Nel finale del quarto e ultimo film della saga di Indiana Jones, una volta che gli alieni son partiti, il protagonista domanda al professore dove siano andati. Il professore gli risponde che non sono andati nello Spazio, ma nello spazio fra gli spazi. Ecco Christopher Nolan con Interstellar porta il cinema, e non solo quello di fantascienza, nello spazio tra gli spazi. Questo suo nuovo capolavoro, senza dubbio il più grande, è un film che attraversa, supera e trascende lo spazio-tempo, la partizione dei generi cinematografici, il cinema stesso.
“Non siamo destinati a salvare il mondo, ma ad abbandonarlo. È la missione per cui sei stato addestrato” dice il professor Brand (Michael Caine) a Cooper (Matthew McConaughey). È ciò che fa lo stesso Nolan: non salvare o conservare un genere e la canonica concezione del tempo, ma abbandonarli, poiché è quello per cui si è auto-addestrato sin da Memento.
Se Inception in un certo senso era il principio, l’Alfa della sua riflessione sul tempo (non dimentichiamoci che è stato pensato in dieci lunghi anni intervallati da due episodi del Cavaliere Oscuro), Interstellar ne è il sommo compimento, l’Omega nella quale la dimensione del sogno non è tanto dissimile da quella dei mondi paralleli e del viaggio intergalattico.
Interstellar è un film gigantesco, impressionante, ricchissimo in ogni sua sfumatura, dove nessun dettaglio è decorativo ma funzionale ad una trama che non dimentica nessun filo narrativo di quelli tirati. Innanzitutto è la rifondazione e il superamento del genere fantascientifico per come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi. È fanta-scienza dell’uomo portata tra le stelle, che parte dalla Terra per approdare in un’altra galassia e atterrare su un’altra terra. Ma l’uomo, il suo spirito, le sue convinzioni, i suoi sentimenti superano il tempo, lo spazio, ogni terza, quarta e quinta dimensione, oltre ogni Teoria delle Stringhe. La specie umana che emigra non cambierà se stessa, lo spazio-tempo non annulla l’indole umana, il folle volo oltre l’orizzonte ignoto di un buco nero, l’animo umano, il suo istinto (di sopravvivenza) che fa solcare gravità e relatività per amore di una figlia, ma anche per egoistico bisogno di compagnia, di confronto e di tradimento per sentirsi vivi e per cancellare un fallimento che disonora, proprio come accade al dottor Mann (Matt Damon). L’uomo, l’uomo prima di tutto, solo e soltanto l’uomo. È questo l’imperativo di Nolan. L’anima, oltre ogni dimensione fisica conosciuta, si conserva tale e quale, così come l’amore. Quell’amor che move il sole e l’altre stelle.
Nolan va oltre i generi e la citazione, va oltre la distinzione classica tra significato e significante. Va nel mezzo, nell’inter-spazio più che nell’iper-spazio. È così che porta il cinema tutto intero nello spazio tra gli spazi. Interstellar si apre con le testimonianze di anziani sopravvissuti come Titanic di James Cameron e si chiude come Il curioso caso di Benjamin Button di David Fincher dove la cronologia del tempo si confonde tra giovani e vecchi, comincia con un’ambientazione alla Signs di Night Shyamalan e prosegue con fughe in pick-up alla Guerra dei Mondi di Spielberg e messaggi video alla Moon di Duncan Jones, strizzando l’occhio ad Alien di Ridley Scott (vedi gli interni dello shuttle sporchi, usurati, e l’astronauta di colore che muore tra i primi) e 2001 Odissea nello Spazio di Kubrick (il robot TARS è il gemello buono e umano di HALL e richiama al monolito nero scoperto dagli ominidi del film del 1968).
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