cerimonia, ma non ricordo nulla di quei momenti. La mia apparente stabilità era dovuta all'anticipo con cui mi ero messa a lutto, settimane di anticipo, a partire dal pomeriggio in cui andai a trovarla e, per la prima volta, non vidi assolutamente niente nei suoi occhi.
Arrivammo con un certo ritardo in paese, perdendoci così l'esposizione della salma e la prima parte del funerale.

La mia presenza era stata richiesta, e so che il mio arrivo in chiesa a cerimonia iniziata fu interpretato malamente. Mi sono sentita a lungo in colpa per non aver calcolato il traffico di quei giorni d'estate, ma al contempo so di essere stata risparmiata dalla corrosione del ricordo che conservo di mia nonna da viva. Non traggo alcuna consolazione dal modo in cui, nella nostra cultura, la morte viene riempita di senso, ritualizzata ed esorcizzata. Ci penso troppo spesso e con tale intensità da aver perso la capacità di adeguare le mie emozioni a quelle che è previsto suscitino le storie che, come foschia, circondano l'idea di morte, di scomparsa.

Ciò che sono riuscita a ricostruire del mio ultimo mese nel vecchio appartamento è un'immagine monolitica e parziale, all'interno della quale sono un'ombra che si sposta dal letto al balcone per giorni e giorni, trascinandosi, piangendo, cercando di dormire.
Spesso non ero sola, ma questo devo dirmelo, devo convincermene, affinché l'immagine si allarghi e io riesca a vedere oltre il muro di vetro che mi separava dal resto del mondo. Ogni giorno desideravo di essere morta, e passavo ore ed ore in stati di apparente lucidità a valutare la materialità dei gesti che sentivo di dover compiere, o a piangere per me stessa e tutti gli altri. Su internet avevo letto che pensare agli aspetti concreti del proprio suicidio - come procedere - è un grave segno di depressione e che in quei casi è necessario prendere seri provvedimenti. Ciò che feci per settimane fu nascondere i miei piani, cercando rifugio nelle profondità degli armadi, o trascorrendo serate intere sul balcone sperando che qualcuno venisse a prendermi e mi salvasse da me stessa.

Lasciai casa con un lieve anticipo rispetto alla scadenza del contratto d'affitto, e tornai a Vicenza per la fine dell'estate. Lì smisi per qualche tempo di pensare alle vasche da bagno scarlatte che mi impedivano anche solo di distrarmi leggendo o guardando un film. A casa dei miei genitori cessai poco per volta di intendere me stessa come una persona già scomparsa da tempo, senza che dei rituali ne avessero ufficializzato il trapasso.


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Queste sono le cose delle quali faccio forse più fatica a scrivere, perché temo le reazioni di chi mi leggerà. So di dover raccontare per iscritto il mio periodo più oscuro, quella casa e il modo in cui il vuoto riemerge di tanto in tanto, togliendomi le forze. So di dover raccontare tutto questo per perseguire la cosa che chiamo guarigione, pur sapendo che non c'è modo di rimuovere il ricordo di ciò che sono stata. Il ricordo è il metro contro il quale misurare ogni ricaduta. Il ricordo è diventato parte di me. Io sono anche quella persona.

Parlare di morte fa di te una persona quantomeno problematica. Ammettere di pensarci molto spesso non è auspicabile. Io ci penso molto spesso. Penso soprattutto alla morte degli altri. È così da un sacco di tempo, da ben prima che i miei parenti cominciassero a sparire, da ben prima che quella ragazza si buttasse dalla finestra della scuola superiore che confinava con quella che frequentai per un anno e mezzo, al biennio.

Ci penso così tanto perché il mio potere è quello di attirare numeri consistenti di persone che mi fanno preoccupare per la loro incolumità, ma soprattutto per trovare un modo di descriverla che me la renda sopportabile, che sia il mio modo.

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So per certo di aver avuto il mio primo vero incontro con la morte tra le pagine del Diario di Anne Frank. Non ricordo chi mi fece dono della copia che conservo tutt'ora. Nella mia famiglia si è sempre usato lasciare che fossero i libri o le videocassette didattiche a rispondere alle mie domande, o ad anticiparle. In questo caso però credo che il libro mi sia giunto solo perché non si sa mai cosa far leggere ai bambini.

Diario di Anne Frank è stato il primo libro a raccontarmi la morte, il desiderio, la pubertà, la noia e l'orrore. È stato anche il primo volume di scritti ad opera di una ragazza che io abbia mai incontrato. Credo di averlo riletto almeno dieci volte, prima che il mio accesso ad altri libri si diversificasse a sufficienza da farmi abbandonare la ripetitività con cui lo recuperavo dallo scaffale posto sopra al mio letto.
Credo che lì abbiano avuto origine molte delle mie manie da lettrice emerse in seguito. Credo che quel libro mi abbia mostrato il vuoto per la prima volta. So per certo che quel libro, nonostante i rimaneggiamenti e i tagli a cura dapprima di Anne e, dopo la fine della guerra, del padre Otto Frank, mi ha mostrato cosa ne sarebbe stato del mio corpo e dei miei desideri.

Quello è il mio punto di partenza. Il testo dal quale questa parte di me si è originata, la parte di me che tenta con ostinazione di trovare le parole che descrivano i momenti in cui le parole vengono meno, i momenti in cui, come Esther in La campana di vetro, credevo di non saper più né leggere né scrivere.

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Di recente ho scritto che uno dei motivi per cui In The Aeroplane Over The Sea è diventato il mio album preferito è da ricercarsi nei modi in cui Jeff Mangum vi ha parlato della morte, anche se il discorso vale per molti altri pezzi scritti da lui che non sono inclusi nel disco. Non mi è mai capitato di parlare con qualcuno che mi citasse questa componente tematica dell'album tra i motivi per cui lo apprezzava, così come non mi è mai capitato di leggere delle considerazioni a tal riguardo che mi paressero simili alle mie. Magari dipende dal fatto che non si tratta in un argomento facile da affrontare, da inserire all'interno di una conversazione.

Mi ci sono voluti anni per rendermi conto di quanto In The Aeroplane Over The Sea fosse attraversato da immagini di anticipazione della morte, di mancanza di chi se n'è andato, di oggetti abbandonati, e del vuoto che segue ogni scomparsa. Per molto tempo l'ho amato capendo molto poco dei testi. È stato solo dopo aver letto che quel disco parlava anche di Anne Frank che ho messo insieme i pezzi, che sono riuscita a spiegarmi la malinconia che provavo ogni volta che tornavo ad ascoltarlo.
In The Aeroplane Over The Sea è l'unico artefatto umano capace di rendermi in qualche modo sopportabile l'idea che non rivedrò chi se n'è andato, che le persone che amo, ho amato e amerò cesseranno di esistere e che anch'io verrò meno ad un certo punto. Diventa sopportabile in virtù del fatto che quell'album coniuga un discorso sulla vita dopo la morte che ha diversi punti in comune con le prediche che si ascoltano di solito ai funerali cattolici, e un modo di raccontare le vicissitudini della corporeità che è diventato per me modello, enciclopedia, aspirazione, consolazione. Solo nell'opera di Jeff Mangum ho trovato un quadro a suo modo chiarissimo dell'intersecarsi del sesso e della morte, un modo di raccontare il corpo come veicolo di piacere fisico e spirituale, come cosa materiale destinata alla decomposizione che riesce ad essere splendido e brutale allo stesso tempo. Solo attraverso la sua opera sono riuscita a dare un senso e a riconoscere la purezza dei momenti in cui mi è capitato di mettermi a piangere dopo aver fatto l'amore con qualcuno, assalita senza preavviso dall'idea che quella persona sarebbe venuta meno.
La consolazione sta nel corpo, nel modo in cui esso viene esposto e celebrato, anziché essere celato o ritoccato prima che lo si mostri ai sopravvissuti. La bellezza sta nel modo in cui le ossa sono presentate come impalcatura del desiderio e al contempo inevitabile rimando al momento non rimarrà che quello.
Non è la morte contenuta e disciplinata dei funerali cattolici, in cui esiste una risposta chiara e univoca per lo spirito, ma in cui non vi è traccia di un riconoscimento del vuoto enorme che i corpi lasciano dietro di sé nelle persone che li hanno amati, che li hanno conosciuti. Non c'è consolazione laddove il corpo esiste e viene celebrato solo entro i limiti del suo dispiegarsi legittimato dalla dottrina cattolica. Non ci sono le parole per ricordare, non ci sono le parole per articolare quel tipo di nostalgia.


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