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Di recente ha avuto il mandato di rievangelizzare l’Europa e muove i primi passi alla guida del dicastero che gli hanno cucito addosso ad hoc. Fa tenerezza, monsignor Rino Fisichella. Soddisfatto della promozione, senza dubbio, ma preso da un velo d’ansia, come se non sapesse da cosa cominciare: moltiplicare le processioni e le recite pubbliche del rosario oppure un bel dibattito pubblico con il presidente della Fondazione Italianieuropei? L’indugio ansioso è subito sciolto, vada per la seconda.E dunque eccolo, il Fisichella. Si è sempre mosso più da mondano che da chierico, habitué di ogni girone alto della società secolarizzata, masticando più politica che teologia, più quotidiani che Bibbia: è lui che mandano a rievangelizzare l’Europa, probabilmente sanno già da cosa comincerà, lo avranno scelto proprio per questo. Da dove volete che cominci? Da un bel dibattito pubblico sul tema delle radici cristiane d’Europa, con Massimo D’Alema.
Mentre seguo il dibattito, mi viene da pensare a Peppone e don Camillo: si sono già spartiti Brescello, ma continuano a far finta di lottare, di fatto convivendo grazie a un patto, neanche tanto tacito… Faccio per vergognarmi di questa volgare analogia, ma è proprio il moderatore a proporla chiudendo il dibattito: Piero Schiavazzi paragona D’Alema e monsignor Fisichella proprio a Peppone e don Camillo, senza pudore. Citando Nadia Urbinati, Schiavazzi dice che “un certo grado di tensione tra la sfera civile e la sfera religiosa è fisiologico per la democrazia: questa dialettica non deve essere mai repressa, ma non può essere mai risolta”. Si è data replica dell’antico muso-contro-muso narrato da Guareschi, ma un minimo d’etica condivisa è possibile.Non ha torto nel tirare queste conclusioni. Infatti, D’Alema ha detto che “l’Europa ha bisogno – in modo vitale, in questo momento – dell’apporto cristiano per restituire forza ai suoi valori e al suo progetto” e ha detto che per lui è stata una grande stronzata levare dalla Carta europea il riferimento alle radici cristiane d’Europa. E però ha detto pure che bisogna fare un compromesso (una vera mania, da Togliatti a Berlinguer, e oltre): i non credenti devono riconoscere che “la fede religiosa è un lievito essenziale per una società più giusta, per una comunità autenticamente umana”; e i credenti devono riconoscere che “non c’è un monopolio dell’etica, [e che] ragioni integralmente umane possono fondare un impegno personale, civile, politico coerente con i principi etici”.Ha letto i più recenti documenti ufficiali del magistero sociale della Santa Sede, ha letto le ultime prolusioni della Conferenza episcopale italiana – ha tenuto a far sapere, come se un politico potesse farne a meno, ma lui no, perché è D’Alema – ed è tutta roba che gli è piaciuta; e rammenta l’udienza che Giovanni Paolo II gli concesse (non rammenta la sua presenza in San Pietro alla canonizzazione del fondatore dell’Opus Dei, vabbe’, non si può rammentare tutto); e, insomma, non avendo una zia suora, cerca come può di far capire che ha comunque le referenze per un dialogo con il mondo cattolico, anche se si è sempre dichiarato non credente.Dialogo che vorrebbe in esclusiva: chiede che la Chiesa molli quei politici che intenderebbero “usare il cristianesimo come ideologia dell’occidente”. Poi, dopo una mezza dozzina di ellissi che vanno a convergere su Berlusconi: “Lasciate che io dica esattamente il contrario di quello che ci si potrebbe aspettare di ascoltare da me. Altro che chiedere alla Chiesa e al mondo cattolico di non ingerirsi. Io direi: ingeritevi. Se non ora, quando?”.
Eccoci al cuore della questione che sta dietro a tutte le magniloquenze: D’Alema chiede alla Chiesa un aiutino. E tuttavia, quando fa riferimento a “quel cristianesimo che annuncia la liberazione dell’uomo”, mostra di non capire che arriva in gran ritardo: quel tipo di cristianesimo è stato bollato come poco cristocentrico, adesso va di moda un altro cristianesimo. Mostra di non capire che la Chiesa non potrà mai rinunciare al monopolio dell’etica, non potrà mai negoziare su quanto non ritiene negoziabile, non potrà mai consentire che ragioni integralmente umane estrudano il trascendente dalla nomopoietica. Insomma, D’Alema mostra di non aver capito un cazzo della Chiesa degli ultimi trent’anni. Peggio: pensa che il pragmatismo che il suo compare Amato ricicla dal pragmatismo di Acquaviva possa tornar buono a stabilire un nuovo patto con le gerarchie ecclesistiche, come, quando e se il blocco sociale di questo centrodestra dovesse sfaldarsi costringendo Santa Sede e Cei a riposizionarsi. Pia illusione, ma vediamo da dove muove.
“L’Europa rischia di smarrire i suoi valori” e, se li perde, “perde la sua forza maggiore”. E quali sono? Per Massimo D’Alema sono la libertà e la tolleranza. Si può convenire, come no, ma precisando che si tratta di valori che l’Europa ha scoperto solo assai tardi nelle forme comunemente intese oggi. Infatti, bisogna far subito chiarezza: la libertà di cui parla D’Alema include o no quei diritti non ritenuti tali prima della rivoluzione americana e di quella francese? Immagino non si tratti della libertà di cui ci parla il Socrate di Platone, penso non sia la libertà che si esaurisce nella definizione che ne avrebbe dato Seneca; forse non è neppure la libertà per come è intesa nel Sillabo di Pio IX. Idem per la tolleranza: suppongo che D’Alema pensi più a Voltaire che a Marco Aurelio; quando dice tolleranza, credo intenda più quella mostrata dai musulmani verso i cristiani nella Sicilia sotto l’islam che quella mostrata dal Papato verso gli ebrei dal IV al XIX secolo. Sulla libertà di coscienza, sulla libertà di parola e di stampa, sulla stessa democrazia e perfino sullo stesso liberalismo, la Chiesa cattolica è venuta a dover cambiare idea e il cambiamento non è venuto dal suo interno ma dalle cannonate avute dall’esterno: fino a poco più di un secolo fa considerava la libertà di parola e la democrazia come due cancri della società. E dunque?
A parte Quell’“ingeritevi” è poco appropriato: si sono già ingeriti l’ingeribile.
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