*
Quando scende la sera l’Apocalisse si avvicina
ed ogni istante viene spiato muoversi
dai vetri del tram
con occhi spalancati dallo stupore
silenzioso interrotto solo a tratti dal miagolare di un gatto
tenuto in gabbietta sulle ginocchia
di uno studente.
Quando scende la sera
inizia piovere sulle pareti
ed i vecchi morti si bastonano le gambe
con reciproci inchini al Malvasia
occhi di lupo
ma quelli di trent’anni restano
con il mento in mano a fissare lo scorrere del paesaggio
post-industriale dipinto
sugli zaini, pochi, del rientro
*
“Piccola mia” non m’ha mai chiamato nessuno
Mentre il residuo di cloro si diradava sui miei gomiti, sulle spalle
non ero già piccola
nella piscina azzurra e cronometrata
sugli asfalti bui fino al luogo dell’impiccagione
mio padre con una corda in mano
Mentre l’orzo borbottava nella caffettiera
non ero già tua
i reggiseni ripiegati nella borsetta
e l’orologio fermo, aggiustato sul braccio
mi chiamavano da ogni angolo della terra, lo sai?
*
Ho pensato ch’era tardi ieri sera
tardi un po’ per tutto
per i pomodori secchi, per le api
per lo spread e il pil, per l’ineleggibilità
per fare il minestrone a cena
era tardi
anche per diventare un tutt’uno con quelle corde
di strumento con la coda
dell’occhio lasciato sul marciapiede domenica scorsa.
Dannatamente tardi, caro
anche per aggrapparmi con più forza
ai tuoi pantaloni di pigiama – perchè no? – tanto
quella volta tu partisti ugualmente…
Tardi per chiudere la porta di casa
per sputarti dal finestrino o per spiarti
mentre telefonavi.
Accidenti, ora che mi viene in mente
è anche tardi per lavorare tre mesi
per un solo biglietto aereo
*
Ad Ottobre, nel secolo scorso, eravamo ancora
tutti buoni borghesi impacchettati
la Domenica, col pollo arrosto sotto il braccio
e il film scorreva elegante
frivolo come quella sera d’inverno ai bordi del ponte Dattaro.
“Cosa stai tentando, ragazza? Che vuoi dire?
Sei giovane
giovane, e ancora giovane. Senza speranza, per la verità. “
Le dita lunghe e arrossate sulla presa
di una polaroid usa e getta
che consumava l’ ansa del fiume, a furia di scatti
e scintillava come un lampione tra le luci del ponte Dattaro.
Nel Gennaio dell’anno Duemila raccoglievamo le bacche per
bottiglie di liquore
con l’amore di guardarle in controluce, all’alba del secolo
rompersi ad una ad una, quasi per miracolo.
Qualcosa di molto grande perdeva senso e la pellicola
girava ancora senza pentirsi di niente
riportando mesi di calze rotte
e poi bruciate nella stufa.
Ma la vita – che fa tanto intellettuale parlare di vita, come m’hai detto
una volta, passeggiando al mercato– la vita era
“Salve, sono la sua nuova segretaria”
e peraltro anche priva
di coerenza metrica
la vita era
“Comprerò chili di rumore e di risate con il mio primo stipendio”
Aveva il sapore del vino caldo
gettato sulla neve
con la paura di perdere una linea urbana affollata.
E ti vedevo partire, da un finestrino limpido e sporco
appannato e umido
sfrigolando la pellicola alcalina
verso un punto di non ritorno.
Non c’è, dunque
non c’è qualche fotogramma, per errore di Dio
che assomigli allo squilibrio di un uomo?
Come un getto di luce arancione, ma senza musica
un primo piano sull’occhio stravolto
sui nodi delle falangi a rovistare nella spazzatura
poco lontano dal teatro?
*
Quando scoppierà la prossima guerra
non mi sai dire dove saremo, dove sarai
non mi sai dire nulla
d’altro canto la guerra sarà domani o dopodomani
o domani l’altro ancora
(e io resto davvero a piegare i miei vestiti da quattro soldi con cura?)
ad ogni modo non ci lascerà sorpresi
continueremo a lavorare dodici ore al giorno
anche se dove, esattamente, ora non me lo sai dire
*
Il vestito in realtà no, non mi stava bene
ricordava molto quel giorno di pioggia a Pisa
dove sola senza ombrello
ma era tardi
eri una persona bellissima e io amavo la bellezza
come si ama una cosa che ci fa ridere
che non si prende sul serio
come un gatto bagnato sul divano azzurro
tra i barattoli di caffè solubile