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Intervista a Claudio Santovito

Creato il 10 luglio 2011 da Temperamente

Intervista a Claudio Santovitodi Simona Leo

Claudio Santovito nasce a Bari, dove vive. Studia Lettere con indirizzo Editoria e Giornalismo e Tempo da dimenticare è il suo romanzo d’esordio.

Claudio benvenuto nel nostro salotto virtuale. Tempo da dimenticare è il tuo libro d’esordio. Come è nato questo giallo e cosa hai provato nel vederlo realizzato?

Il mio romanzo giallo – ma anche, per certi aspetti, noir, hard-boiled e romanzo di formazione – nasce dall’idea di un’amicizia problematica tra due coetanei, con le sue contraddizioni e incomprensioni, che avevo in mente da tempo. Parallelamente nasce anche – come dico tutte le sere in cui lo presento – da un sogno, il sogno di una storia d’amore che non dura tutta la vita, ma la cambia per sempre. Ho cercato di intersecare un rapporto di amicizia, una storia d’amore e una storia problematica nei confronti dell’esistenza individuale muovendo da un punto prospettico unico, cioè quello di Marco, il protagonista di Tempo da dimenticare.

Al di là dell’emozione di quando ti viene consegnata la prima copia che reca il tuo nome e il titolo che hai scelto, capisci che in quel momento inizia la partita. La parte più difficile, che è quella di girare la Puglia per promuovere te e il tuo lavoro: da quel momento, sei succube del giudizio dei potenziali lettori e sai che non puoi più modificare il romanzo che, in quanto stampato, è finito e non più infinito. Sarà quello per sempre.

Sei giovanissimo, studente universitario e barese. Quanto di Claudio c’è in Marco, il protagonista della tua storia? E soprattutto quale aspetto di Bari hai voluto far emergere?

Giovanissimo mica tanto! Diciamo giovane… Sebbene si possa supporre che Marco sia la mia proiezione letteraria, devo dire che in realtà si discosta parecchio. Il background è interamente biografico (città, università, luoghi che frequento), la storia e la psicologia dei personaggi assolutamente inventata. Ѐ autobiografico nel senso che mi piacerebbe vivere in prima persona gli aspetti migliori della storia che ho raccontato. Così come è indubbio che, in ognuno dei personaggi (anche quelli femminili) viene proiettata una parte del mio io lirico. Quanto a Bari, ho cercato di concentrare l’attenzione su luoghi e percorsi ancora poco battuti o inflazionati da altri scrittori, concentrando l’attenzione sull’Ateneo, su Bari vecchia con le sue leggende, su Palese. Cercando di fare in modo che fosse Bari la protagonista reale di Tempo da dimenticare, in una sorta di prosopopea sui generis. La città è al centro della storia e non soltanto uno sfondo sbiadito, una città capace di evocare sensazioni, emozioni e di viverle essa stessa in prima persona. Motivo per il quale il comune di Bari ha conferito un riconoscimento letterario a Tempo da dimenticare.

Simbolo chiave della vicenda è una medaglia a metà. Nella mia recensione l’ho definita l’emblema di una vittoria condivisa ma anche di un’amicizia spezzata. Vorresti parlarci di Marco e Federico? In un certo senso rappresentano due facce della stessa medaglia?

Sì. Per quanto diversi, hanno un bel po’ di cromosomi uguali. La tua definizione è puntualissima perché nell’immagine della medaglia spezzata c’è l’idea di un qualcosa che ha senso solo se unito: diviso, per quanto prezioso possa essere, non ha senso. Quando qualcosa di delicato si rompe (un vaso, un piatto, una medaglia) per quanto si possano recuperare tutti i pezzi e ricomporli pazientemente, c’è sempre qualche scheggia o qualche granello che viene ingoiato dal tempo. E sono proprio i granelli più piccoli – quelli più impercettibili e pure (ahimè) più importanti – a dare un senso all’insieme. Proprio questa è la storia di Marco e Federico: amicissimi nell’infanzia e nell’adolescenza, in seguito a un evento drammatico si disuniscono, si separano. Si perdono, a tratti. Ma il destino li porta a riconciliarsi. A percorrere un pezzetto di strada assieme. A ripartire, forse. Ma quel frammento non  è detto che si possa recuperare o, almeno, sostituire.

Oltre all’amicizia, il tuo libro pone l’attenzione anche sul sentimento amoroso. In particolare incontriamo quello per Sabrina, un amore finito, durato anni e caratterizzato ormai dalla routine; e quello per Marta, una nuova scoperta, un’avventura tutta da scoprire. Quanto le relazioni tra gli essere umani, amorose e non, incidono sulla vita, sul carattere, di ognuno di noi?

Tanto. Certe volte si fanno delle scelte che ci cambiano la vita solo per rincorrere una persona o per sfuggire da essa. Ci mettiamo un attimo a fare una scelta e tutta la vita a scontarla. Perché quando l’amore arriva, ti porta a deragliare dal binario della razionalità. Marco abbandona una storia di cinque anni, solida, perché non crede più non in lei, non in loro, ma in se stesso. Si incupisce, alla ricerca di una possibile lobotomia. La lobotomia del passato che non passa e di un tempo che, pur volendo, non si può dimenticare, in quanto può contare su due validissimi alleati: il passato e il ricordo. E improvvisamente il destino gli mette in mano una nuova speranza: Marta, grazie alla quale ricomincia a vedere il mondo a colori e a inseguire i sogni. Il mio romanzo, tra le tante sfaccettature, punta il dito proprio contro le conseguenze causate dalla relazione e dall’interazione tra esseri umani: quante volte diciamo una parola di meno per quieto vivere, quando il pronunciarla potrebbe aiutarci a risolvere un problema e a fare chiarezza?

Da dove è nata l’idea di dare un aspetto misterioso al Castello Caracciolo di Sammichele?

Fin dal primo momento mi ha affascinato: poi ho avuto modo di visitare l’interno, la sede cioè del Museo della Civiltà contadina. Tante frange di passato: i corridoi, le cantine, gli spalti, il giardino. E ho cercato di rendere, sfruttando la componente tetra di quella costruzione, la sezione più “noir” del mio giallo. Quindi ho iniziato a indagare, a fotografare, a “prendere le misure”. E mi sono accorto che c’era un qualcosa che non posso rivelare che verosimilmente si adattava al mistero che soggiace al mio romanzo. In un romanzo fatto di luoghi, combattuto tra una città con mire futuristiche (Bari) e un paese inteso come scrigno di ricordi e tradizioni (Sammichele), tra l’Ateneo e il Castello Caracciolo, si è creata la giusta bilancia dualistica di passato e presente. In fondo, il mio romanzo è doppio in tutto, nei personaggi, nelle storie, nei luoghi. Niente è come sembra. Tutto ritorna, nella ciclicità dell’assurdo.

Un consiglio per quei giovani che hanno un sogno nel cassetto…

Provare. Sempre. Apriamo il cassetto e facciamo volare i nostri sogni, per non vivere di rimpianti e ripensamenti. I sogni soffrono di claustrofobia. Dentro o fuori, bianco o nero, sì o no. Che fa? “Sempre” meglio dei “se” e dei “ma”. Chiaramente il provarci non deve essere un arrembaggio o un assalto alla diligenza, bensì una scelta convinta da sostenere e da sospingere specie nei momenti in cui ti va di smettere perché ti sembra di essere più invisibile di prima o di parlare e scrivere in una lingua sconosciuta. Con l’obbiettivo di strappare un sorriso, una lacrima e un’emozione. Certo, oggi l’editoria e la cultura in genere in Italia vivono un momento drammatico. Ma se la stoffa c’è, emerge, eccome. Occorre lavorare duramente, ed è quello che faccio ogni giorno per capire se in me c’è stoffa o meno.

Mi racconteresti una leggenda? La prima che ti viene in mente.

La prima? La leggenda del pianista sull’oceano! Nel mio romanzo cito quella di Pizzomunno e Cristalda, quella di Colapesce, oltre a qualche leggenda di Barivecchia. La leggenda del pianista sull’oceano è solo una storia di fantasia, un monologo, ma di una profondità unica. A suo modo può essere definita una leggenda. Si tratta della storia di un bambino trovato casualmente da un marinaio in una cassa di limoni su un pianoforte di una nave, il primo giorno dell’anno 1900. Il marinaio adotterà quel bambino che crescerà e diventerà il più grande pianista del mondo. Con una peculiarità: non scenderà mai dalla nave perché la nave è la sua vita, si sente parte di essa. Ci sono dei turisti che prenderanno quella nave, che fa la spola tra l’Europa e l’America, solo per ascoltare le sue melodie. Certo, un pianoforte ha solo 88 tasti: ma quante combinazioni si possono creare con quei tasti? Infinite. Condividerà lo stesso destino della nave, senza compromessi e senza abbandonare il suo unico amore, quel pianoforte e quei tasti bianchi e neri (come la vita).

Io penso che con le parole si possa fare la stessa cosa, in fondo anche quelle hanno un numero finito: bisogna solo saperle combinare, con l’unico  fine – lo ripeto – di suscitare emozioni nel lettore. Quello ho cercato di fare e lo farò, soprattutto in futuro.

C’è qualcosa che non è stato ancora detto di Tempo da dimenticare?

Tante cose! Intanto c’è una scelta ragionata sui nomi dei protagonisti, specie in quelli di Marta, Marco e Maddalena. Non a caso iniziano tutti per “M”… Poi, tanti simboli. La medaglia spezzata, il gatto rosso, i granchi, gli indovinelli, il mare, l’aereo, il volo. Il volo inteso come passaggio, ma anche e soprattutto come creazione di una distanza, che non va annullata perché non manchi mai la voglia di annullarla. Ciò che conta non è quello che trovi alla fine, ma quello che provi durante. E sono contento che non si dica mai tutto fino in fondo, perché altrimenti si perderebbe lo stimolo dell’incontro. La grande magia di un libro e dell’arte in genere è quella di sopravvivere al suo autore, di avere una vita – paradossalmente – infinita.

È stato un vero piacere “chiacchierare” con te, grazie per la disponibilità mostrata. In bocca al lupo per la tua “partita” letteraria!

Per chi vuole continuare a seguire Claudio Santovito, sapere dove poter acquistare il suo libro e soddisfare qualunque altra curiosità può visitare il suo sito: http://www.claudiosantovito.it/.


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