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Intervista a Cesare Damiano sul modello danese
Creato il 22 dicembre 2011 da Leone_antonino @AntoniLeone«Il ricordo che mi è rimasto più impresso - racconta Damiano - è proprio quello di questi uffici bellissimi. Sembravano degli studi di architettura: silenziosi, luminosi, eleganti, dove si svolgevano colloqui individuali tra i funzionari e i lavoratori licenziati finalizzati al loro ricollocamento. C' era uno di questi centri che aveva perfino un' officina per la formazione sul campo degli operai». Damiano, Treu e Ferrero si resero subito conto che l' Italia era molto lontana. «Quando divenni ministro del Lavoro cercai di tradurre in pratica qualcosa, ma subito vidi quali erano le difficoltà. Per esempio, misi la regola per cui se al lavoratore licenziato l' ufficio di collocamento fa un' offerta di lavoro equivalente e questi la rifiuta, perde il sussidio. Ma subito gli ispettori del Lavoro mi fecero notare che in certe realtà, in particolare nel Sud, dove la camorra controlla settori per esempio del mercato agricolo, sarebbe stato difficile applicare un sistema del genere. Insomma, parliamo di realtà molto diverse. In Danimarca c' è un' etica calvinista della responsabilità molto forte. E raramente si riscontrano atteggiamenti opportunistici delle imprese o dei lavoratori per approfittare di sostegni pubblici».
E comunque, conclude Damiano, fossimo anche uguali ai danesi, non potremmo importare la loro flexicurity, cioè la flessibilità unita alla sicurezza sociale, perché «costa tantissimo e non possiamo permettercela» con un debito pubblico del 120% del Pil, il triplo di quello della Danimarca.
Per stringere la questione all' Italia, su un punto sono tutti d' accordo: se si rendono più facili i licenziamenti, modificando l' articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, bisogna rafforzare il sistema degli ammortizzatori sociali, prevedendo in particolare una indennità di disoccupazione più estesa, più elevata e più duratura di quella attuale, e ci vuole un sistema di uffici di collocamento che funzionino, mentre oggi solo il 4% delle assunzioni passa attraverso questo canale. Conclusione: non ci sono le risorse economiche per finanziare un modello alla danese, né la cultura, né le strutture necessarie.
E allora? Il rischio che vede Damiano, lo stesso che vedono i sindacati, è che toccando l' articolo 18 in un momento di crisi come questo non si aumentino le opportunità di lavoro, ma si favorisca un aumento della disoccupazione. Anche l' ex ministro non può però negare che la riforma del mercato del lavoro sia necessaria. Per superare il dualismo tra lavoratori anziani garantiti e giovani precari e per innalzare il tasso di occupazione, vera anomalia italiana. Sono gli stessi problemi che c' erano al momento della missione a Copenaghen. Ma la ricetta per risolverli non può essere in salsa danese. «Tra l' altro si mangiava terribilmente», sorride Damiano. «In Italia servono sette cose: disboscare i contratti precari; ripristinare il divieto di dimissioni in bianco; estendere lo sconto Irap alle assunzioni degli over 50; adottare il contratto unico di inserimento formativo per i giovani, con un periodo di prova di tre anni durante i quali si può licenziare, ma poi si ha l' articolo 18; velocizzare il processo del lavoro; riformare gli ammortizzatori sociali; trovare una soluzione per chi a causa della riforma della previdenza resterà senza stipendio e senza pensione». Altro che flexicurity.
Modello danese Come funziona
1) Le norme e i sussidi In Danimarca le imprese possono licenziare per motivi economici, ma il lavoratore licenziato riceve un’indennità tra il 70% e il 90% della retribuzione, con un tetto di 2 mila euro al mese, per un massimo di tre anni.
2) Le possibilità di riqualificarsi Il sussido è pagato in parte dallo Stato, in parte dai contributi delle imprese e in parte dall’azienda che licenzia. A chi perde il posto una grande rete di uffici di collocamento offre formazione e nuove occasioni.
3) Gli occupati e la mobilità In Danimarca (dove gli abitanti sono 6 milioni) nel 210 la disoccupazione è stata del 7,4%, ma era del 3,4% nel 2008, prima della crisi. In media, un terzo della forza lavoro danese cambia attivitrà ogni anno.
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