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Inediti di Massimo Botturi – proposta di Emilia Barbato

Creato il 22 gennaio 2015 da Wsf

massimo

Sono nato il 31 marzo del 1960, in un comune dell’hinterland milanese.
Erano gli anni del “miracolo economico” e i miei genitori pura statistica delle migrazioni interne. Migrazioni da est a ovest, troppo spesso dimenticate, o sottovalutate. Comunque sia, a casa mia la letteratura era roba al massimo chiusa nei libri di scuola, accuratamente toccati con i guanti perché non si sporcassero.
Il meglio delle mie letture, si riduceva a una sbirciatina serale al Corriere d’Informazione, qualche notizia di sport, qualche autografo di Rivera, che non ho ancora capito quanto fosse autentico, o semplicemente un autentico tentativo di mio padre di indorarmi la pillola amara dello stare solo fino a sera tardi.
La poesia l’ho ignorata fino alle scuole superiori, complice un professore illuminato e appassionato dell’antologia di Spoon River. La sua capacità di eloquenza, il fascino con cui trasmetteva quelli che considerava valori universali e fondamentali, stimolarono in me i primi tentativi di comunicare, a mio modo, un mondo interiore in continua turbolenza. Imparai quattro accordi di chitarra, e a buttarci sopra pseudo canzoncine d’amore, e di disperazione.
Fine dei giochi con il servizio militare, vera tabula rasa di ogni velleità non solo scribacchina, ma anche di studio. Tornai nauseato, con qualche poesiola piena di rabbia e rancore nei confronti di un sistema che non sentivo mio, che non sentivo per nulla a misura d’uomo. Poi il lavoro, rullo compressore, schiacciasassi.
Buio completo fino a 40 anni. Un tentativo nei miei confronti di mobbing male riuscito e la riscoperta di un po’ di tempo libero, mi riaccesero la voglia di leggere e scrivere.
Internet, i siti di scrittura, il confronto, l’incoraggiamento; questa fu la vera miscela che innescò la passione di scrivere con una certa costanza, cosa che perdura e trova motivo di curiosità, interesse e apprendimento continui.
Nel 2003 risposi alla sirena di un editore, il primo libro, nessun contratto, nessun obbligo di copie. Puro piacere di divulgare.
Il fattore sorpresa mi giocò a favore, il libro lo vollero in molti, oggi sorrido alla maggior parte di questi testi, ma erano me allora, e ci sono molto affezionato.
Ho pubblicato altri due volumi negli anni successivi, con più maturità nella scrittura ma anche molto disincanto nei confronti dell’editoria.
Nel maggio del 2009 è uscito l’ultimo lavoro “Il posto delle fragole” nato sotto lo stimolo e la supervisione dell’amico Menotti Lerro, per la Genesi editrice di Torino. La prosa ha sempre rappresentato invece una sfida impari, ho scritto qualche breve racconto, uno di questi “Emilia” risultò tra i 20 vincitori, con relativa pubblicazione, in un volume edito da Marsilio “Parole di carta2” Ma in tutta sincerità, ho sempre avuto un timore referenziale nei confronti di ciò che richiede doti che non sento di possedere. La costruzione di un romanzo, o anche di un racconto che non rappresenti una pura pagina di diario, sono obiettivi che cercherò di perseguire nel tempo.

VERDE

La prima cosa che m’è venuta in mente
non è una veglia da innamorato, estasi e luce;
ma l’erba fina dei miei diecianni
e l’acqua al lago
l’ultimo metro quando ti chiama per i piedi
e fa quell’onda piccola per imitare il mare.
A me i tuoi occhi ricordano chi sono
un piatto di bellezza pulita a mezzogiorno
quando mia zia faceva le parti, e a lei di meno
per crescere i ragazzi più forti e belli sani.
A me i tuoi occhi mettono voglia di toccarli
perché hanno dentro tutte le volte che ho sentito
il cuore sotto la canottiera dar di matto.
A me i tuoi occhi sembrano api a fare il miele
i fichi non ancora maturi, e certe sere
che per svegliarci prima non chiudevamo niente.
Così che i prati ancora da mietere cantassero
col gallo nel pollaio qui vicino.
A me, i tuoi occhi,
mi viene solamente da dirgli grazie
e amen.

**

TERRA

Mi pare fosse proprio d’ottobre
il cielo rosso
di quelli rari e mistici qui, terra fangosa.
Passai coi piedi nudi nel campo di buonora
l’attraversai con giusta lentezza
e venne il seme, il cumulo dell’erba passata da annusare.
Passai ch’ebbi lasciato la mano ad un amico
un poco per rinascere, certo
e per cadere
col tonfo delle mele in un solco arabescato.
Lo feci per avere l’orecchio addosso al mondo
il naso nei germogli, la faccia sulla tetta
là dove il latte della mia Terra nutre i figli.
Lo feci perché avevo l’amore tempestoso
che mi lavava inguini e occhi
e volli berlo.
Lo feci perché volli provare la pazienza
degli alberi e dei sassi
dei tanti contadini. Di tutte quelle donne
e le loro schiene curve, sulle risaie
come le gru. Pensando a loro
toccai quel firmamento nell’acqua
e venni uomo.

***

LAZZARO

Saprai quant’è importante ogni cosa, la infinita
la piccolina e quella perduta.
Il volo breve, il passo di un bambino
dopo la malattia, il bacio di un amico tornato
il canto muto
di mamma mentre spiccia e già pensa a far di cena.
Vedrai come il più sciocco respiro sia possente
un vento tra africano ed indiano
un’acqua cheta, che d’improvviso s’alza sul mondo.
Il tuo destino, il dodici di un mese qualunque
il libro letto, e quello che ti aspetta con gambe spalancate.
Ritroverai il sapore delle amarene nuove
il nettare del fiore che hai strofinato agli occhi;
la tenera peluria di Carla e la morosa
venuta dalle scale come una mareggiata.
Vedrai come si spacca il tuo cuore per davvero
davanti alla bellezza, al dolore, al firmamento
a quel cavallo matto nel prato, agli usignoli.
E proverai più forte quel desiderio antico
d’avere il fiato forte dei vivi tutto addosso;
il grano dentro il palmo di mano, baci intensi
carezze come anatre ai fossi
fare amore.

***

MEZZOGIORNO

Il culmine di mia gioventù è stato un mattino
che sporta con un solo lenzuolo
per la via, guardavi le movenze del piovere
serena
contenta in quasi tutta la pelle.
E quando, ancora, rientrata per il freddo capiente
l’hai intonata
quella canzone tanto più semplice, ma bella
che per la casa tutta veniva una ghirlanda
un avido profumo di mele e di bagnato.
Il meglio deve ancora venire, mi dicevi
senza più orli, nuda, impigliata all’aria fresca.
Uscita come dal ventiquattro alla fermata
in via dell’Umanesimo
la bocca dritta al sole, le labbra come un mio medagliere
un frutto in mano.

***

LE GUERRE NON FINISCONO MAI

Un giorno presentai mille lire al Bar del Centro:
cappuccio e una brioche, per mia madre
che ha paura
di fare le figure barbine. È là seduta
al tavolo vicino lo specchio, mani in grembo.
Sembrava un bel geranio fiorito sul balcone.
Un giorno la portai per le chiese, ai giardinetti
passando per le strade più ricche di Milano;
ma lei teneva occhi ed orecchie belle chiuse
perché il futuro aveva due marce in più di troppo.
E gli alberi sembravano finti, e le persone
su per le scale mobili a far niente di fatica.
Ricordo che stringeva la borsa addosso al petto
attraversando sopra le strisce come a un molo
con sotto due quintali di oceano fangoso:
le onde che arrivavano fin sopra la sottana
le barche che spezzavano cime.
E poi gli aerei.
Gli stessi che sentiva di notte da bambina
fare la luce verso le case
sui fienili.

Potete leggere altro di Massimo Botturi qui: http://massimobotturi.wordpress.com/


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