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Indonesia: pena di morte ai narcos crea consensi?

Creato il 04 maggio 2015 da Retrò Online Magazine @retr_online

L’Indonesia ha recentemente giustiziato 12 cittadini stranieri. Il ricorso alla pena di morte risponde alla stretta sul traffico di droga del presidente Joko Widodo, ma minaccia i rapporti bilaterali con i paesi coinvolti.

La democrazia musulmana più grande del mondo ha giustiziato dal 1° gennaio di quest’anno 14 persone, di cui 12 straniere. L’applicazione della pena di morte per reati legati al traffico di droga rientra nella strategia messa in atto dal giovane presidente Joko Widodo per recuperare consenso interno. Ma questo rischia di isolare l’Indonesia sul piano internazionale e di provocare l’interruzione delle relazioni diplomatiche con i paesi di cui gli stranieri uccisi erano cittadini.

L’Indonesia giustizia otto trafficanti di droga

Martedì 28 aprile 2015 l’Indonesia ha eseguito la pena capitale comminata a otto detenuti, sette dei quali stranieri, sotto processo da tempo per traffico di stupefacenti. Sale così a 14 il bilancio delle uccisioni di stato dall’inizio del 2015.

Già a gennaio altri sei condannati, di cui cinque stranieri, erano stati giustiziati scatenando l’indignazione della comunità internazionale e le reazioni dei paesi di provenienza, in particolare di Olanda e Brasile. L’Olanda, legata all’Indonesia dal passato coloniale, da anni era impegnata al fianco dei governi locali per il rafforzamento della giustizia e della legalità, ma in seguito a questi fatti ha cominciato a valutare la sospensione della collaborazione. Il Brasile, in ottimi rapporti cooperativi con l’Indonesia, ha fatto di tutto per impedire l’esecuzione dei suoi cittadini: la presidentessa Dilma Rousseff si era spesa personalmente per chiedere un equo processo, ma ogni tentativo è stato vano contro l’intransigenza di Widodo. Entrambe i paesi hanno richiamato i propri ambasciatori da Jakarta in segno di protesta.

cartina indonesia

Photo credit: Source / Public domain

I fatti del 28 aprile hanno aggiunto un nuovo capitolo alla vicenda: questa volta a subire la pena capitale sono stati due australiani, tre nigeriani, un ghanese, un brasiliano (affetto da schizofrenia) e un indonesiano. Le storie dei due australiani, Andrew Chan e Myuran Sukumaran (rispettivamente 31 e 34 anni), hanno fatto il giro del mondo. I due, a capo del cartello chiamato “i nove di Bali”, erano stati arrestati all’aeroporto di Bali ormai 10 anni fa, colti in flagrante nel tentativo di trasportare più di 8 chilogrammi di eroina in Australia. Un decennio di detenzione sembrava averli cambiati: i due avevano organizzato corsi di pittura, cucina e informatica per i compagni detenuti. Sukumaran era stato ordinato sacerdote e Chan aveva sposato la fidanzata poche ore prima dell’esecuzione. La discussione di un ricorso presentato dagli avvocati di quest’ultimo era stata fissata per il 12 maggio, ma paradossalmente la condanna è stata eseguita ugualmente prima della data d’esame. Alcuni mesi fa, inoltre, Chan ha scritto e letto dalla sua cella una lettera-appello agli adolescenti di tutto il mondo affinché non commettano il suo errore e non cadano nella trappola della droga.

«Il mio è un esempio perfetto di un vita buttata».

La sua storia sarà oggetto di un breve documentario, dal titolo Dear Me, trasmesso nelle scuole superiori di Australia e Regno Unito. Il governo australiano presieduto da Tony Abbot ha minacciato ritorsioni verso l’Indonesia e ritirato il proprio ambasciatore in segno di protesta, ritenendo la pena di morte per questi reati una sanzione «cruenta e non necessaria».

La pena di morte in Asia e Indonesia

In Indonesia vige una delle legislazioni più dure in fatto di traffico di stupefacenti. Possesso, contrabbando, traffico di sostanze psicotrope sono sanzionati con pene che vanno dai 18 anni all’ergastolo fino alla pena di morte, che viene eseguita per fucilazione: i condannati, avvertiti con 72 ore d’anticipo, vengono condotti in spiagge deserte o foreste (l’esecuzione è vietata al pubblico). A tutti viene fatta indossare una maglia bianca con un bersaglio rosso all’altezza del cuore e all’alba vengono giustiziati da un plotone di esecuzione posto a breve distanza e composto da una dozzina di elementi. I dati riportano che tra il 2008 e il 2013 non erano state eseguite fucilazioni, riprese poi nel 2013 (5 esecuzioni) e massicciamente applicate dal gennaio 2015.

L’Indonesia non è l’unico paese a prevedere la pena di morte per traffico di droga. In Asia è tuttora prevista per questi reati in Arabia Saudita (dove viene spesso eseguita per decapitazione con una spada), Bangladesh, Brunei, Taiwan, India (alla seconda condanna), Iran, Iraq, Kuwait, Laos, Malesia, Oman, Singapore, Sri Lanka, Thailandia, Emirati Arabi Uniti, Yemen. Secondo i dati diffusi da Amnesty International nel Rapporto 2014 sulla pena di morte solo il 10% dei paesi del mondo la pratica ancora. In termini assoluti le condanne sono aumentate del 28% ma le esecuzioni sono diminuite del 22%. La maglia nera spetta all’Iran, ma i dati sono viziati dalla mancanza di informazioni certe sulla situazione in Cina, dove le esecuzioni capitali sono segreto di stato. Osservando la mappa interattiva del rapporto, solo in Africa e Asia meridionale i paesi si oppongono alla tendenza abolizionista generale.

L’Indonesia di Joko Widodo

Gli ultimi otto uccisi sono solo alcuni dei 64 condannati a morte ancora in attesa della fucilazione delle carceri indonesiane. Tra di loro molti stranieri.

Mary Jane Veloso, filippina di 30 anni, ha evitato all’ultimo momento l’esecuzione di martedì grazie all’arresto, avvenuto nelle Filippine, del boss responsabile del contrabbando. A nulla sono valsi finora i tenativi di negoziazione del governo di Manila e neanche il video inviato dai figli di Veloso a quelli del giovane presidente Widodo ha sortito l’effetto sperato. Le sorti del francese Serge Atlaoui sono invece nelle mani del presidente François Hollande, mobilitatosi per evitare la fucilazione del connazionale. Non è chiaro, tuttavia, in che modo la Francia possa esercitare pressione, essendo solo il 18esimo partner commerciale dell’Indonesia.

Ma come spiegare questa improvvisa impennata nell’esecuzione di pene capitali per reati connessi alla droga?
Secondo gli analisti il presidente Joko Widodo sarebbe in calo nei sondaggi. Eletto nel 2014, Jokowi (come viene affettuosamente soprannominato dai sostenitori) ha conquistato gli indonesiani per la sua giovane età e per la vaga somiglianza con Barack Obama ma, a fronte delle promesse di cambiamento, la sua inesperienza ha deluso le aspettative e gli elettori lo starebbero già abbandonando. Widodo ha quindi deciso di giocare la carta del pungo di ferro contro il narcotraffico per dimostrare di saper usare la forza per il bene del paese. Da qui la decisione di adottare quella che definisce una «terapia shock» attraverso il massiccio ricorso alle esecuzioni capitali: il presidente sarebbe infatti determinato a svuotare la lista entro l’anno, senza accogliere alcuna richiesta di grazia, per risolvere quella che nelle sue parole è «un’emergenza nazionale».

Tags:amnesty international,australia,brasile,droga,joko widodo,narcotraffico,olanda,pena capitale,Pena di morte,stupefacenti,traffico di droga

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