Dopo aver mostrato, nella puntata precedente, l’impossibilità di stabilire un effetto immediato della crescita delle masse monetarie sui prezzi, affrontiamo ora la relazione tra inflazione e costi.
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2. Inflazione e costi: il punto di vista della singola impresa
Prendiamo in considerazione una fabbrica di spilli, per seguire un noto esempio di Adam Smith (ma relativo a tutt’altro). La fabbrica produce spilli partendo da materie prime (l’acciaio). Si servirà di energia elettrica per far funzionare i macchinari. Inoltre dovrà pagare i suoi dipendenti. Queste spese sono i costi di produzione dell’impresa. Se la produzione di ogni spillo costa un centesimo, allora l’impresa dovrà vendere ogni spillo a un centesimo più qualcosa (il cosiddetto ricarico o mark up) e realizzerà il massimo dei profitti quando avrà venduto tutta la produzione.
Supponiamo che una delle voci di costo aumenti. Se vuole mantenere il suo profitto, l’impresa tenderà ad aumentare il prezzo.
L’OBIEZIONE DEI NEOCLASSICI
A questo punto l’economia neoclassica obietta che i prezzi dipendono da domanda e offerta, nell’ipotesi (peraltro irrealistica) in un regime di concorrenza perfetta; l’impresa quindi è sempre “price taker”, cioè non è libera di aumentare i prezzi a suo piacimento, pena l’uscita dal mercato. Tuttavia i costi che abbiamo elencato cambiano non solo per quell’impresa, ma per l’intero settore produttivo di cui fa parte e in alcuni casi per l’intero sistema produttivo: il prezzo dell’energia aumenta per tutti e i salari, considerando che esistono i contratti collettivi, aumentano sia per l’impresa in esame che per le sue concorrenti. In sintesi, una parte rilevante dei costi è comune (o almeno le variazioni di tali costi sono simili per tutte le imprese in un settore o in una economia) e nel breve periodo non c’è modo di risolvere il problema riducendo i costi in altro modo, ad esempio acquisendo macchinari più moderni, mentre nel lungo periodo accade che anche molti concorrenti facciano investimenti simili per abbattere il prezzo unitario.
Se questa descrizione fosse realistica, dovremmo attenderci che l’inflazione presenti un andamento simile (sebbene non identico) a quello dei salari nominali, anche nel breve periodo, poiché i salari sono una delle più importanti voci nei costi di produzione.
Variazione dei salari orari nominali [blu], Inflazione [rosso] – Stati Uniti
Si nota che negli anni ’70 l’inflazione aumenta notevolmente di più di quanto aumentino i salari. Difatti nel 1973 e poi nel 1979 vi sono state due note crisi petrolifere che hanno portato l’inflazione a due cifre quasi ovunque nel mondo, innescando il ben noto meccanismo della spirale prezzi-salari. I salari sono infatti solo una delle voci di costo per le imprese. Vanno considerate anche le materie prime, l’energia, il tasso d’interesse, le tasse, ecc.Nel paragrafo seguente seguiremo un approccio a livello di sistema economico nel suo complesso alla relazione costi-prezzi.
3. Inflazione e costi: l’approccio a livello di sistema economico
Partiamo dal Prodotto Interno Lordo. Uno dei modi di calcolarlo è basato sulla spesa: consumi + investimenti + spesa pubblica + esportazioni – importazioni. Un modo equivalente è sommare tutti i redditi (“la spesa di qualcuno è il reddito di qualcun altro” spiegava Keynes). In simboli:
PIL=W+U
dove W è la somma di tutti i salari dei lavoratori e U quella di tutti i profitti.
Ma il PIL, abbiamo detto, è anche la somma di tutte le spese, quindi, nel nostro modello ad un solo bene, è uguale al prezzo (P) moltiplicato per la quantità (Q). Avremo quindi:
P×Q=W+U
Portiamo Q a dividere dall’altra parte e otterremo P:
P = W/Q + U/Q
Cosa sono W/Q e U/Q? W/Q è il costo del lavoro per unità di prodotto. E’ una delle misure più importanti in economia ed è centrale nell’analisi degli squilibri nell’eurozona. U/Q invece è, parallelamente, il profitto per unità di prodotto.
Quindi considerando che, secondo l’ipotesi che abbiamo formulato, le imprese cercheranno di mantenere il più possibile stabile il profitto unitario di fronte all’aumento dei costi, dovremmo vedere che le variazioni del costo del lavoro per unità di prodotto e le variazioni dei prezzi seguono un andamento simile anche nel breve periodo.
Costo del lavoro per unità di prodotto [blu] – Inflazione [rosso], Italia. Dati Istat, grafico di Sebastiano Marino
Unit Labor Cost [blu], Inflazione [rosso], Stati Uniti
LA MICROECONOMIA POST-KEYNESIANA
Il mondo appena descritto e le conclusioni a cui siamo giunti a livello globale sono “microfondate”, cioè basate sui comportamenti degli agenti a livello microeconomico: le imprese (che cercano di mantenere i profitti) e i lavoratori (che contrattano con le imprese i salari, in termini nominali). Tuttavia esse non sono microfondate sulla microeconomia neoclassica, che descrive un mondo ideale in cui un banditore del villaggio declama i prezzi d’asta, i consumatori conoscono perfettamente le caratteristiche delle merci, la concorrenza è perfetta, gli individui massimizzano l’utilità, i mercati sono “competi”, le aspettative sono razionali (cioè gli individui si comportano come se conoscessero il modello), la moneta è solo un velo che nasconde un mondo di baratti, il consumatore è “sovrano” e l’equilibrio è sempre quello di piena occupazione.
Al contrario, la descrizione fornita è basata sulla microeconomia eterodossa Post Keynesiana (in particolare sulle ipotesi di Kalecki) che cerca di descrivere i comportamenti concreti delle imprese e degli altri agenti. Molto altro si potrebbe aggiungere su questo argomento: ad esempio, è realistico supporre che le imprese lavorino sempre a pieno regime con tutti i lavoratori impiegati (piena occupazione)? Vi è motivo di dubitarne. Al contrario, esse conservano un “buffer” di capacità produttiva inutilizzata che viene attivato quando la domanda cresce (si pensi, ad esempio, all’uso degli straordinari).
Per quel che concerne tali questioni rimandiamo all’ottimo testo Introduction to Post-Keynesian economics di Marc Lavoie (Palgrave Macmillan, 2006). Per una sintesi si vedano queste dispense elaborate da Marco Passarella.
Chiaramente quanto qui illustrato non basta a provare in modo rigoroso la relazione causale tra costi e inflazione. Tuttavia un modello di inflazione “cost-push” (guidata dai costi) appare sicuramente più realistico, sia nelle sue ipotesi che a confronto con i dati, rispetto all’idea che siano le masse monetarie a guidare l’inflazione, come sostenuto dalla Teoria Quantitativa della Moneta.
Nelle prossime puntate vedremo la relazione tra l’offerta e la domanda di moneta e in particolare come i prestiti siano correlati con la crescita delle masse monetarie.
[continua]
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