La rete e Gezi Park
Cosa sta succedendo davvero in Turchia? Difficile dirlo, anche perché dovremmo conoscere un Paese enorme, con una storia estremamente complessa, sospeso tra oriente ed occidente e di cui spesso confondiamo anche quale sia la capitale. Istanbul non è la Turchia. È certamente la città più grande, più europea, più aperta, più turistica, ed in cui anche la società è un modello unico, proprio perché vi è un incrocio di popoli e culture straordinario. Istanbul è anche la città più giovane, più ricca, più dinamica, e, secondo i nostri parametri occidentali, quella con il livello di istruzione medio più elevato. Un paese di circa 80milioni di persone di cui 8 residenti tra Istanbul e la sua enorme regione periferica. Ad una laica e moderna Istanbul si pone quasi specularmente una Turchia prevalentemente rurale, conservatrice, con grandi sacche a orientamento politico religioso.
A tenere insieme il paese, avamposto Nato strategico in una regione limitrofa alle repubbliche ex-sovietiche, all’Iran, Siria e Iraq (giusto per declinare il contesto) un governo laico di centro, erede di quel contesto di oltre trent’anni fa in cui ex-militari trasformati in presidenti di improbabili repubbliche dal Pakistan di Musharraf all’Egitto di Mubarak.
Veniamo quindi, in questo contesto, ai fatti di queste ultime settimane.
Circa un anno fa l’amministrazione comunale di Istanbul ha approvato il cambio di destinazione del Parco di Gezi (in un quartiere prevalentemente universitario) in zona edificabile concedendo una maxi-lottizzazione per la realizzazione di un centro commerciale. La mobilitazione per salvare il parco, da parte di giovani, universitari, docenti artisti e intellettuali, andava avanti da un anno, pacificamente, sino a quando con l’arrivo delle ruspe poche centinaia di persone hanno deciso un’occupazione pacifica del parco. Ovviamente la protesta di Gezi va inserita in un contesto più ampio. Dopo dieci anni di crescita economica a doppia cifra la Turchia risente la crisi economica complessiva, la staticità politica non ha mai favorito un vero e proprio ricambio generazionale e i partiti più radicali non hanno mai avuto una vera occasione per avere voce in capitolo. Le spinte del contesto arabo sembrano aver offerto un’occasione forse irripetibile. Unire e cavalcare la protesta dei giovani di Istanbul, per una pressione internazione dei ben più ampia portata e di diversa natura, e soprattutto con diversi obiettivi. La scintilla contestuale alle proteste di Gezi è stata la proposta della regolamentazione del commercio di alcol e tabacco a livello nazionale, lasciando quindi meno spazio ai municipi e soprattutto alle diverse sensibilità locali sull’argomento: una normativa che molti hanno visto come restrittiva, ma che in realtà è la semplice introduzione di licenze commerciali per la vendita di superalcolici come ovunque, e un limite pubblico al fumo, come ovunque.
A livello mediatico quello cui assistiamo è una comunicazione su temi e parole d’ordine identica a quella delle proteste tunisine ed egiziane; un po’ troppo identiche, se teniamo conto della differenza storica, sociale e culturale tra questi paesi, e quindi tra queste storie. Sembra quasi che la comunicazione soprattutto in rete sia più orientata a legittimare una protesta verso l’occidente, ovvero sia strutturata per dare all’osservatore esterno quello che lui desidera che accada. Usare hashtag come #occupygezi è un modo per far rientrare quella protesta nel contesto dei vari occupy occidentali, quasi metterci un timbro, un marchio, che in qualche modo implichi simpatia, vicinanza, appartenenza. Si è parlato spesso della “onnipotenza” dei social al tempo delle proteste, anche se nessuno dopo queste affermazioni tanto preliminari quanto frettolose, si è preso la briga di ammettere poi, dati alla mano, che il ruolo dei social in questi casi è più di comunicazione “all’estero” che non di organizzazione interna. In Iran ad esempio si parlò di “movimento verde organizzato via Twitter” per poi scoprire che erano meno di 2mila i profili twitter registrati da cittadini iraniani e che oltre la metà di questi profili era di dissidenti o studenti residenti all’estero. La Turchia non è l’Iran, dove sono circa 400mila i profili twitter registrati (di cui 300mila residenti in Turchia e di questi 230mila a Istanbul). Anche in questo caso quindi il vero rischio è che questa protesta sia quella che noi vorremmo vedere, semmai continuando a riconoscere un ruolo straordinario alle dinamiche social, e che la grande quantità di informazioni che ci arrivano attraverso questi canali, siano più “un messaggio verso l’occidente” che non un “racconto interno”. E non è un caso che infatti le parole d’ordine, gli hashtag, i twitt maggiori, siano in inglese. Il 90 per cento dei tweet provenienti da quella zona, secondo il Social media and political participation laboratory contengono i tre hashtag fondamentali:#direngeziparki, presente in 950mila tweet, #occupygezi, 170mila e #geziparki, 50mila – e tuttavia non possiamo non rilevare come questo istituto sia anche finanziato dai NeoCon, ovvero quei conservatori che vedono nei social network lo strumento per combattere una seconda guerra fredda per l’esportazione di mercato democrazia e libertà, e per i quali un firewall è un novello muro di Berlino (per quanto smentiti anche semplicemente sul piano tecnologico).
Qual è il rischio di tutto questo? Semplicemente lasciarci abbagliare da ciò che vorremo che fosse.
Scordare con troppa leggerezza la storia recente, e non considerare che proteste giuste, concrete, legittime, sono state il grimaldello per partiti estremisti, religiosi, che sino a ieri avevano poco spazio e credibilità anche per interloquire con l’occidente. Ed anche qui il rischio è tutt’altro che remoto se consideriamo quanto avvenuto appunto in Egitto. Da ultimo però dobbiamo considerare che “chi governa alle volte impara”, e spesso impara alla svelta. Se in altri contesti la repressione è stata fortissima, e non si è tenuto in alcun conto l’effetto mediatico, anche semplicemente coesivo che possono offrire i social network, anche unendo fasce sociali e ragioni di protesta assolutamente diverse e distanti tra loro, in questo caso Erdogan ha agito in modo differente; ha chiesto scusa, ha allentato le tensioni, ed ha aperto ad una maggiore informazione, e questo togliendo di fatto il monopolio delle “news dalla piazza”. Il timore diffuso – non limitandosi a pochi twitt ma prendendosi la briga di navigare un po’ nella blogosfera turca – è un’escalation della violenza che possa far intervenire i militari, ostili ai partiti islamici, e finora gestiti e moderati da Erdogan. Un loro intervento sarebbe destabilizzante e resusciterebbe spettri del passato molto temuti soprattutto dai giovani. Se parli con loro, e solo gli propini l’immagine di una “primavera turca” la risposta è quasi unanime e la leggi in tutti i forum, “ho paura che qualcuno possa appropriarsi di una protesta che è nata dai cittadini e che si è svolta spontaneamente, senza nessuna organizzazione.”
Michele di Salvo – 7 giugno – L’Unità
La guerra mondiale per i nostri dati e il datagate
La notizia dei controlli telefonici di massa negli Stati Uniti arriva pochi giorni dopo lo scandalo delle intercettazioni sui giornalisti dell’AP, e sembra attraverso un filo rosso nemmeno troppo sottile, tracciare uno scenario unico.
l’amministrazione Obama, che aveva promesso di ridimensionare la violazione della privacy sistematica consentita dal Patriot Act voluto da Bush all’indomani dell’11 settembre, sembra invece impegnata non solo a continuare sulla stessa strada del suo predecessore, ma emergerebbe anche un’attivita’ investigativa che, volta a scoprire le fonti di fughe di notizie riservate, sconfinerebbe nell’intercettazione “abusiva” della stampa, violando cosi’ principi costituzionali solidissimi nella tradizione e nel diritto americano.
In un paese dal perenne dibattito sul confine tra liberta’ personali e interesse pubblico, il principio concreto della liberta’ di stampa e’ qualcosa di indiscutibile e inviolabile, da nessuna amministrazione.
Tuttavia le circostanze in cui emerge questo scenario sono ben piu’ complesse ed articolate, perche’ negli Stati Uniti hanno sede legale le maggiori societa’ del web occidentale, che gestiscono e conservano dati su circa tre miliardi di persone in tutto il mondo.
qualsiasi limite o normativa, non solo di un singolo paese europeo ma anche dell’intera unione, poco possono incidere su cosa faranno e come gestiranno “davvero” i dati aziende come Google, Verizon, Amazon, Facebook, Twitter, Linkedin, solo per citare i nomi piu’ conosciuti al pubblico della rete.
Addirittura val la pena ricordare che qualche anno fa Google,Verizon e Amazon chiesero una “riserva di banda” sulla dorsale atlantica, ovvero volevano che il 50% della capacita’ di traffico tra usa e europa fosse loro riservata, con un vantaggio immenso per i propri clienti, e per la qualita’ della navigazione. La richiesta non e’ stata accolta dall’Unione Europea, ma cio’ non ha impedito ai tre di realizzare un consorzio per una dorsale propria, quella che appunto passa per l’Islanda.
Nondimeno la legislazione sulla privacy tiene conto di dati “individuali” (nome, indirizzo, telefono) che contano poco o nulla per il mercato pubblicitario in rete, che invece richiede macrocategorie sociali, locali, ambientali, culturali, e finanche di gusti e orientamenti soggettivi.
Per la tutela di queste informazioni nulla e’ stato fatto in Europa, e questo proprio per il ritardo con cui le nostre istituzioni comprendono un sistema sempre piu’ integrato per raccogliere e gestire queste informazioni, attraverso agglomerati di gestori di posta elettronica, social network e motori di ricerca.
Quando anche si intervenisse in materia, resta discutibile l’efficacia dell’applicazione effettiva a societa’ americane, anche perché auto tutelate dal contratto di policy che tutti noi utenti sottoscriviamo per registrarci ad un servizio apparentemente gratuito, come un social network o una casella mail o usando un motore di ricerca.
Lo stesso discorso non vale per la legislazione americana. E qualsiasi intervento sulla privacy di quel governo, incide e determina ovviamente anche cio’ che cambia nel nostro profilo facebook o sul come vengono gestiti i dati di navigazione di una nostra ricerca su google, o i dati di localizzazione quando usiamo google maps, foursquare o il nuovo googlenow.
l’NSA ha da sempre controllato i meta-dati telefonici dei cittadini americani o residenti, ovvero non il contenuto delle telefonate, ma i tabulati di numeri chiamati e durata, in uno stretto sistema di controlli e verifiche, allo scopo di tracciare la “rete sociale” delle persone, a scopo di prevenzione antiterroristica. Possiamo condividere o meno, ma li’ e’ legge, ed e’ un’ attivita’ sottoposta a stretto controlli federali incrociati.
Quello che dovrebbe far riflettere e’ lo scenario complessivo in cui emerge il casus belli di queste settimane.
Se infatti una fonte di Verizon non avesse rivelato che i telefoni della Associated Press erano stati monitorati – non intercettati – e’ probabile che non avrebbe nemmeno destato troppa attenzione da parte dei media la notizia del monitoraggio richiesto sulle utenze di normali cittadini, in applicazione della normativa antiterrorismo e sotto verifica del Congresso.
Appare anche piu’ sospetto che l’unico atto esecutivo reso noto (pubblicato dal Guardian) sia proprio di una richiesta di tabulati verso Verizon.
Quello che e’ certo invece e’ che nessuno piu’ di Obama e’ cosi’ lontano, nella politica americana, dalle posizioni neo-con sull’onnipotenza di internet come strumento di politica estera, e distante anche dalle posizioni piu’ aperte manifestate oltre un anno fa dall’allora Segretario di Stato Hilary Clinton.
Ed anzi, proprio Obama, ha manifestato concrete preoccupazioni in tema di tutela della privacy, e della gestione di dati sensibili di importanza rilevante da parte di societa’ private, proponendo non pochi impulsi legislativi in tal senso ed interventi su una piu’ ampia riflessione in materia in occasione di commenti su sentenze della Corte Suprema.
I grandi gruppi del web, cresciuti vertiginosamente nell’ultimo decennio, finanziati dalla politica sia per dare impulso all’economia generale, sia come strumentoo di intelligenze e di vera e propria guerra digitale, e finanziatori a loro volta bipartisan di uasi tutti i senatori e congressisti, non hanno avuto limiti veri alla raccolta ed alla gestione delle informazioni in loro possesso.
Di piu’, sino ad oggi si sono concentrati nella realizzazione di applicazioni sempre piu’ penetranti basate sui dati personali (da googlenow alla geolocalizzazione) che nessuno ha mai regolamentato sino in fondo. E sempre piu’ sembrano proprio questi dati e la loro interazione e gestione la vera miniera d’oro del web 3.0.
Per questo motivo oggi non possono vedere di buon occhio una regolamentazione dell’uso di queste informazioni, ad esempio che ne impedisca l’uso commerciale o di mercato.
Che sia una coincidenza, una deliberata pressione politica, o una casualita’ o un rinnovato diffuso interesse in materia di privacy, resta sul tavolo il nodo centrale di una privacy sempre piu’ liquida – per usare un termine caro alla rete – che rende facile alle grandi corporation del web sfuggire a maglie legislative troppo farraginose per la realta’ della rete attuale.
Di certo da domani ogni intervento restrittivo verso i giganti del web parrebbe piu’ una vendetta del capo della Casa Bianca che una misura doverosa e nell’interesse pubblico.
Di certo quello cui assistiamo e’ uno scontro forse senza precedenti tra il piu’ grande potere esecutivo del mondo occidentale, e le piu’ grandi e importanti corporation del pianeta.
Michele di Salvo - 9 giugno – l’Unità
Usa-Cina tra cyberwar vere e presunte
La campagna elettorale delle ultime presidenziali americane e’ stata fortemente incentrata sul rapporto USA-Cina, con i repubblicani che anche attraverso i junk-spot (spot televisivi e web non direttamente commissionati dai candidati, ma realizzati da gruppuscoli anonimi di sostenitori, spesso usati per attaccare con poco savoir-faire l’avversario) mettevano in evidenza la dipendenza economica USA (il 22% del debito americano e’ in mani cinesi) e industriale.
Romney di questo antagonismo ne ha fatto un vessillo, riciclando toni da guerra fredda e, lui liberale liberista, ripescando misure protezionistiche anti cinesi a presunta difesa della produzione americana (scordando con troppa leggerezza che l’esternalizzazione del lavoro e della produzione sono stati la droga delle companies americane dell’ultimo trentennio).
Non sfugge che in questa retorica novecentesca si siano ricavati un ruolo i teorici della guerra digitale, attraverso fondazioni e think-thank che finanziano e realizzano studi tesi a dimostrare la necessita’ di abbattere improbabili firewall per esportare democrazia e liberta’. Teorizzando che in paesi come la Russia prima e la Cina oggi, tutti stiano a tempestare i motori di ricerca di parole come liberta’ e democrazia.
La simmetria non si limita qui. Vengono finanziate borse, ricerche e dottorati a esuli nordcoreani, cinesi, russi, per dare maggiore peso e credibilita’ a questa guerra, che come tutte le guerre e’ principalmente un enorme affare per chi la conduce.
Assume quindi un grande rilievo l’incontro (programmato da tempo) tra il presidente Obama e il presidente Xi – il primo alle prese in questi giorni con il cd. “datagate” e il secondo rappresentante di un paese in cui – secondo noi, secondo l’idea che ci siamo fatti sulla base di quello che ci viene raccontato – non esiste una libera rete mentre tutti i cittadini (1,2 miliardi di persone) non sognano altro che democrazia e liberta’.
Sul tavolo ufficiale le questioni solite: il cambio tra le valute, le soglie di inquinamento, tariffe doganali, scambi, debito pubblico, condite da diritti civili che male non fanno.
C’e’ da scommettere pero’ che il tema piu’ delicato dell’incontro sara’ il recente accordo bilaterale India-Cina; la prima, il motore della programmazione e del calcolo matematico, alla basa di ogni innovazione tecnologica, la seconda, il motore della produzione tecnologica mondiale, ed entrambi insieme un unico mercato di 2,5miliardi di persone.
Un accordo tra il paese maggiore produttore di software di base e il paese maggiore produttore di tecnologia di base significa avere in mano la chiave non solo della ripresa economica, ma soprattutto del futuro tecnologico del mondo, determinando le scelte e l’ingegneria di un futuro prossimo in cui sara’ inevitabile per i grandi colossi del web entrare in mercati come la Cina, ma sara’ altresi’ il momento in cui altri players (QZone in testa) entreranno e si integreranno nella societa’ globale, portando in dotazione un mercato fatto di altri 2miliardi di utenti.
Il tema che sta a cuore agli Usa e’ nevralgico, la sicurezza informatica, sia software che hardware, per cittadini e aziende che ogni giorno usano macchine e software la cui componentistica e’ prodotta e concepita dai due giganti asiatici.
Un tema serio, e da non confondere con gli spot elettorali ne’ con le varie schermaglie cui abbiamo assistito in questi anni, e che possiamo definire dispetti e ripicche tra societa’ di informatica.
Possiamo ricordare quando durante il sexygate che coinvolse Clinton un gruppetto di studenti made-in-Cina fecero in modo di abbinare la parola “whitehouse” a “xxx” con la conseguenza che chiunque cercasse la Casa Bianca otteneva come risultati rilevanti su google siti hardcore. O possiamo ricordare come gli Usa abbiano cercato di forzare il sistema di controllo cinese sui motori di ricerca, e per tutta risposta si sono visti deviato tutto il traffico mail per mezzora, con un semplice comunicato in cui si diceva “era un test, volevamo vedere se ne eravamo capaci”.
Quello che e’ in gioco oggi e’ la definizione di chi dettera’ le regole di come sara’ il web 3.0, che al di la’ della creativita’ e delle idee di ciascuno, dipendera’ comunque da quali e come saranno le macchine e tecnologie disponibili.
E c’e’ da scommettere che in pieno datagate sara’ molto difficile che la posizione dell’amministrazione Obama si scostera’ molto dalla linea o proporra’ limiti alle grandi corporation made-in-usa.
Il patto non scritto siglato ai tempi di Cheney e portato avanti dalla segreteria di stato sotto di Hilary Clinton era abbastanza chiaro: dateci una legge che ci dia titolo a trattenere e gestire i dati degli utenti, e noi daremo il massimo della collaborazione all’NSA, ma non dateci alcun limite su quello che possiamo fare perche’ dobbiamo conquistare il mondo, o lo faranno gli altri.
Non sara’ certo un presidente al suo secondo mandato, anche se premio nobel per la pace, che negli ultimi due anni di presidenza a potersi mettere contro questa strategia bipartisan, nemmeno ricordando il suo passato di avvocato per i diritti civili, e mettendo in discussione Guantanamo e il Patriot Act, a meno di non finire nel tritacarne di un datagate a orologeria.
I signori della Silicon Valley devono poter contare incondizionatamente su un governo acriticamente alleato, e che affermi con forza lo slogan “non ci puo’ essere sicurezza se non rinunciando a un po’ di privacy”. Sembra una frase del ceo di una qualsiasi azienda della new economy, invece e’ la linea politica della Casa Bianca. E non e’ un caso che questo concetto venga ribadito proprio dalla California.
Non dobbiamo pero’ scordare che in questo scenario nessuno dei due Paesi ha davvero interesse ad uno scontro. Non e’ il momento ne’ per sprecare risorse in cyberguerriglie ne’ per inimicarsi (da parte cinese) il migliore cliente (gli USA). E tuttavia il terreno comune di accordo c’e': impedire lo sviluppo in rete di tecnologie che rendano difficile o piu’ oneroso il controllo dei cittadini da parte dei governi.
Michele di Salvo - 10 giugno – l’Unità - http://micheledisalvo.com/