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A parte Daniele Vit, cosa è la musica R&B in Italia?
La musica R&B in Italia, a parte il sottoscritto, è tanta altra storia. Esistono diverse sfaccettature di questo genere e ci sono tante persone che lo fanno, sia artisti più grandi di me che ragazzi nuovi che stanno tentando questo tipo di approccio. Il problema fondamentale è un altro: il genere è discograficamente poco apprezzato, nel senso che i discografici non spendono tempo e non impegnano i propri investimenti nell’R&B. Francamente non ne capisco le ragioni, dato che l’hip hop, nel suo insieme, funziona e nel mondo rap e R&B vanno di pari passo. Ma qui in Italia questa cosa non è stata ancora capita, sebbene esista una scena di tutto rispetto: ci sono cantanti di lungo corso come Al Castellana, ma anche giovani leve come la stessa Sara Mattei, che produco da qualche mese e che ha partecipato ad Amici l’anno scorso, che è effettivamente un’artista R&B. Il secondo problema, infatti, è che la maggior parte dei cantanti che hanno l’R&B nelle loro corde, vengono poi convertiti al pop più tradizionale.
Hai collaborato con tanti artisti hip hop italiani, eppure tale circostanza non sempre si è rivelata un trampolino di lancio per l’R&B. Sei mai riuscito a capire perché?
Guarda, ad essere onesti, non lo so. Probabilmente perché i miei 60 e passa featuring, peraltro con gli artisti più importanti del panorama rap italiano, li ho fatti in un momento in cui l’hip hop non veniva considerato come invece avviene adesso. Quindi non ho avuto ai tempi quel tipo di riscontro. E un po’ perché quando fai “il cantante dell’hip hop” non vieni giudicato come “artista a sé”. In pratica, per la mentalità di tanti discografici italiani, fare i ritornelli per l’hip hop equivale quasi ad essere un rapper. Sai quante volte mi è capitato di parlare con alcuni di loro e sentirmi etichettare come “rapper”? Ma anche con i ragazzi giovani, a volte. Non capiscono la differenza di ritrovarsi davanti un “cantante”, che come in America capita con un Chris Brown, un R. Kelly o un Usher, collabora con gli artisti hip hop. È successo anche che qualcuno mi abbia chiesto perché non facessi rap oltre che cantare. Secondo me non è neanche cosa da chiedere visto che sono un cantante e non un rapper.
Hai partecipato a Sanremo, due volte. Anni dopo ti sei dato da fare in talent show come X-Factor e The Voice. Cosa ti resta di queste esperienze?
Per fortuna non è vero che in Italia serve sempre la “spintarella”. Tutte le esperienze che ho fatto dopo Sanremo, le devo tutte a me stesso e già questo è motivo di grande soddisfazione. Quando andai a X-Factor superai le diverse fasi, tranne l’ultima. Poi venni ripescato e mi misero in coppia con un altro ragazzo. Si era deciso di costituire un duo, in poche parole. A livello personale fu un’esperienza negativa, perché io e l’altro ragazzo non ci siamo mai presi, lui era molto solista e non eravamo mai d‘accordo su niente. Del talent, al contrario, ho un bellissimo ricordo e lo rifarei. X-Factor molto più di The Voice, dove ho avuto problemi noti (un quasi litigio con la coach Raffaella Carrà, tagliato in fase di post-produzione ndr).
Consiglieresti ai giovani che si avvicinano al mondo della musica di tentare un percorso simile al tuo?
Ai giovani che approcciano a un certo tipo di musica, sì, suggerisco di provarci. Ad oggi è l’unico modo per tirare fuori la testa nel mondo dello spettacolo. Pensare di fare oggi un percorso “normale” è quasi utopia, non ti dico sia impossibile, ma siamo lì. Il talent ti dà la possibilità di essere esposto nel modo giusto e di essere apprezzato da una fetta di pubblico che altrimenti raggiungeresti con molta più difficoltà. Certo, l’importante è partecipare ai talent tenendo i piedi ben piantati per terra, che per sfondare spesso neanche quelli bastano…
Da alcuni anni ti rechi spesso in Germania per lavoro. Come ti ci trovi e quali motivi ti spingono a far scoprire la tua musica altrove?
La musica in Italia, purtroppo, è morta. Si grida al grande successo quando si vendono poche migliaia di dischi quando fino ad alcuni anni fa cifre del genere rientravano nella norma, per non dire altro, se eri uno bravo. Quindi ora si osservano classifiche “drogate” da numeri in fondo non eccezionali e artisti diventano famosi vendendo anche pochi dischi. In Germania mi sono accorto che c’è un approccio diverso alla musica, culturale e anche economico. C’è voglia di comprarla, la musica di qualità. Dunque è tutto molto più serio. Prendi il mio esempio: quando ho cominciato ad andare lì, 5-6 anni fa, era soprattutto per esibirmi davanti a italiani che vivono in Germania, dopodiché, facendomi conoscere, ho avuto l’opportunità di intraprendere un percorso in tedesco. E anche adesso sono coinvolto in alcuni progetti. Ho scoperto una nazione aperta a tutti i tipi di cultura. Se ti comporti bene vieni rispettato, e lo stesso avviene nella musica.
Immaginiamo tu sia casa e non stia lavorando alla tua musica. Cosa ascolti?
In questo momento sto ascoltando molto gospel. Ultimamente non ascolto qualcosa di particolare, vado molto a caso. Ma se devo prendere una decisione ragionata, allora mi butto sul gospel. Non roba da Sister Act, per intenderci, ma cose molto più moderne tipo Kirk Franklin. Poi, ovviamente, non può mancare Stevie Wonder. Ascolto anche musica trap, ma più per un discorso professionale. Ritengo che, nell’R&B come negli altri generi, bisogna studiare le melodie e le contaminazioni più in voga. Si deve stare al passo con i tempi, non si può proporre un genere musicale come era 20 anni fa. È una cosa che non sta in cielo né in terra.
È una domanda di routine, nelle nostre interviste per Supreme Radio. A che punto è l’hip hop in Italia?
Secondo me stiamo ad un punto di stallo. Perché al di là di quei personaggi che adesso stanno molto in alto – tra tutti Fedez, Emis Killa e Club Dogo –, esiste un confine troppo ampio tra chi vende – non tanto, per il discorso che facevamo prima – e chi non riesce a fare il salto dall’underground. Sembra che l’hip hop stia andando da Dio, ma a mio avviso è molto aleatorio. Sarò onesto: sono anni che non partecipo ad eventi legati all’hip hop. Ma mi sono sentito dire, anche di recente da amici che hanno invece continuato, cose del tipo: “Non è più come una volta…”. Prima eravamo tutti insieme impegnati a spingere un movimento, ora non so dove andremo. Non vedo un futuro roseo.
Quale dei tuoi tanti featuring ricordi con più piacere?
Direi quello con i Club Dogo in Ora che ci penso. Forse perché è stata la prima cosa “grossa” a cui ho preso parte… E anche per il trattamento che ho ricevuto da parte loro, sempre molto professionali.
Chiudiamo con la seconda domanda di routine. Progetti per il futuro?
Sono sempre incerti i progetti per il futuro, essendo io un cavallo pazzo. Penso oggi una cosa e domani ne penso sicuramente un’altra. Due anni fa ero partito con un progetto ambizioso che poi ho messo da parte, rinchiuso nel cassetto. E non escludo che lo tirerò fuori di nuovo tra qualche anno. Ora però ho intenzione di riprendere in mano quello che sono, ovvero il mio effettivo percorso R&B. Rimettere il piede nel modo giusto nell’ambito dell’hip hop e far capire al pubblico chi sono davvero e cosa ho fatto in tutti questi anni. Fare R&B come si deve, qualcosa che mi piaccia sul serio, qualcosa di moderno e attuale e che possa andare oltre il pregiudizio italiano.
(anche su Supreme Radio)
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