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Intervista a Claudio Castellani

Creato il 07 giugno 2011 da Sulromanzo

Martedì 7 giugno 2011, 10:21

Claudio Castellani, docente alla scuola di scrittura creativa RableBuongiorno, vorrei anzitutto chiederle qual è stato il percorso professionale che l’ha portata a insegnare teoria e tecniche di scrittura.
Ho cominciato a lavorare nei giornali a vent’anni, nel 1970, e per i giornali ho lavorato fino al 2005. Il giornalismo mi ha consentito di vivere lavorando con le parole e con le narrazioni (anche i giornalisti raccontano storie). Con la narrativa ho cominciato a flirtare negli anni ’70. Nel 2001 ho cominciato a scrivere il mio primo romanzo (Il marito muto, Tropea). Ho deciso che la letteratura mi interessava più del giornalismo. Per vivere – continuando a lavorare con le parole – ho aperto Rablè a Santarcangelo di Romagna. È un’esperienza entusiasmante e, per molti aspetti, commovente.
Perché una persona potrebbe o dovrebbe imparare tali tecniche?
La nascita delle scuole di scrittura creativa è stata accompagnata in Italia – ma non solo - da grandi polemiche.  Ne veniva contestata la legittimità e il senso sostenendo – sostanzialmente- che niente e nessuno può dare a Mozart il suo genio. Il che naturalmente è vero, ma questa verità non ci porta a chiudere i conservatori. Ciò detto, penso che la narrazione implichi – come ogni forma d’arte - delle tecniche. Ed è importante dunque che una scuola di scrittura le insegni. Ma sono anche convinto che la tecnica non è la cosa principale che una scuola può e deve passare ai suoi allievi. Non si scrive in primo luogo con la tecnica. Faulkner diceva che “se a uno scrittore interessa la tecnica, allora è meglio che vada a fare il chirurgo o il muratore”. Ciò che fa di uno scrittore uno scrittore è l’interesse e la curiosità per la condizione umana. Una scuola di scrittura deve insegnare a essere curiosi, a farsi domande. A osservare e ad ascoltare. A osservare e ad ascoltare. A osservare, ascoltare e farsi domande. A imparare a scrivere con le mani. E a imparare a leggere (cosa che non è affatto scontata). Una scuola di scrittura creativa insegna sostanzialmente due cose: a leggere (prima il mondo e poi i libri) e a scrivere. Vale anche l’osservazione – già fatta da Goethe, Keats, Calvino ecc. - che uno scrittore deve imparare a darsi le proprie stesse tecniche. Chi è creativo deve creare se stesso.

Quanti suoi allievi sono riusciti a pubblicare una loro opera?

È complicato rispondere a questa domanda, perché implica una risposta univoca: che il successo di una scuola di scrittura si misura sulla quantità di allievi che hanno pubblicato. E, più in generale, che si scrive solo al fine di pubblicare. Ma questo modo di pensare è frutto di una visione che ritengo molto “istituzionale”. Un po’ come quelli che pensano che non c’è modo di fare politica se non dentro i partiti, i governi nazionali e locali ecc. Insomma dentro il Palazzo. Ma questo non è vero. Il mondo non è il Palazzo. Poche, forse nessuna, delle persone che si iscrivono alla nostra scuola lo fanno perché hanno come obiettivo unico o principale quello di pubblicare. Si iscrivono perché vogliono imparare a scrivere, a esprimersi in forma narrativa e/o poetica. A raccontare storie. Il primo passo per diventare scrittori è diventare in primo luogo degli scriventi, cioè persone che amano scrivere. Pubblicare è un secondo passo, e non riguarda più la scuola di scrittura, ma la singola persona. Ciò detto sono anche convinto che pubblicare e divulgare le proprie storie – porsi anche questo obiettivo - è importante. Per questo la nostra scuola ha creato un blog dove vengono pubblicati tutti i racconti degli iscritti alla scuola, non appena raggiungono una forma minima di dignità letteraria. E per questo abbiamo creato l’anno scorso una mini casa editrice, Indiebook, che pubblica quattro o cinque titoli all’anno, distribuiti nelle librerie della Romagna. Penso faccia parte della curiosità per la condizione umana il fatto che una persona, a un certo punto della propria relazione con la scrittura, prepari la propria valigia e se ne vada in giro per il mondo a proporre i propri scritti. Il successo di un insegnante, è stato autorevolmente detto, consiste nel formare dei bravi autodidatti.

Crede che per pubblicare con una grande casa editrice conti più il merito o la “conoscenza” di “qualcuno”? Quali percentuali fra le due?
Anche questa domanda è frutto di una visione che giudico vecchia. In realtà la rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo sta radicalmente cambiando il mondo. IPad, e-Book, self publishing e via dicendo stanno terremotando il mondo della comunicazione e dunque anche quello dell’editoria. Stanno riformulando drasticamente il profilo e il concetto di pubblico e il rapporto tra autore e pubblico. Stanno riformulando idea e funzione dell’editore quale mediatore tra autore e pubblico. Ha ancora un senso parlare di “grande casa editrice”? La “grande casa editrice” del prossimo decennio sarà la fotocopia della “grande casa editrice” del ‘900? La Mondadori del 2020 sarà ancora la Mondadori del 2011? Trovo equivoco anche il concetto di “conoscenza”. Implica l’idea – che secondo me nasconde un po’ di rancore provinciale - secondo la quale “conoscenza” è qualcosa di sporco. È sempre qualcosa di sporco. La carta truccata che consente di by-passare la cattiveria considerata la benzina che muove il motore delle “grandi case editrici”, considerate come l’unica via per raggiungere il “grande” pubblico, considerato come l’unica cosa capace di dare senso alla scrittura . Chi “conosce” insomma è l’imbucato, il raccomandato, l’ammanicato ecc. Nel mondo esistono e sono sempre esistiti gli imbucati e i raccomandati (in qualche modo lo era anche il Romagnoli, no?). Ma, di nuovo, la scrittura possiede per fortuna confini più ampi rispetto a quelli della “conoscenza”. Credo si tratti di non fermare lo sguardo entro recinto di questi ristretti confini. La parola “conoscenza” può avere significati più grandi e migliori. Che uno scrittore, per esempio, stabilisce rapporti, relazioni, discussioni, accordi e disaccordi con i propri colleghi e col proprio pubblico. Penso che il concetto e l’idea stessa di “pubblico” si stia modificando. Esiste, ed esisterà sempre, il grande pubblico. Quello, per intendersi, che riconosce, in un’opera, l’opera che simboleggia e sintetizza un’epoca. Ma credo anche che il pubblico si stia ampiamente frammentando per gusti, interessi ecc. Oggi siamo sempre meno dipendenti dai gusti e dalle scelte delle “grandi case editrici”. Di Umberto Eco parlano tutti i media a ogni passo e di Agota Kristof pochi. Ma questo non significa che Agota Kristof sia meno conosciuta di Eco. O che valga meno di Eco.

Se crede nel merito, quali sono le sue azioni quotidiane per favorirlo?
La capacità di riconoscere il merito nasce, penso, dalla capacità di rispettare le persone. Tutte. Nasce dalla capacità di abbandonare la spocchia. Spesso uno scrittore si crede una persona speciale, disposta a rispettare solo chi, dei propri colleghi, vende più copie di lui.
Che cosa pensa delle scuole di scrittura creativa italiane se riflette in termini di qualità?
Non ho modo di rispondere a questa domanda. Ho tuttavia la sensazione che – in generale - le scuole di scrittura creativa lavorino in base a programmi che mi paiono molto ‘tradizionali’ e molto americani. Che lavorino in base all’ipotesi che c’è un unico modo per scrivere una storia. Ed è quello del romanzo tradizionale, che ha un Inizio, un Centro e una Fine. Che si basa su un intreccio, su una trama ecc. Ma, anche qui, credo che le cose siano complesse e mutevoli. Credo che la forma tradizionale del romanzo sia in crisi. Non solo perché il romanzo sta morendo per ‘inflazione’, come sostiene Ferroni. Credo che oggi demandiamo al cinema il compito di narrare storie-storie. Credo di conseguenza che la forma-racconto sia oggi un laboratorio di sperimentazione assai interessante. Credo sia stata preveggente Flannery O’Connor quando ipotizzava che il romanzo del futuro avrebbe cominciato –o ricominciato- ad avvicinarsi alla poesia. Scrittrici molto diverse come Amy Hempel e Herta Muller e i loro libri, credo debbano far riflettere tutti i docenti di scrittura creativa. Non esiste uno e un solo modo per scrivere un racconto o un romanzo. Non esiste solo la storia basata su un intreccio elaborato. Crederlo, ci porterebbe a creare una facoltà di medicina in cui l’unica materia insegnata è la chirurgia. Insomma, credo che le scuole di scrittura creativa debbano essere luoghi di iflessione e di sperimentazione e NON SOLO luoghi di trasmissione di una tecnica narrativa data per assodata. I linguaggi artistici procedono solo rimettendo continuamente in discussione se stessi.

Ritiene che blog come Sul Romanzo possano essere utili in tale senso e quali sono i rischi all’orizzonte per proposte on line?
Non ho nulla contro le proposte on line. Sono tuttavia convinto che la comunicazione on line debba essere un complemento della comunicazione umana verbale. Mi viene da dire che questa intervista sarebbe stata profondamente diversa se fosse stata il frutto di due persone che si parlano, si interrompono, obiettano, condividono o non condividono. L’intervista sarebbe stata meno rigida e avrebbe riservato più sorprese. Domande prefissate eccitano risposte prefissate.
Quale consiglio darebbe a una persona che sta decidendo come valutare la serietà di un corso di scrittura creativa, non universitario.
Di non considerare la qualità di un corso in base alla notorietà del brand e di conseguenza in base al suo costo (quanto più il prezzo è alto, tanto più vale). Ma è un consiglio destinato a cadere nel vuoto. Il consumismo ci ha educati ad apprezzare un Raffaello solo quando una Autorità Nota lo certifica come Raffaello. Non conta più la merce, ma la sua etichetta. Consiglio, prima di mettersi a scrivere e/o di iscriversi a un corso di scrittura, di leggere o ri-leggere il breve scritto di Kant “Che cosa è l’illuminismo” (lo si trova su Wikipedia e comunque digitando su Google “Sapere Aude”) . 


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