Primo Maggio 1968: il creativo ingegnere bolognese Giorgio Rosa, con la sua SPIC (Società Sperimentale per Iniezioni di Cemento) brevetta una piattaforma di calcestruzzo armato e acciaio 20×20, ad 8 metri dal livello del mare, ma soprattutto fuori dalle acque territoriali italiane. Un particolare fondamentale, a cui si appiglia per dichiarare la neobattezzata “Isola delle Rose” come Stato libero, o “Libero Teritorio de la Insula de la Rozoj” in esperanto, dichiarata lingua ufficiale. Per Ministri ci sono la moglie, i parenti e gli amici più un campione tedesco di sci nautico agli Affari Esteri; redige una Costituzione, comincia ad erogare francobolli e a progettare di espandere verso l’alto la struttura (secondo perizie esterne può sostenere fino a 50 piani, lui ne ha già in mente 5). Finisce sui rotocalchi, se ne fa un caso internazionale, diventa la moda dell’estate, la frequentano turisti, attori, magnati (si dice anche politici, giudici e forze armate), ma alla fine la burocrazia italiana ha la meglio: l’Isola è prima occupata militarmente e poi fatta saltare in aria, e non se ne troveranno resti se non nel Luglio 2009.
Non è la trama di un film, ma una storia realmente accaduta (e in modalità più surreali di quanto sembri), una pagina dimenticata di storia italiana che di certo non troveremo mai nei libri di storia. Non ci si lasci ingannare dal periodo storico, dalla località o dagli intenti pacifisti: il pittoresco Ing. Rosa, tuttora in vita, si definiva (coerentemente) un liberale, nonostante con tutta probabilità coltivasse spirito ed ambizioni oltremisura anarchici. Non scelse mai, neanche lontanamente, la via della forza bruta per ottenere l’indipendenza della sua creatura, anzi cercò sempre proprio quelle vie legali che, alla fine, affossarono del tutto la sua idea.
Il duo Bisulli/Naccari adotta uno stile sostanzialmente sobrio per un documentario, puntando soprattutto sui contenuti, sul montaggio veloce e su una costruzione narrativa lineare che alterna sapientemente testimonianze di oggi e di ieri. Non mancano le risate, ma di quelle che quando finiscono ti fanno tornare serio e riflettere a lungo. Se vogliamo trovare qualche pecca a quest’opera è che manca un po’ di contraddittorio: saremmo curiosi di sapere, al di là delle sacrosante motivazioni di libertà ed indipendenza, quale sarebbe stato il tornaconto economico per l’Ing. Rosa se tutto fosse andato secondo i piani, visto anche il cospicuo investimento effettuato (100 milioni di lire nel ‘68). Certo un punto di vista non molto romantico, che non avrebbe forse reso giustizia a quel che l’Isola delle Rose simboleggiò, al di là delle intenzioni stesse del suo creatore: il sogno di poter creare il proprio mondo da zero, senza costrizioni né vincoli, che è in parte l’essenza stessa dell’utopia sessantottina.
Angelo Mozzetta