Interstellar, USA e Regno Unito, 2014, Regia di Christopher Nolan
Recensione di Alberto Bordin
Se il cinema fosse un viaggio acquatico, i Nolan sarebbero degli esperti di rafting. Viaggi all’apparenza brevi ma perigliosi, muniti di strumenti semplici ma che richiedono acume e tecnica, un’avventura sportiva, quasi acrobatica, spaventosamente semplice ed emotivamente complessa. Ma con Interstellar, i due fratelli hanno deciso di affrontare diverse acque: i colpi di pagaia dentro correnti torrentizie lasciano il posto alle vele del galeone, dentro il viaggio antico e abissale del profondo oceano. È una proposta rivoluzionaria, prima che al cinema alla loro carriera, volgendo la testa verso un genere più lineare e di largo respiro, molto più lento e diluito, apparentemente semplice nella sua realizzazione, ma produttivamente carico di rischi. Con Interstellar i fratelli Nolan hanno abbandonato il puzzle, hanno abbandonato la narrazione a spirale, la caduta nel vortice, i tortuosi montaggi serrati, gli arguti giochi di investigazione e caccia al ladro, dedicandosi con cinefila passione al genere fantascientifico, ai viaggi interstellari, alla visionarietà del 2001 di Kubrick, all’armonia degli Incontri Ravvicinati di Spielberg – o meglio dire di Williams; comunque non a caso Jonathan aveva scritto la sceneggiatura per il regista di E.T. –, dove la complessa struttura tridimensionale del vortice si schiaccia come una molla, chiudendosi in due dimensioni in una più classica narrazione circolare, non a caso uno dei temi fondanti del film. E parlando di temi, i Nolan non azzardano di meno.
Interstellar è il primo film di Nolan a respirare speranza, è il suo primo film a nutrirsi di una promessa buona. Gli uomini usavano alzare gli occhi al cielo e guardare alle stelle mentre ora li abbassano al fango che li circonda; ma l’uomo, che è nato sulla Terra, non è destinato a morirvici. Cooper questo lo sa, è mosso da questa coscienza, di un destino più grande, dal desiderio di un compimento per sé e per chi gli è caro. Per questo la sua ambiziosa passione per lo spazio non trova riposo, e sempre per questo non c’è delusione nel desiderio di suo figlio di dedicarsi all’urgenza del quotidiano, per quanto anonimo; è il cuore il metro degli uomini.
Amorevolezza: è lei la vera forza centripeta di questa storia, il motore che tutto muove e a cui tutto torna. In un mondo in cui spazio e tempo sono relativi e si cercano costanti cui aggrapparsi, strumenti per cui vivere, può l’affezione, quel legame che ci lega oltre il tempo, oltre la memoria e addirittura la morte, può veramente essere messa da parte? Dovendo – scientificamente – scegliere se seguire la destra o la sinistra, davvero è senza valore che in una direzione ci sia la persona che amo? Perché l’amore è conoscenza, è scienza; “l’amore è quantificabile”, ossia è un fatto, agisce nella storia, nel mondo, e lo trasforma. L’amore di un padre per una figlia non può non contare, anzi è tutto ciò che conta, l’intero destino della razza umana dipende da esso, per cui quell’uomo, e solo quell’uomo, può compiere ciò per cui è stato chiamato.
Una simile proposta non può non toccarci, ci riguarda nel profondo, ci punge nell’intimo chiamando in causa tutto il nostro umano, ridestando un io assopito, infiammando un io desto.
Eppure così da solo non basta.
Così, da solo, quello che raccogliamo è un concetto, è un discorso. Nolan ci offre uno splendido trattato morale, qualcosa da assimilare e di cui è certamente bene fare verifica. Ma non è questo il cinema. Perché il cinema è arte.
Vogliamo tenerci distanti da insipidi battibecchi di un cinema alto o basso, lontani dai tentativi ideologici di distinguersi per una elevata produzione culturale. Il cinema è arte per il semplice fatto che, come solo l’arte può, permette di conoscere qualitativamente e non quantitativamente. Tutte le scienze umane conoscono il mondo quantitativamente. È un accumularsi di conoscenza: non posso comprendere un’equazione se non conosco le tabelline, e sarò all’oscuro della legge della relatività di Einstein senza una laurea in fisica quantistica; il mondo si svela per livelli, e solo agli eletti è permesso di conoscerlo. Ma l’arte salta ogni classe sociale e divisione culturale, attingendo all’unica sostanza che tutti condividiamo, lo strumento di cui tutti siamo in possesso: il cuore, e la sua esperienza. Il cinema è per i villici, non per le élites. Il cinema, come l’arte, è per i bambini, colpisce l’uomo nella sua origine, nella sua sorpresa e corrispondenza primordiale; tra le opere dell’uomo, infine è l’arte la nostra salvezza. E quindi, se non per questo, per cosa vale un film?
Se ci stimola intellettualmente ma non ci commuove, se stuzzica i nostri neuroni ma non ci punge le interiora, se ci tortura le meningi ma non spreme i nostri vasi lacrimali, convocando il pensiero ma dimenticando l’emozione, allora come possiamo giustificare la nostra presenza in sala?
Le storie sono come un vaso rotto che va ricomposto. Interstellar ci insegna come si ricompone il vaso; ma quello di cui avevamo bisogno non era il vaso ma il vasaio. Non ci basta sapere “che l’amor move il sole e l’altre stelle” ma dobbiamo conoscere “l’amor CHE move il sole e l’altre stelle”, ossia invece che l’idea, l’avvenimento. Non il concetto di amore ma uomini che amano; non un cogitare ma un avvenire, un compiersi, qui e ora, in queste tre ore di pellicola.
E tuttavia, nella confusione, nell’accalcarsi di buoni propositi, nello spalancarsi di un cinema tutto da citare e autoriferito, infine si perde l’essenziale, si perde l’occasione di rappresentare quella deliziosa verità – renderla presente – tangibile esperienza in quelle preziose ore di film – in un qui e un ora – riducendosi a poco più che un rimando, occasione per altro loco, per altro tempo. E il cinema non è questo. Non deve essere questo.
La delusione più grande è una grande occasione perduta. E Interstellar è una dolcissima proposta umana. Ma bisogna ancora farne un film.