Magazine Cinema
Il Grande Cinema d'Autore Italiano è proseguito nei sempre più bistrattati anni '80. "Inganni" ne è una prova e invito sin d'ora a vederlo, perlomeno chi ha voglia di affrontare un film che tratta a un tempo temi come la malattia mentale e la poesia narrando, con studio e competenza, la vita di Dino Campana.
Dino Campana è nella storia della nostra cultura grazie alla raccolta di componimenti, in prosa e in poesia, "Canti Orfici". E' stato un rivoluzionario del modo di scrivere ed è notissimo a tutto il mondo letterario ed intellettuale ancora oggi. Io che non appartengo a quel mondo non mi sento di parlarne da questo punto di vista, per cui consiglio di leggere la pagina wiki a lui dedicata.
Consiglio anche la pagina dedicata al film nel sito ufficiale di Marina Piperno e Luigi Faccini. Proprio da quella pagina vi riporto la trama, descritta dallo stesso Luigi:
Il film inizia con la crisi del suo amore tempestoso per la scrittrice Sibilla Aleramo. Siamo nel 1916. Due anni più tardi, povero, amareggiato, rifiutato dalla famiglia e dalla società letteraria del tempo, accetta il ricovero nel manicomio toscano di Castel Pulci. Durante la degenza - siamo già nel 1928 -, un giovane psichiatra, Carlo Pariani, attratto dalla poesia dei Canti orfici nel frattempo ripubblicati, cerca di decifrare il mistero della sua creatività. Vorrebbe indurlo a rientrare nella vita e nella società letteraria che, tardivamente, lo ha riconosciuto “grande”. Il rapporto tra lo psichiatra e Campana è ambiguo, rischioso per entrambi. Lo psichiatra “studia” e inquisisce il poeta. Dino Campana si trincera, finge, nega, mendica comprensione. Dai deliri nei quali si rifugia per difendersi dalle intrusioni dello psichiatra emerge Sibilla, severa, invitante. Ma anche la madre, con la quale ha sempre avuto un rapporto improntato all’aggressività. Lo psichiatra non convincerà Campana ad uscire dal manicomio, ma risveglierà in lui frammenti di coscienza e di lucidità, intuendo, ma senza afferrare il segreto della “grande musica” inseguita dal poeta...
Interpretato magnificamente e con evidente trasporto da Bruno Zanin, anch'io come Carlo Pariani a lungo ho pensato che la malattia mentale di Campana non fosse reale, bensì una sorta di espediente per sottrarsi a un mondo che non gli piaceva e dal quale si sentiva persino perseguitato. Il manicomio a suo modo era un luogo protetto, il solo guscio dove poter esprimere liberamente pensieri ed azioni non conformi. Emblematiche sue battute su potere e fascismo durante la lettura del giornale che spesso gli portava Pariani. Certo, c'erano gli incubi, sogni ad occhi aperti, momenti in cui la mente si dissociava completamente dalla realtà, ma chi ne è del tutto esente? Se poi parliamo di un artista, categoria dalla quale un po' di pazzia te l'aspetti e alla quale giustifichiamo bizzarrie d'ogni sorta... Ad ogni modo, persino Pariani dovette diagnosticare, quasi suo malgrado, l'Ebefrenia per il povero Campana.
Il film vanta nomi illustri tra i suoi "lavoratori", che hanno inciso nell'altissima qualità complessiva.
Girato in 35mm, la fotografia è curata da Marcello Gatti (basti citare "La battaglia di Algeri", "Le quattro giornate di Napoli", "Anonimo Veneziano" dal suo curriculum) a colori tenui. C'è uno sfondo sostanziale di grigio che rende nel sottolineare le ambientazioni, così come le abbacinanti - a luce ampia o nel buio con fasci che tagliano le scene - apparizioni dei genitori a volte, dell'amata Sibilla Aleramo (Olga Karlatos, per chi scrive attrice bravissima e molto bella) in altre, nelle visioni di Campana. Il tutto però avviene senza alcun eccesso stilistico, sono sfumature che vanno percepite. Ho persino notato un aumento del colore nei momenti di euforia o collera del Campana, magari ottenuto semplicemente con particolari d'abbigliamento come una cravatta rossa, ma forse è solo una mia suggestione.
Nessun eccesso, ancora dettagli che chi vuole imparare a usare la macchina da presa dovrebbe cogliere, nelle inquadrature. Qua mi riferisco soprattutto al regista. Non saprei definirne la tecnica, ma il passaggio reale-onirico avviene sempre senza far provare allo spettatore uno stacco troppo netto. Realizza, Faccini, un continuum visivo che porta così a vivere la mente del Campana, proprio come per uno schizofrenico per il quale non è percettibile la sua doppia natura come tale. E' un aspetto di questa malattia che sottolineai già in occasione del bellissimo "Diario di una schizofrenica" (1968, Nelo Risi). Faccini gira questo film a ridosso dell'avvento della "Legge Basaglia" e anche se l'istituzione del manicomio in sé non è l'argomento principale non risparmia qualche piccola "stoccata". In fondo il ricovero di Campana nasce come coatto anche se poi il poeta non dà segnali, dopo 10 anni, di voler più uscire da lì. Diverse scene, anche in esterni, sono presentate come riprese da un occhio ospite, che guarda da dietro una delle grate a chiusura delle finestre. C'è ancora il senso di prigionia unito a quello d'intricata situazione nel riprendere i rami d'autunno spogliati, nel giardino recintato. Di forza drammatica e suggestiva le soggettive di Campana, sia adulto che bambino in momenti diversi, che guarda con fare accusatorio i genitori, in particolare una madre da lui terrorizzata.
Come dicevo, dietro a questo film c'è passione e competenza. Se la passione è una dote, la competenza richiede lavoro e studio. Sotto potete leggere le parole dello stesso Luigi Faccini, che ho deciso di riportare qua, non potrei mai spiegare meglio di lui quello che ha fatto. Io vi saluto dicendovi che per me questo regista è una meravigliosa scoperta. Quest'anno avevo detto che volevo approfondire il Cinema Italiano e per intanto farò una rassegna completa dei suoi film, senza interruzioni con altro. Li considero una scuola, e ho voglia di studiare.
Valutazione del film? Olimpo per me.
Ho sognato Campana, con le fattezze di Zanin ovviamente, per 2 notti a fila. Se si hanno determinate sensibilità è una storia, grazie soprattutto a come viene raccontata, che ha una lunga persistenza nel ricordo dello spettatore. Emoziona senza alcuna retorica e per questo il suo realismo colpisce e scuote.
Riconoscimenti:
In concorso al Festival di Locarno (1985)
Menzione Speciale della Giuria
Menzione Speciale della Giuria di Cinema e Gioventù
In concorso al Festival del Cinema Neorealistico di Avellino (1985)
Laceni d'oro a Bruno Zanin, Mattia Sbragia, Luigi Faccini e Marina Piperno
Nastro d'Argento per la fotografia a Marcello Gatti (1986)
Nastro d'Argento Speciale a Luigi Faccini (1986)
Robydick
ecco le parole di Faccini dalla pagina del sito dedicata al film:
È il 1972 quando apprendo dell’esistenza di Dino Campana. Della sua poesia, naturalmente. Sono ad Arezzo, immerso nell’esperienza basagliana che in quegli anni, preparandosi alla chiusura dei manicomi, tentava di aprirli alla società esterna: da luoghi di reclusione a luoghi di visita e frequenza, da luoghi morti a luoghi vivi. Ero lì, un po’ casualmente, come regista che avrebbe dovuto prelevare frammenti di quel tentativo per un ciclo di trasmissioni televisive dedicate alla “riforma sanitaria”. Mi ci appassionai, a tal punto che ad Arezzo dedicai un’intera puntata del programma. E ci tornai, per due anni di seguito, in una funzione del tutto inventata, quale animatore di quel vuoto, di quella stasi, di quel silenzio rotto da grida improvvise che era il manicomio, che è ancora dove non sono totalmente chiusi. Agostino Pirella, braccio destro di Basaglia e direttore di quell’Ospedale, mi consentì di vivere in mezzo ai degenti; guai chiamarli matti: matta era la società che li discriminava, in quanto strani, diversi, disturbati, poco produttivi. E molto era vero: quanti contadini erano stati confinati in manicomio da famiglie spazientite, che altro avevano da pensare? L’Ospedale Psichiatrico di Arezzo riuscì, infatti, a dimettere, e ricollocare in case-famiglia, nel corpo della città o nei suoi dintorni, decine e decine di persone. Li filmavo con una telecamerina Akai 1/4 di pollice, consentendo a gente reclusa da trent’anni di afferrare un microfono e dire (il più delle volte tacendo, tragicamente) qualche parola sensata o suono mozzo. Trascrivevo le registrazioni e partecipavo al rito di “apertura” del manicomio, quando vi affluivano parenti e amici che si incontravano con infermieri, medici e degenti, ripristinando percorsi di vita, cominciando, quindi, a distruggerlo, come luogo di segregazione definitiva. Drammatiche erano, spesso, le riflessioni post-assembleari, quando le contraddizioni emerse venivano analizzate in ogni loro implicazione e dinamica. Fu per me un’esperienza squassante, formativa come nessun’altra. Avevo poco più di trent’anni. L’età in cui Dino Campana, ridotto allo stremo delle sue capacità di resistenza nel mondo che lo circonda, un po’ getta la spugna, un po’ viene espulso da madre, padre e comunità di Marradi. Ma tutto questo non lo sapevo ancora. Perché Dino Campana, fino a quei giorni, per me non era che un nome nell’antologia poetica del Novecento... Una mattina, prima di immergermi nell’impegno quotidiano di “ascoltatore”, pesco in una libreria di Arezzo una copia dei Canti orfici, in edizione Oscar. Sfoglio. Leggo suoni. Ascolto colori. “Andavamo andavamo, le vele molli di caldi soffi...”, leggo. Io sono ligure, di Lerici, discendente di marinai, spesso morti per acqua furibonda. Ho una madre genovese, nata da migranti lericini. È un mancamento istantaneo che mi prende. E poi: «Usted quiere mate?». Qualcuno, nella pampa, si rivolge a Dino Campana e gli offre la bevanda nazionale argentina. Sono con lui, immediatamente, di notte, sotto un cielo chissà se stellato o nero come pece. «E per i vicoli che in alto sale... che bianca e tremula salì...». Ed eccomi a Genova. A casa di mia madre. Sui moli dove mio padre attraccò nella sua brevissima giovinezza, senza sapere quanto breve sarebbe stata. Il viale che porta al fabbricato tozzo, ma signorile, della direzione dell’Ospedale Psichiatrico di Arezzo, è fiancheggiato dai tigli. La brezza spiuma i fiori dal profumo caramelloso. Io leggo e viaggio con Dino. Mi ha portato con sé sulla Verna, dove voleva salire “come il falco”. Un degente, contadinello insieme stolto e furbesco, sta a cavalcioni di una panchina in pietra. Piega il collo per curiosare. Mi avvicino. Gli mostro la copertina del libro. «Sono poesie...», dico. «Vuoi sentire qualcosa?». Annuisce. «O siciliana proterva opulenta matrona...». E trascino ‘il matto’ nei vichi marini, nella notte mediterranea, nella devastazione, occhiuta. Tremo, leggendo. Batto il piede, cercando la cadenza erotica di quei versi. Smetto e guardo quella faccia pallida, dagli occhi spalancati, che sorride, come se mi prendesse in giro. «Ma questa non è poesia, è musica!», dice. Devo a quel ‘matto’ e a Dino Campana, abbandonati da chi non era stato capace di amarli, la fulminazione che mi ha portato a covare Inganni, ispirato al mio Campana e a tutti i matti che vado ancora cercando nella vita. Durò dodici anni l’attesa e la sceneggiatura fu scritta e riscritta un’infinità di volte. Moravia disse trattarsi di «un film campaniano». Mai complimento fu più gradito...
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