di Andrea Corona
Amici di Temperamente, oggi conosciamo meglio Davide Ferrante, il giovane scrittore napoletano autore del saggio di attualità Il controllo sottile, edito per la collana Educazione della CSA Editrice di Bari.
1) Davide, grazie innanzitutto di aver accettato il mio invito e di essere qui, ospite del salotto virtuale di Temperamente. Il tuo è un saggio sul potere seduttivo esercitato da tv e social network ai danni dei suoi “sudditi”. Vuoi dirci come è nata l’idea di questo libro, qual è il suo auspicio e a quali destinatari è rivolto?
Grazie a te Andrea e un saluto a tutti i lettori di Temperamente.it. Dunque, il mio libro nasce da un’esigenza di libertà e specificatamente da una domanda che mi sono posto e che vorrei porre a te e ai lettori: “Siamo realmente liberi di scegliere come vivere?”. Bene, partendo da questo presupposto ho pensato di costruire un’indagine sul tema del controllo e sull’azione del controllare; quest’ultima evolvendosi di pari passo con il progresso tecnologico operato dall’uomo, credo debba costringere sempre più tutti noi a porci la sovracitata domanda.
2) Nel libro enumeri vari tipi di iscritti a Facebook, come i timidi (restii a diffondere foto e notizie personali), gli esibizionisti (che, offrendo un’immagine idealizzata di sé, non parlano di come effettivamente sono, ma di come vorrebbero essere) e gli equilibrati (che usano i social network come una risorsa e non per mostrarsi). Non ti sembra allora che tutti, per difetto o per eccesso, tacendo o amplificando le informazioni sino a falsarle, finiscano proprio col sottrarsi ad un vero controllo? O forse il “controllo” di cui parli è da intendersi come una macchinazione più sofisticata che induce, attraverso un progressivo depauperamento linguistico, a diventare degli individui sempre più “semplici”, prevedibili e, perciò stesso, più influenzabili e governabili?
Certamente la tua ultima affermazione credo che fotografi la realtà contemporanea in modo netto e preciso. Come ho scritto nel testo, oggi l’idea di “controllo” è paradossalmente molto più vicina a quella di libertà (illusoria ovviamente) che a quella di coercizione. Si ha cioè l’illusione di avere il mondo “tra le dita” (come dice lo slogan di un noto smartphone), ma in realtà questo “vacuo possesso”, per chi non riesce ad oggettivarlo, porta inevitabilmente ad un restringimento del proprio orizzonte umanistico-esperienziale. Quindi gli utenti che io ho denominato “sudditi di Facebook” si accontenteranno di vivere la migliore delle vite possibili proprio dietro uno schermo info-telematico che non sarà più soltanto un amplificatore del proprio quotidiano ma un vero e proprio sostitutivo. Chiaramente se si diventerà passivi nei confronti della propria vita reale, a maggior ragione lo si sarà in relazione ai problemi concreti della collettività; nonostante si condividano “vagonate di link” più o meno “rivoluzionari” o (finto) buonisti.
3) Se gli iscritti a Facebook restano per la maggior parte degli esibizionisti, non posso non riprendere la frase del filosofo e psicanalista Slavoj Žižek «Se nei bei tempi andati del Grande Fratello si temeva lo sguardo, oggi temiamo che egli non voglia guardarci». Il totalitario Grande Fratello orwelliano non si accontentava di essere obbedito, ma mirava ad essere amato e desiderato: è dunque riuscito nel suo intento?
Il Grande Fratello “orwelliano” ha fatto addirittura di più. Ha deciso di “delocalizzarsi” conferendo un po’ del suo potere a tutti gli utenti. Ogni iscritto a Facebook (come da oltre dieci anni ogni spettatore di un qualsivoglia reality show) è una sorta di “padrone” del “Nuovo Mondo” (tanto per rimanere in tema di citazioni distopiche richiamando il capolavoro di Huxley che ho menzionato nel testo) che può scrutare nell’intimo di ogni altro utente conosciuto e sconosciuto, complice la sua “virtuale amicizia”. Ecco perché ho ripreso il pensiero di Galimberti in relazione al fascino perverso esercitato dai reality show e, aggiungo io, di conseguenza dai social network; dice infatti il filosofo brianzolo che la “morte di Dio” di nietzschiana memoria non ha lasciato soltanto orfani ma anche “eredi”. Cioè, come è sempre stata prerogativa divina quella di scrutare nel profondo dell’animo degli individui, così oggi con l’avvento dei programmi televisivi e dei social network di ultima generazione tale possibilità è stata offerta a tutti; essa infatti è a portata di “telecomando o di mouse”.
4) Nel libro, oltre che nel corso di una tua presentazione, inviti a considerare televisore e computer come degli elettrodomestici da usare a proprio uso e consumo. L’affermazione può sembrare scontata, eppure sono in tanti a farsi letteralmente risucchiare da questi mezzi. Vuoi spiegare ai lettori di Temperamente cosa intendi con quest’espressione e qual è il rischio – soprattutto per i più giovani – di un uso eccessivo del mezzo informatico?
Credo sia fondamentale cominciare ad educare alla “distanza” dal mezzo tecnologico. Considerare tv e pc come elettrodomestici è una provocazione che mira a ridurre il peso che questi due “agenti digitali” stanno avendo nelle vite di tanti giovani. Indubbiamente tali agenti hanno un potenziale seduttivo molto più alto rispetto ad un tostapane o un frigorifero ma cominciare a pensare che, senza l’ausilio di una presa di corrente nessuno di essi funzioni, credo sia il primo passo verso la distanza di cui sopra. Bisogna ritornare a considerare la tecnologia (e i suoi prodotti) come “fini” e non come “mezzi”; essi cioè devono servire a migliorare la qualità della vita umana, spesso invece ci si fa risucchiare dal fascino del mezzo tecnologico incentrando l’attenzione più su di esso che sul suo uso strumentale. La ricerca spasmodica dell’ultimo modello di tv, smartphone o tablet può essere esemplificativa in tal senso. Assurti a fattori determinanti lo “status” di un individuo, i prodotti tecnologici appena citati (beninteso, se utilizzati senza freno) sembra che contribuiscano alla realizzazione dell’individuo stesso. I più giovani poi, sono quelli più esposti al bombardamento mediatico che cerca di promuovere cosa è “in” e cosa è “out” e che non può che portare ad una omologazione collettiva in nome della logica del “trend” che, se una volta si limitava a far indossare gli ultimi capi d’abbigliamento alla moda, oggi invita all’interazione costante mediata dai sovracitati “agenti digitali”. Lo scenario contemporaneo vuole infatti che si resti in continua “connessione” per poter esprimere il proprio parere utilizzando il tasto verde del telecomando (come invita la signorina di una nota tv satellitare), oppure che si testimoni ad esempio il proprio sdegno o si dia la propria approvazione aggiornando il profilo su Facebook. Tutte azioni che in sé non celano nulla di sbagliato, intendiamoci, ma se esse cominciano a riempire le giornate (come detto soprattutto dei più giovani) danno solo l’illusione di partecipare attivamente alla vita reale, ma in realtà testimoniano solo la solitudine di un individuo risucchiato in una realtà virtuale. Questo, naturalmente, è solo uno “spicchio” del problema.
5) Dalle piazze alle università, dal web alla stampa, dalle librerie alle associazioni culturali, pare che non si possa fare a meno di parlare di Facebook e del Grande Fratello, quasi fosse obbligatorio prendere una posizione su questi due argomenti. Perché, secondo te, ci si lascia soggiogare tanto facilmente da due argomenti così “popolari”? Che siano diventati il nuovo “oppio dei popoli”?
In realtà è soprattutto la virtuale “Agorà” di Facebook a preoccuparmi riguardo l’attuale processo di narcosi collettiva che sta interessando una fetta importante della società. Infatti, pur nella sua rivoluzionaria formula, il format televisivo del “Grande Fratello” manteneva un grado di interazione con l’utente comunque contenuto. Per intenderci non si poteva andare oltre la fruizione (comunque passiva) di ciò che le telecamere più o meno nascoste riprendevano e al massimo si poteva diventare agenti attivi con il televoto settimanale per “nominare” o buttare fuori qualche concorrente. Con Facebook la faccenda è diversa, come ho scritto nel mio libro esso rappresenta per tante persone che sognavano di entrare a far parte di un reality (cosa che capita ogni anno solo a pochi “fortunati”) o di sentirsi comunque personaggi pubblici, quell’anelito di celebrità a “portata di click” che è capace di dare un senso alla loro esistenza. Ecco perché si è portati a parlarne tanto, le azioni del reale stanno cominciando cioè ad acquisire un pieno senso solo se commentate nel virtuale. E lì che si gioca la partita della vita paradossalmente più “vera”, se un accadimento personale è reso pubblico allora esso potrà definirsi compiuto. In altre parole, un determinato utilizzo di Facebook ha dato senso compiuto all’imperativo categorico promosso da un certo tipo di televisione che recita: “Per essere qualcuno per te stesso, devi necessariamente essere qualcuno per gli altri”. Trattasi di una prospettiva agghiacciante soprattutto perché vissuta in modo sempre più inconsapevole. Analizzando inoltre “stati e commenti vari” degli utenti, spesso ci si imbatte in persone che commentano con soddisfazione ciò che vedono ogni giorno per ore in televisione; esaltando o criticando quel programma o personaggio si improvvisano così critici televisivi, moralisti, rivoluzionari, trasgressivi e quant’altro. Il tutto con il telecomando in una mano e con il mouse nell’altra, comodamente seduti su un divano o dietro la scrivania. Credo che sia difficile trovare un’immagine “casalinga” che comunichi un senso di maggiore alienazione. Quindi, come dici tu, inevitabilmente dalle università alle associazioni culturali, passando per web e stampa, non si può non invitare a prendere posizione sull’argomento. Sicuramente ci sarà chi è interessato ad appiattire ulteriormente le collettive coscienze critiche e che si occupa dell’argomento promuovendone il dibattito proprio mediante i mass media, quest’ultimi cioè si farebbero paradossalmente amplificatori di un problema che essi stessi hanno in parte creato. Ma la questione principale sulla quale io vorrei sollevare il problema e sulla quale credo che sia giusto dibattere per prendere una posizione è a mio avviso la seguente: ognuno di noi, nessuno escluso, oggi deve fare i conti con una realtà “virtuale”; non è possibile infatti non esserne in contatto seppur in maniera minima. Un’educazione alla multimedialità, che in parte scuola e università già da qualche anno stanno promuovendo, risulta essere quindi sempre più indispensabile. Non si tratta di voler rimanere “integri” di fronte alla minaccia informatica, soprattutto perché se usata con criterio essa minaccia non è, al contrario essa rappresenta un meraviglioso progetto anche di arricchimento comunicativo. Il fulcro del problema credo sia legato alla considerazione del problema sempre più in chiave pedagogico-educativa. Una nuova pedagogia della formazione non potrà non farsi carico del problema del rapporto personale che si ha con gli “elettrodomestici” televisione e computer per trovare il modo di convivere con essi senza farsi invadere nelle più intime sfere dell’umano. Come nel mio testo credo si evinca che il controllo sia giustamente ineliminabile, e che si debba conoscerlo in tutte le sue forme per poter coesistere al meglio all’interno dei nuclei sociali; così credo che nei confronti in particolare di quello mediatico si debba assumere una sorta di medesima accettazione “nichilista” che, complice il dominio della tecnica perpetratosi soprattutto nel secolo scorso, dovrà portare appunto ad una lucida prospettiva di convivenza. Ma questo concetto lo aveva già “profetizzato” Martin Heidegger quasi un secolo fa.
6) Oggi molte persone vengono considerate intellettualmente autonome per il semplice fatto di parlar male di Facebook o del Grande Fratello. Ma siamo davvero sicuri che schierarsi contro questi fenomeni sia la manifestazione di un pensiero libero e indipendente? Non credi che ad essere plagiati siano invece tanto gli estimatori quanto i detrattori, e che sia proprio questo imbarbarimento collettivo, fatto di quotidiane arringhe e apologie intorno ad argomenti ben lontani dalle arti e le scienze, a costituire semmai la prova di una manipolazione, di un “controllo sottile” delle masse?
Certamente se ci si oppone nei confronti di Facebook e Grande Fratello per partito preso è un po’ come opporvisi per seguire una moda pseudo-anticonformista; e ciò non può che celare la stessa propensione all’esser manipolati di cui non è vittima soltanto chi invece vi si lascia completamente irretire. Sono d’accordissimo con te poi sull’imbarbarimento collettivo testimoniato dalla mancanza di stimoli dialettici volti a favorire quella che nel mio libro ho trattato come “riscoperta di un nuovo umanesimo”; eppure le occasioni di incontro e scambio fortunatamente restano tante. Anche io e te ad esempio ci siamo incontrati in una importante piazza di Napoli nel corso di un evento culturale organizzato da comuni amici archeologi. Io stesso dopo aver presentato il libro in varie città italiane non mi meraviglio più quando mi ritrovo a parlare sempre con tante persone che mi comunicano sicuramente molta insofferenza ma anche spirito reattivo e tanta creatività. Segno tangibile che sotto il velo “narcolettico collettivo” che ci avvolge c’è un substrato ben sveglio che ci accomuna e che vuole preservare il “nuovo umanesimo”.
7) «Odio la televisione, la odio come le noccioline. Ma non riesco a smettere di mangiare le noccioline». Questa frase di Orson Welles, che riporti nel testo, mi fa pensare a quegli internauti che – numerosissimi – anziché spegnere tv e pc e leggere un libro, riempiono febbrilmente le bacheche dei social network con sfoghi e invettive contro Voyager, Uomini e donne, Il Grande Fratello, L’isola dei famosi, e molte altre trasmissioni ancora. Aveva dunque ragione Frank Zappa a cantare «Non toccare quel telecomando / Sono la melma che trasuda dal tuo televisore / Non puoi fermarmi / Ma solo guardarmi»?
Infatti, come ti dicevo prima il solo pensiero che ci siano persone che guardino certi programmi televisivi, “postando” poi su Facebook in tempo reale le loro impressioni illudendosi di essere agenti attivi, desta in me grande preoccupazione riguardo una forte quanto auspicata presa di coscienza per il futuro di tutti. Presa di coscienza che dovrebbe partire proprio da un uso equilibrato dei due “agenti digitali”. Certo che “il Genio” Zappa aveva ragione! Questi affermava anche in un sua canzone-capolavoro del ’79 (la mitica “Packard Goose”) che: “L’informazione non è conoscenza”. Oggi tale frase suona di terribile attualità perché sembra che le fonti della conoscenza siano tutte in mano proprio agli organi di informazione; con in testa ovviamente tv e internet. Un’educazione alla diffidenza sembra quindi essere sempre più urgente; anche se mi piace sottolineare, come ho fatto già nel mio testo, come però un social network come Twitter sia stato utilissimo nel 2009 durante le sanguinose elezioni iraniane perché, essendo stato l’ultimo mezzo di comunicazione ad esser stato oscurato dal regime di Ahmadinejad, esso ha permesso di salvare numerose vite grazie al “tam-tam” di messaggi che sconsigliavano di portare i feriti in quegli ospedali nei quali era accertata la presenza di uomini del dittatore. Segno ulteriore dell’importanza addirittura “salvifica” del progresso tecnologico.
8) Rimanendo in tema di musica, Frank Zappa, fra i suoi tanti meriti, ha avuto quello di lanciare grandi batteristi come Terry Bozzio, Vinnie Colaiuta, Chester Thompson e Chad Wackerman: nomi che certamente conosci, perché mi risulta che sei un bravissimo batterista. So inoltre che scrivi sulla rivista «Drum Club» e che hai recentemente preso parte a un concerto a Giugliano, in provincia di Napoli. Da quanto tempo suoni? E di cosa scrivi esattamente sulla rivista?
Diciamo che hai nominato una parte del “gotha” dei batteristi di ogni tempo! Riguardo Vinnie Colaiuta poi, credo che sia probabilmente il batterista più completo al mondo. Sono felice che tu mi abbia chiesto di parlare di «Drum Club», una rivista specializzata con la quale ho l’onore di collaborare da oltre sei anni. Per questa rivista scrivo di didattica batteristica proponendo ai lettori degli esercizi appositamente da me creati e studiati. Suono da circa diciotto anni e con le varie esperienze maturate dal vivo e in studio di registrazione cerco di proporre degli esercizi che possano essere di pratica utilità. Riguardo il concerto al quale ho preso parte di recente a Giugliano in provincia di Napoli posso dirti che si è trattato di un jazz festival promosso dalla libreria/vineria “Agorà”. Proprio all’esterno di questo carinissimo locale ho fatto una presentazione del mio libro nell’ottobre scorso ed è stata una delle presentazioni che ricordo con maggiore piacere per il tipo di dibattito vivo e fertile che ne venne fuori. Parlare di libri e promuovere la musica dal vivo in una zona “difficile” della provincia di Napoli credo che sia un ulteriore segno tangibile di voglia di “conservazione dell’umano”.
9) Hai dedicato questo tuo primo libro a tua nonna, per averti fatto capire quanto sia importante leggere. A questo punto te lo chiedo: quanto è importante leggere?
Riguardo l’importanza dell’atto della lettura si sono espressi da sempre autorevoli saggisti, io potrei solo aggiungerti ciò che mi diceva mia nonna, e cioè che: «Con un libro non si è mai soli». Nonostante la guerra le avesse impedito di completare gli studi, mia nonna non ha mai abbandonato la sua sete di conoscenza e di sapere, e ricordo di averla sempre vista con un libro in mano, in alternativa agli attrezzi da cucito o da cucina! Credo che avesse ragione, se la solitudine della guerra con i suoi devastanti effetti è stata in parte lenita da un libro, penso che oggi sia possibile utilizzare la stessa arma per difendersi da una solitudine esistenziale che serpeggia pur nell’illusione di essere in continuo contatto con il mondo. Leggere un libro (che sia un romanzo, un saggio, un fumetto ecc.) non significa soltanto arricchire il proprio mondo interiore ma significa aprirsi al dialogo, al confronto e quindi a quella socializzazione che sono in molti a cercare soltanto tramite le piattaforme digitali. Se si vuole cominciare a riscoprire le genuine potenzialità dell’umano per opporsi alle “dittature silenziose” che ci vogliono sempre “rabboniti e contenti”, l’atto della lettura può assumere un significato sempre più preciso e definito, esso cioè può divenire un atto “eversivo”.
Davide, non mi resta che ringraziarti per la vivacità del tuo pensiero e per aver approfondito con molta passione le tematiche del tuo libro. Io ti saluto, e lo faccio con la speranza di “temperare” in futuro qualche altro tuo saggio.