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Inside the heart

Creato il 25 maggio 2015 da Emialzosuipedali @MiriamTerruzzi

Le selle gocciolano di pioggia, le biciclette appese nell’attesa si specchiano male nelle pozzanghere mai ferme. Sotto i tendoni c’è il rumore dei rulli, tutt’attorno il brusio della gente che guarda, con gli ombrelli uno sopra l’altro. La Lotto Soudal è abituata a questo tempo da Belgio. Sui rulli c’è Sander Armee con la divisa da crono attorcigliata sui fianchi. Gocciola sudore come la pioggia là fuori, ogni tanto si rialza, si asciuga e riprende a pedalare a testa bassa.
Adam Hansen scosta la tendina del pullman, ha il casco da crono in una mano, lo sistema sulle appendici della bicicletta di fianco a quella di Sander e poi sale anche lui. Scherza con un meccanico, sorride.
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Mastica una gomma, ci fa i palloni mentre chiacchiera con il compagno di pedalate fisse. Poi ogni tanto abbassa la testa, si rialza, si sistema l’orologio e ancora testa bassa. Iron man, lo chiamano. Ha cominciato a praticare il triathlon dall’età di diciassette anni, ha vinto due Crocodile Tropy, una gara australiana di mountain bike considerata la più dura al mondo e negli ultimi tre anni è stato l’unico atleta a finire Giro, Tour e Vuelta. Adam vuole battere il record di dodici Grandi Giri consecutivi completati che appartiene allo spagnolo Bernardo Ruiz. Per farlo dovrà stringere i denti fino alla fine del Tour de France 2015.

Al Giro ha vinto due anni fa, in una giornata come questa. Un arrivo solitario ed incredulo dopo una fuga, a Pescara, in un pomeriggio di pioggia.
Attorno a lui si muovono i meccanici con i telai, svitano qualcosa, aggiustano una sella, un manubrio: una piccola fabbrica viaggiante. Adam guarda di nuovo l’orologio al polso. E’ quasi ora. Si asciuga la faccia con l’asciugamano e si allaccia il casco.

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Prende la bici e mentre sta uscendo per andare in partenza gli si avvicina un ragazzo che vuole una foto. Le mani che tengono il cellulare tremano, come in tutti questi casi. La fotocamera non si apre mai o forse non si riesce a trovarla frugando tra tutta quella emozione. Il ragazzo sta immobile sotto la pioggia e Adam si batte una mano sulla coscia scherzando. Forse in inglese gli dice di far presto, che c’è poco tempo. Ma resta fino a che un meccanico scatta la foto e restituisce il cellulare.
You are my idol!” gli dice quello stesso ragazzo, mentre lui sta per allontanarsi. Urla, quasi, con la voce emozionata: “You are the best cyclist in the world, Adam. For me, you are the best!
Lui sorride, ringrazia e si allontana. A me resta dentro quella voce nella pioggia. La voce di quando ti fai coraggio e devi dire una cosa importante. Nel ciclismo, gli incontri tra tifosi e ciclisti sono frettolosi e commoventi. Vorresti gridare tutto quello che hai sempre voluto dire quando lo vedevi far fatica davanti alla tv: stringere i denti, soffrire, resistere, vincere, perdere e di nuovo rialzarsi.
You are my idol.
L’emozione di averci parlato, anche solo per un istante, non se la dimenticherà più. Ecco perché, forse, il ciclismo è uno di quegli sport che ti rende felice davvero.

L’ammiraglia si inoltra tra le viuzze di Treviso per raggiungere la pedana di partenza dove Adam aspetta il breve conto alla rovescia. Un piede a terra, uno già agganciato al pedale. E la solita gomma da masticare con la quale gioca forse per alleviare qualche tensione. Quando sente il suo nome dallo speaker, sorride e fa un gesto con la mano al pubblico per chiedere ancora più tifo, ancora più urla, ancora più applausi.

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Tre lunghi suoni acuti e poi via. Zero. Giù dalla rampa verso quei chilometri solitari pur in mezzo a tanta gente. L’asfalto intriso di pioggia riflette la sagoma della ruota: una breve e irregolare scia. Regolare è la pedalata di Adam, il ginocchio sinistro si apre appena, ma solo leggermente. Contro il rettilineo tutto uguale dei primi chilometri c’è la sua figura possente, le gambe da passista e le anche che quasi sembrano scandire il tempo, assieme al rumore dei tergicristalli nel silenzio. Qualche voce ovattata arriva da fuori. La gente si assiepa alle curve, sugli incroci e nei centri dei paesi poi, a mano a mano, sciama. Adam si sposta a sinistra e poi a destra. Poi ancora a destra. E’ una cosa tra lui, la strada che per ora è diritta e la pioggia che non smette neanche per un istante. Gli batte fitta sulla schiena, sul body che è come una seconda pelle. Le ruote sono come mulini, schizzano l’acqua ovunque, continuamente. La portano su, poi giù.

Pioggia che diluisce i pensieri e poi li riforma. Tic tac come un orologio insistente. Tic tac sul casco lucido: tempo che cola sulla visiera trasparente come le gocce sul vetro dell’ammiraglia. Il rumore sordo della ruota lenticolare nel silenzio della strada che corre.
Un urlo sporadico:
Adam.
Dai Adam.
Un applauso e un bambino che corre lungo la carreggiata, chiuso in una mantellina verde che lo fa sembrare una creatura dei boschi. O delle vigne che ora scorrono lungo la strada: colline verdi, ancor più verdi per la pioggia che manda via il sole e disseta le radici di questa terra che prepara la sua uva. Uva da vino. Vino che scalda gli anziani che aspettano i passaggi seduti sulle sedie sgangherate del giardino in questa strana giornata quasi autunnale. Si comincia a salire. Adam si alza sui pedali. Si sale poco ma si sale. Colline. E paesi in cima. Un campanile e le case antiche di pietra con le finestre piccole e i cortili e i piccoli pollai e le verande per le sedie in vimini nella calura estiva. Piove meno, adesso. Le urla sono di più.
Adam Hansen, è Adam Hansen.

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Nel ciclismo funziona così, prima si fa il tifo, poi si guarda incuriositi il nome sull’ammiraglia al seguito. Allora si urla di nuovo, forse più forte.
Vai Adam. Avanti così che vai bene” grida un signore.
La musica, odore di carne alla griglia, di fritto, di vino. Adam scollina e prende le curve con prudenza. Laggiù sembra uscire un sole timido, quasi invisibile, ma l’asfalto è ancora fradicio, piove ancora.
Ancora colline, ancora vigneti. La strada sale, lui si alza di nuovo sui pedali. C’è ancora più gente. Sono gli ultimi chilometri e sono ancor più duri. Ali di folla che applaude, che urla su quello strappo dove si deve per forza andar più lenti.

Un po’ viene da piangere per quella stupida commozione che ti prende quasi per forza quando attraversi il cuore di questo sport. Ogni volta. Ancora di più oggi: seguendo la scia del corridore riesco a sentire ancora di più tutto, ancora più a fondo. L’ultimo tratto in salita, ancora gente, ancora di più. Entra un po’ di pioggia dai finestrini semi aperti ed entrano le grida come un uragano.

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Adam scollina, la prossima asperità è quella con la scritta Arrivo in cima. L’ultima dopo una discesa e una curva secca a sinistra. Lui scende e poi rilancia. L’ammiraglia devia e non lo vedo più. Troverà i massaggiatori ad aspettarlo e loro gli arrotoleranno un asciugamano al collo, lo guideranno e gli diranno di fare tutto il giro fino ai pullman. Fino alle docce.
Cronometro. Piccolo, infinito e silenzioso viaggio dentro sé stessi; pedalate sempre uguali come lancette del tempo. Dietro i tergicristalli dell’ammiraglia che lottano con la pioggia è più facile sentire. Sentire il silenzio, ancora più da vicino.  Lì sta il segreto. Nella sagoma dei polpacci di passista contro l’orizzonte di un cielo bianco si può leggere un po’ di carattere, un po’ di destino.
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