Mo’ che negli Usa si è consolidata quella sciagurata moda dello slam, viene rivalutata pure gente come gli Internal Bleeding, ai quali viene attribuito il discutibile merito di essere stati tra i primi a perpetrare quel colossale fraintendimento in base al quale si possa suonare death metal senza essere in grado di scrivere canzoni. Per carità di Diavolo, i Disgorge o i Brodequin (Instruments of torture è il piccolo Panzer Division Marduk del sottogenere) ogni tanto sono divertenti ma è lo stesso discorso dei film splatter estremi alla Violent Shit o August Underground. Un paio di volte all’anno sono ok ma ho sempre di molto meglio da fare. Idem con patate per lo slam. E lo scrive uno al quale l’ultimo Devourment è pure piaciuto.
Negli anni ’90, con i mostri sacri al massimo della forma, i gruppi death metal americani di seconda fascia si beccavano sempre stroncature impietose sulle riviste. Stroncature che a volte, con il senno di poi, possono pure sembrare esagerate ma che erano comunque giustificate da una semplice constatazione: con tutto quello che stava uscendo nel 1995, per quale accidenti di motivo avresti dovuto perdere tempo appresso agli Internal Bleeding? L’esordio Voracious Contempt, pubblicato proprio quell’anno, anche riascoltato oggi si conferma una rottura di palle colossale. Le cose non migliorarono con il successivo The extinction of benevolence (il rimbombo del basso nei rallentamenti può mandare in paranoia i soggetti più sensibili) nel quale, in compenso, consolidarono un immaginario guerrafondaio e repubblicano all’ennesima potenza da mandare in solluchero Ted Nugent e Sarah Palin. Immaginario che, ovviamente, troverà le punte di massimo sfogo dopo l’11 settembre con il programmatico Onward to Mecca, che era rimasto il loro ultimo parto discografico fino a oggi. Va detto che, nel frattempo, avevano trovato un loro sound. Driven to conquer, classe ’99, non era male. Pezzi più strutturati e moderni, un po’ come stavano facendo contemporaneamente i Dying Fetus. Su Rage ci sono pure gli stacchetti fusion alla Cryptopsy.
Imperium esce a dieci anni da Onward to Mecca e riprende un po’ il discorso da lì. Il debito nei confronti della band di John Gallagher resta pesantissimo, tanto che in certi casi è solo il rantolo ai limiti dello screaming dell’ex Catastrophic Keith DeVito (della vecchia formazione sono rimasti solo due membri su cinque) a far capire di non essere di fronte a un avanzo delle sessioni di War on attrition. Le canzoni sono banali e prevedibili e fin qui, trattandosi di brutal death, non sarebbe neanche un problema di per sé. Il guaio è che a latitare è pure la cattiveria, e la scelta di muoversi soprattutto sui mid-tempo finisce per annoiare e smussare l’efficacia dei rari assalti all’arma bianca. L’impressione è che gli Internal Bleeding non abbiano più voglia di premere sull’acceleratore a tavoletta (il che, a una certa età, è pure giusto e normale) ma non abbiano ancora l’ispirazione, il coraggio o le capacità per saltare il fosso del tutto e darsi a un brutal più tecnico e sfaccettato. Peccato, perché i momenti migliori sono proprio quelli dove spunta qualche chitarra più pulita, come The visitant e Castigo corpus meum, unico vero guizzo dell’album, che giunge purtroppo a tempo ormai scaduto. Poi non stiamo parlando di un gruppo di scalzacani, quindi, se siete appassionati duri, Imperium potrebbe pure piacervi. E forse l’unico problema vero è che oggi, nel 2014, con una vita decisamente più impegnativa di vent’anni fa, il tempo da perdere appresso agli Internal Bleeding l’ho trovato. Vedete voi: