Siria :::: Matteo Pistilli :::: 2 settembre, 2013 ::::
Molto ha fatto discutere il discorso di Obama contenente due affermazioni sulla “questione siriana”: volontà di intervento Usa, ma con precedente approvazione da parte del Congresso (ossia il Parlamento statunitense).
Queste dichiarazioni sono state seguite da tutta una serie di precisazioni da parte dello stesso Obama e del ministro degli esteri Kerry, in cui si esprime la necessità dell’azione nord americana.
Quindi allo stesso tempo Washington ha preso tempo ed ha deciso di intervenire. Questo tergiversare ha prodotto dubbi, critiche e anche scherno sia da parte di chi vorrebbe un intervento immediato sia da chi invece si oppone a questo.
E’ possibile leggere invece il percorso che ha scelto il Presidente Usa in maniera coerente e volto a raggiungere due obiettivi: il primo è il solito consenso internazionale, spina dorsale della politica statunitense; si pensa che una discussione e quindi un’approvazione (alquanto probabile) da parte del Congresso dia un manto di legittimità all’intervento. Il secondo è più profondo e importante: in questo modo l’amministrazione Usa potrebbe volersi mettere al riparo dai propri stessi alleati, che spingono costantemente per trascinare la potenza americana nel conflitto (ma vale anche per altri conflitti). Ponendo la prassi di un’approvazione del Parlamento, Obama potrebbe voler mandare un messaggio proprio a questi: da oggi non è così semplice e scontato un intervento statunitense a copertura di avventati alleati, perché c’è la società civile americana da ascoltare.
Il primo obiettivo ha senso solo da un punto di vista propagandistico, perché il voto di un parlamento nazionale non ha nessuna influenza e importanza nel diritto internazionale o meglio ancora nel diritto interno di altre organizzazioni statali; il Congresso non è il parlamento globale e il suo voto non dà nessuna legittimità a nessuna azione internazionale.
Il secondo invece potrebbe avere una certa importanza: sebbene l’assemblea di Capitol Hill non sia l’esempio della rappresentatività e sia molto frequentata da lobbisti di ogni tipo (quelli dell’industria militare spiccano), il ricorso a questa pone dei dubbi per gli alleati (in questo caso nell’area interessata) spesso citati da Obama: Israele, Turchia, Giordania e anche quelli spesso taciuti come Arabia Saudita, Qatar. Tali Paesi, che spesso attivano crisi sapendo di contare successivamente sulla copertura statunitense, potrebbero d’ora in avanti avere un’incertezza in più, dovendo far riferimento anche al voto parlamentare e non alla sola decisione del comandante in capo ossia del Presidente degli Stati Uniti.
La crisi siriana ha posto per Washington seri problemi, giunti principalmente dai propri alleati nella zona che hanno avuto e continuano ad avere un ruolo diretto nelle atrocità della guerra. Staremo a vedere se Obama, spinto da alcuni ambienti statunitensi, stia cercando di liberarsi di una zavorra che ha spesso affossato gli stessi interessi nordamericani.