Talvolta capita di imbattersi in band veramente particolari, che oltre a stupirci per la complessità della loro proposta, ci spingono a chiederci: “da dove è spuntato fuori un gruppo del genere?”. Una domanda simile, in realtà, ce la poniamo di continuo, ma nel caso degli Infero è ancora più legittima. Sui ragazzi si sa poco o niente, se non che provengono da Cleveland, Ohio, e sono in tre: Joe Gulyas, Julian Gulyas e John Daniel. Hanno fatto uscire, negli ultima parte del 2014 (dicembre, più che inoltrato), il loro primo disco, Severe, in cassetta per l’etichetta americana Huju’d Tyrusgr (che sembra essere gestita dal gruppo stesso) e in cd per la Blood Rock Records, che tutti conosciamo per gli album di Doomraiser, Bretus, Der Noir, Winter Severity Index, Graal e via dicendo (produzioni che vanno dal doom metal alla new wave). Per una ragione a noi inspiegabile, non si sa che strumenti suonino: sentendo il disco percepiamo che si tratta di un trio composto da un chitarrista, un tastierista e un batterista, ma nel libretto non è scritto chi di loro faccia cosa (in alcuni pezzi sembra anche che siano presenti alcune tracce di basso). Non hanno scritto nemmeno dove sia stato registrato e da chi, ma solo che ad occuparsi del mastering è stato Dan Swanö, nome che chi segue il death metal dovrebbe conoscere più che bene (nelle fila di Edge Of Sanity, Bloodbath, Katatonia, Therion, Pan.Thy.Monium, Nightingale e mille altri). Non hanno un sito internet, né una pagina Facebook, né qualche altro profilo (eccetto Discogs, che molto probabilmente loro nemmeno gestiscono).
L’unica certezza che abbiamo è che Severe è un album veramente notevole: progressive rock strumentale, quasi per intero (c’è qualche parte vocale sparsa, della quale ovviamente non viene riportato il testo), che riprende molto dai Goblin (in particolare quelli di Profondo Rosso) e presenta diversi elementi riconducibili al free jazz e alla psichedelia, ricordando a tratti anche i Tuxedomoon. Le sette canzoni, pur seguendo percorsi già ampiamente battuti, brillano di luce propria: tutte molto sperimentali e con un gusto molto cinematografico (vedi “Six Edged”), non avrebbero sfigurato in uno dei primissimi film di Dario Argento. Come abbiano fatto – totalmente privi di qualsiasi connessione col mondo 2.0 – a finire sull’etichetta genovese è un vero mistero. Non possiamo però che essere contenti che un gruppo del genere, in un modo o nell’altro, sia saltato fuori e arrivato fino a noi, che ne consigliamo l’ascolto e ne raccomandiamo l’acquisto.
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