di Francesco Gori
Mastodontico. Folle. Intenso. Geniale. Sono infiniti – proprio come “lo scherzo” dell’autore – gli aggettivi che possiamo utilizzare quando si parla di Infinite Jest, il capolavoro di David Foster Wallace. Fare una recensione è cosa ardua, vista la complessità delle oltre 1000 pagine di scrittura infuocata (e quasi 100 di note).
Sì, perché è un fuoco vero, straordinario, quello che anima lo scrittore americano, che in questo romanzo dimostra un talento immenso. Leggendo il tomo viene quasi da chiedersi come sia possibile che un “umano” abbia scritto un’opera di tale spessore: in ogni pagina c’è tutta la sensibilità, la profondità, la conoscenza, il QI di un autore che dà sfoggio del suo sapere mettendoci a nostro agio, mescolando concetti di fisica, matematica, chimica, medicina e quant’altro senza ergersi a intellettuale inarrivabile. Anzi, offrendoci una letteratura fruibile, ad una condizione: una grande concentrazione (e completo abbandono), necessaria per non perdere il filo delle innumerevoli storie, degli altrettanti personaggi, delle osservazioni di una mente acuta come poche.
Di cosa parla Infinite Jest? Prendendo spunto dalla quarta di copertina, di due aspetti che stanno alla base della nostra società: l’Intrattenimento e la Dipendenza. È la seconda a fare da fondamenta: ogni personaggio, come del resto ognuno di noi, ha la propria: dal sesso, dalla competizione, dall’intrattenimento stesso, ma soprattutto quella dalle Sostanze – “una volta che siete così schiavi di una Sostanza da doverla abbandonare per salvarvi la vita, la Sostanza schiavizzante è diventata per voi così profondamente importante che uscirete di senno quando ve la porteranno via”. Quella dipendenza con la quale lo stesso David Foster Wallace ha lottato per tutta la vita. L’intrattenimento fa da filo conduttore e collega ogni storia raccontata: si narra di un misterioso film, così ipnotico da indurre ad un’assuefazione continua, fino a ridurre il soggetto che lo guarda ad uno stato catatonico, anticamera della morte - “un film con certe, a quanto gli è dato di capire dai rapporti, ‘qualità’ per le quali chiunque lo aveva visto non desiderava nient’altro nella vita se non rivederlo di nuovo, e poi di nuovo, e così via”.
Temporalmente, siamo in un’epoca di futuro prossimo rispetto alla data di uscita del romanzo (1996). Un tempo dominato dalle leggi commerciali e pubblicitarie, tanto che ogni anno del calendario è ormai scandito secondo il Tempo Sponsorizzato: l’Anno del Pannolone per Adulti Depend è quello che fa da fulcro per la maggior parte delle pagine, ma gli anni narrati sono anche l’Anno dei Cerotti Medicati Tucks, l’Anno della Saponetta Dove in Formato Prova, l’Anno dei Prodotti Caseari dal Cuore dell’America… e tanti altri.
Siamo ovviamente in America, a Boston, e il Nord America si è unificato con Stati Uniti, Canada e Messico, diventando ONAN (Organization of North American Nations), lasciando una sorta di territorio-limbo, la Grande Concavità.
Due sono le strutture maggiormente coinvolte nelle vicende che si susseguono: la Ennet House, una casa di recupero per alcolisti e tossicodipendenti, e l’ETA (Enfield Accademy Tennis), un’accademia per giovani tennisti che aspirano ad entrare nello show professionistico e situata sulla collina di Enfield.
I personaggi sono davvero tanti e si intersecano continuamente, costruendo una ragnatela gigantesca che avviluppa il lettore. È la famiglia Incandenza a costituire il motore principale, della quale è necessario approfondire la conoscenza (seguendo un ordine anagrafico): James Incandenza, conosciuto anche come Lui in Persona, fondatore dell’ETA e negli ultimi anni della sua vita – interrottasi per suicidio, dopo aver messo la testa in un forno a microonde – appassionato regista di film come appunto Infinite Jest; Avril Incandenza, la Mami, la madre da 197 cm dei figli: Orin, ex tennista divenuto un punter eccezionale, sciupafemmine incallito; il sempre-sorridente-quanto-deformato (da una nascita aracnoide) Mario e soprattutto Hal, il protagonista assoluto, tennista dalle eccelse doti tecniche, benché insicuro di se stesso e consumatore di sostanze “ricreative”.
Altro personaggio principale è Don Gately, ex promessa del football divenuto tossicodipendente da Demerol, poi ripulitosi fino a diventare una sorta di “guardiano” della Ennet. Intorno alla sua imponente fisicità (ha una testa enorme), si stagnano altrettanti microcosmi tra i quali quello di Joelle Van Dyne (e Madame Psychosis), la Più Bella Ragazza di Tutti i Tempi (benché vada in giro con un velo che ne copre il viso) e ago della bilancia nel passato di Orin e James Incandenza, o quello di Randy Lenz, tossico che ama cacciare gatti randagi di notte per poi chiuderli e farli agonizzare in sacchetti di plastica.
Non mancano i travestiti, le drag queen come Povero Tony Krause e i terribile Assassini sulle Sedie a Rotelle (AFR), un gruppo separatista quebechiano tra i più violenti, costantemente a caccia della copia originale del samizdat Infinite Jest, e usarla come arma per far tornare indipendente il Canada.
Per scoprire tutti gli altri personaggi e le loro caratteristiche che fanno di ognuno di essi una peculiarità eccezionale, non resta che addentrarsi nel labirinto “wallaciano”. Disorientante avventura stupefacente. Ed ecco il gioco di ruolo Eschaton, le sfide tennistiche dove il prodigio selvatico fa la differenza e dove si gioca “la guerra infinita della vita contro l’io senza il quale non si può vivere” – “E allora quale sarebbe la differenza fra il tennis e il suicidio, la vita e la morte, il gioco e la sua fine?”-, i monti di Dilaudid di Gene Fackelmann, lo Xpare, il farsi in ogni modo, gli incontri degli Na-Aa-Ca, gli allenamenti senza tregua di Gerhard Schtitt, i visori dei Tp che spuntano come funghi, l’infinita varietà di ‘drine, il guru Lyle, Eric-Clipperton-con-Glock-17 e la sua logica del “Vincere o Morire!”, gli agenti investigativi (Marathe e Hugh Steeply).
La scrittura di David Foster Wallace è innovativa, stilisticamente originale come poche, insieme alla struttura stessa del romanzo, condita di espedienti ortografico-grammaticali fuori dagli schemi: periodi lunghissimi che rendono bene l’iper-eccitazione del Soggetto in preda alla Sostanza, una punteggiatura che ha una sua anima – tutt’altro che classica -, la ripetizione di parole e concetti per enfatizzare il racconto, l’inserimento di figure o piccoli disegni, il tutto articolato in un lessico “infinito”, dove ogni parola cade al momento giusto. Nel linguaggio del genio americano non c’è una regola, ma nel grande pot-pourri tutto si ricompone, ogni piccolo pezzo ricostruisce il grande puzzle, un mosaico di bellezza e tristezza allo tempo. Perché il quadro offerto, per quanto condito di tanta ironia e dosi di grottesco, è lucido, e rispecchia in pieno il tempo di una società complessa, dominata da Intrattenimento e Dipendenza che, con conseguenze di inevitabile tragedia, tentano di annullare la solitudine – “Siamo tutti profondamente soli qui. È ciò che tutti abbiamo in comune, la solitudine”.
Infinite Jest (tradotto da Edoardo Nesi, Premio Strega con Storia della mia gente) è un libro chiaroveggente, rivelatore, magico, sul buio dell’anima, sulla “melanconia o anedonia o depressione”, sul dolore psichico (che l’autore ha provato in prima persona), sul destino, sulla competizione alla quale siamo chiamati fin da bambini (rappresentata dallo sport prediletto di DFW, il tennis), sul Disagio (Il Ragno) in tutte le sue forme, sulla mancanza di speranza e la possibilità di farcela, attraverso espedienti che ognuno escogita nella propria, tragica esistenza, dove “non pensare” è cosa necessaria. È un’enciclopedia cerebrale sulla razza umana e sul mondo moderno nel quale vive, con profonde introspezioni psicologiche che descrivono nei dettagli le devianze della mente.
Quando concludi l’avventura nel variegato universo di DFW ripeti al tuo ego “Bravo, sei riuscito a finirlo!”, ma poi ti accorgi subito che ti manca terribilmente e devi elaborare il lutto. Ti viene un’impellente voglia di riaprilo, lo Scherzo Infinito, e rileggerlo, perché in fondo è impossibile comprenderlo a pieno in un solo giro di lettura, ma soprattutto perché ne senti il bisogno. Proprio come fosse una sostanza della quale non puoi più fare a meno. Che sia proprio questa la dipendenza che ci ha raccontato con così tanta maestria David Foster Wallace?
Per saperne di più consulta l'articolo originale su:
http://www.postpopuli.it/36535-infinite-jest-recensione-del-capolavoro-di-david-foster-wallace/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=infinite-jest-recensione-del-capolavoro-di-david-foster-wallace