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Inediti di Cristian Santini

Creato il 07 novembre 2014 da Wsf

cris

Christian Santini, 17enne di Civitanova Marche.
Nel 2014 partecipa al Contest del Collettivo WSF per Underground – Voci dal ventre della città e sempre nel 2014 fa il suo primo reading a La Giudecca, Venezia per il Festival Delle Arti, con altri poeti per Underground Voci dal Ventre della città.

Ambra

Dietro la prigione di uno schermo la spio
carezzare col rasoio visioni oniriche
denudare tremanti bisogni alla volta del cielo
e consumarli nella folgore d’un bacio.
In mezzo a relitti di parole livide la contemplo
mentre segue con avido silenzio l’agonia dei miei sospiri
scava nella pelle – come l’avvoltoio
con la carogna –
solchi d’inchiostro tra tormento e vuoto
cercando lo strozzato ritmo
d’un battito cardiaco
oltre i lamenti delle viscere.
Sul trono della malinconia io la venero
confondendomi nel gioco delle ombre cinesi
che intreccia i nostri sguardi –
mentre in questo Golgota rigonfio di desideri
la sua voce simile a edera sfiora
sgretolando le scarne mura abitate da
fantasmi.
E avvolta dalla fragile ambra delle sue illusioni
si concede
estatica
l’anima al martirio
lasciando naufragare paure narcotizzate
nella rugiada delle lacrime.

***

Fame

Ho fame.
Lo stantuffo spinge la dose
cori orgiastici
nella vena del bisogno.
Fottimi.
Fingilo, lo sai fare bene.
Fammi sentire vivo:
è l’algebra dell’antalgico.
Riesci a percepire
le mie urla?
Buonanotte.
Buongiorno.
Che ora è?
Chi sono?
Solo la TV può dirlo.
Mentre ho fame.

***

Icaro

Plano in caduta
come un corvo ebbro di piaghe –
per un volo epilettico – libido
d’un impiccato –
sete avida saziata
col venefico latte delle lacrime.
E m’infrango
simile a Icaro
contro cineree malinconie –
troppo vicino al sottosuolo
mi trascino in quest’eclissi,
tra fantasmi che urlano fame
e ombre appese nel vuoto.
Ma prima che la mia carne rovini
lungo le mura di queste latebre,
solcherò onde di vertigini
come un naufrago spinto alla deriva
sua alcova;
prima che abissali vortici
velino le vitree palpebre
mi scaglierò là
dove tremori ardono
sotto crepuscoli d’ambrosia

***

Crisalide

Mi chiedo
se è pena
o anestetico
spezzarsi le costole con la nevrastenia
dei tuoi sguardi,
bruciare emozioni di paraffina
nella prigione di un cielo
lisergico,
o aprirsi le vene su fogli bianchi.
Per il volere di quale Dio catodico
fui sputato in questo harakiri di anime in vetro
per poi venir inghiottito
dall’ammaliante perdita di ogni appiglio?
Riuscirò ancora a sentire,
tra la moltitudine dei tabelloni pubblicitari che mi attraversano
l’intrecciarsi di paure in un bacio
una dose
o il comprare cose
a caso?
E quanti altri versi dovrò scrivere
per prendere a calci in culo me stesso,
struggermi in cenere
e sentirmi volar via trasportato da un respiro?
Così il mio urlo si perderà
annerendosi
nel buio della crisalide
scomparendo lentamente
come una lucciola rinchiusa in un barattolo.

***

Macerie

Quando la città sussulta morente
gravata da un sole di piombo,
anche il nervoso agitarsi d’un paio d’ali
traccia soltanto un nero graffio
in un oceano di ferro rovente,
e la mia pelle artigliano catene di lacrime e fango
simili a un’edera sopra viscerali macerie,
strappano, a ricalcare i segni d’un eterno rimorso
con lo stesso arido calore della colpa natia
per cui spalancai gli occhi
tra la segreta luce dei palazzi.
Come Prometeo alla roccia,
io, legato a queste mura di brace,
nauseabondo presto l’orecchio allo squallido ticchettio
che ribolle tra costole di cemento, pari a un’ulcera convulsa,
pari a un grembo di fetidi umori
troppo umani
troppo densi di mancanze
per amalgamarsi alle esalazioni del cielo.
E le mie spalle appassiranno sotto questa rugginosa aurora
come sotto le colonne sghembe del fallimento
per non aver potuto abbracciare l’avviluppato letto di stelle –
troppo attratto dalle luminescenze delle lapidi.

***

Scaena delirii

Come la risacca,
nel suo melanconico trascinarsi,
dislega le abissali voci dei Pelaghi –
come l’ultima luce crepuscolare
lungo un dirupo
tuffatasi, scivola tra notturni drappelli di demoni –
così lambisce il mio petto questo pozzo d’illusioni
luminose – pari all’opale,
evanescenti – simili ad ombre.
Brumoso avello dove un fatuo albore geme
e brucia e divampa e urla
fino alla voluttà estrema, si torce
ferito, esala l’ultima fiamma,
per poi spegnersi
ancora spasmodico
nelle fredde spire
della cerulea acqua.
Delirio fugace! –
Ogni arto sibila tremulo
al coro di profonde cloache,
gravido d’affamati appelli
brama la linfa di queste chimere,
come le foglie d’un salice dilaniato
che, macchiate dalle prime piaghe autunnali,
agognano il flagello del vento
perspogliarsi dei rami
loro galere.
Ma è un attimo che danza sopra i tamburi dell’ebrezza –
le prime strida d’un infante –
il respiro ignoto d’un amante –
l’inebriante miraggio di poter sfiorar le stelle
dal fondo d’uno sconfinato baratro
che mi trascina inerme
come uno Stige privo di sponde.

***

Esilio

Rincorro un suolo spoglio di orme
un’urna desolata,
freddo letto per le mie sconfitte –
un deserto
dove dimenticare queste ossa,
dove annegare tra i notturni riflessi
di dune vibranti sotto il gelo della luna.
In cerca d’un taciturno vespro
vacillo tra meati gonfi di grida,
chino come un folle che su di sé abbassa
lame
di visioni adamantine.
E ora lascio che morbosi respiri
intridano rodino strappino
pari a un’orda di convulse larve
i flutti arsi delle viscere –
e tendo queste fragili dita
invano
alle carezze delle chimere –
e le iridi avvolte
in un lutto opaco –
simile a uno di quei viandanti in esilio
marchiati dalla triste sentenza
che ogni sogno ad occhi aperti
rifrange in sé l’eco dell’abisso.


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