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Intervista a enzo bianchi (da la repubblica)

Creato il 10 agosto 2013 da Giuliano @giulianofalco
“Ho passato la vita alla ricerca di Dio oggi sento il peso di non avere figli”intervista a Enzo Bianchi a cura di Antonio Gnoliin “la Repubblica” del 28 luglio 2013Forse cinquant’anni fa Enzo Bianchi non avrebbe immaginato che la Comunità di Bose, da luifondata, sarebbe diventata un importante centro della spiritualità, sul quale convergono religiosi elaici da tutta Europa. E non è che qui si respiri la severa aria teologale che incute timore e toglie ilrespiro. Quel vecchio detto: solo il bene alla lunga è degno di considerazione qui è declinato connaturalezza e semplicità. Sono le armi con cui mi accoglie il Priore, in questo luogo che conta unasettantina di monaci, impegnati nelle più diverse attività.Bianchi ha una vita intensa. Scandita, oltre che dal lavoro in comunità, dagli incontri esterni:generalmente sono conferenze con molto seguito. Ha da poco compiuto settant’anni che Einaudi hafesteggiato con una raccolta di scritti in suo onore (La sapienza del cuore). E nell’osservarequest’uomo dalla costituzione robusta e dallo sguardo franco mi chiedo quanto di tutto quello chevedo realizzato sia dipeso dal suo carisma. Sediamo a una tavola imbandita con semplicità e dovreiraccontare a questo punto l’appassionata competenza che il Priore esibisce in fatto di cucina. Quellache predilige è monferrina, perché lì sono le sue origini: «Mia nonna era una cuoca francese, vennein Italia e sposò mio nonno, un panettiere. In casa c’è sempre stato il culto per la cucina». E per unpo’ la conversazione si insinua tra i ricordi di pietanze della sua terra: «Amo il mio Monferrato conle sue colline e le sue viti», dice. E nel dirlo, si avverte un senso di pienezza e di malinconia.Quando giunse qui a Bose?«Nel 1965, deciso a dedicarmi alla vita monastica».Una scelta ardua.«Direi imperiosa. Fino ad allora avevo militato nella sinistra democristiana. Poi, nell’estate del1965, andai a trovare l’Abbé Pierre che viveva alla periferia di Rouen. In quelle settimane cherimasi con lui ho appreso che carità e solidarietà non sono semplici gesti esteriori».Cosa la colpì di quell’uomo?«Intanto il fatto che si circondasse di un’umanità composta da fuoriusciti della Legione straniera, excarcerati, alcolisti pentiti. Per un po’ di tempo ho vissuto con questa gente. Raccoglievamo stracci eferro e con il ricavato si mandava avanti questa comunità meravigliosa e strampalata. Ricordo che ilprimo giorno che arrivai mi ritirai con la mia Bibbia a pregare. Lui mi chiamò e mi disse: non stareda solo, tu vivi con gli altri, prenditi cura di loro, ma senza esibire la parola religiosa».Perché quel divieto?«Niente ai suoi occhi doveva essere ostentato. Feci molta fatica ad accettare. Lavoravamo sulla rivadella Senna e vivevamo dentro a dei container. Lì ho capito che mostrare umanità è starenell’umano, anche quello che ti appare il più compromesso. Quell’esperienza cambiò le linee delcristianesimo che avevo in testa».Torna in Italia e fonda la sua comunità. Immagino non sarà stata una cosa semplice.«Non lo fu per niente. Trovai nell’autunno del 1965, questa cascina abbandonata. L’affittai e larimisi un po’ a posto. Non c’era luce elettrica, né acqua corrente né fogne. Lavoravo un piccoloorto. E vivevo di qualche traduzione dal francese».Mi scusi, il progetto qual era?«Mi ispiravo alle regole monacali di Basilio e immaginavo di creare una comunità che ne seguisselo stile di vita. Ma per più di due anni nessuno bussò. Solo sul finire dell’estate del 1968, quandoormai disperato pensavo che nessuno sarebbe mai arrivato, due ragazzi e una ragazza mi chiesero dipoter venirci a vivere».Lei era poco più che ventenne. Come reagirono in famiglia alla sua scelta?«In casa pensavano fossi un matto. Mio padre sentenziò che ogni famiglia è afflitta da un deficientee che io indiscutibilmente lo ero. Ci fu rottura».E con sua madre?«Mia madre era morta che avevo otto anni. Era una donna molto credente. Prima di morire strappòa mio padre una promessa: di farmi studiare, evitando così il lavoro che faceva lui, e di lasciarmilibero nei confronti della fede. Nonostante fosse un ateo ha rispettato quella richiesta materna».Cosa faceva suo padre?«Era stagnino; per cinque anni non abbiamo avuto rapporti. Poi, faticosamente, riprendemmo aparlarci. Ma la cosa che mi ha fatto più impressione è che prima di morire mi chiamò. Lui che nonera credente, mi disse: la strada giusta l’hai percorsa tu».Quando ha scoperto la fede?«Da sempre. A 11 anni mi proposi di entrare in seminario. Mio padre provò in tutti i modi adissuadermi. Non ci riuscì. Andai. Ma resistetti solo cinque giorni e poi sono fuggito».Cosa non aveva funzionato?«Era un mondo di regole che non riuscivo ad accettare. Piangevo sempre. Mi mancava il senso dilibertà».Anche la fede entrò in crisi?«No, al contrario, si rafforzò. La fede richiede la libertà della decisione ».Ma cos’era Dio per un ragazzo di 11 anni?«Una presenza invisibile cui poter dare del tu. Crescendo la figura di Dio viene spogliata. Pensiamodi conoscerla meglio, in realtà la conosciamo sempre meno».Non crede che la presenza di Dio non sia sufficiente e ogni volta che lo si è assolutizzatol’uomo abbia fallito?«Sì, Dio non basta. Provo fastidio per la frase di Teresa d’Avila: “Dio solo basta”. No. Il nostro nonè un Dio totalitario, ci lascia tante altre realtà: negli affetti e negli amori. Inoltre non è mai un nostropossesso. La sua presenza è elusiva».Ma se Dio non basta , il credente non ha fallito?«La mia convinzione profonda è che Dio non sia un’entità esterna alla quale mi rivolgo. È dentro dime e negli altri. Non lo cerco in cielo. L’unica possibilità che ho di trovarlo è nelle relazioni con glialtri».Anche se con gli altri si può fallire e farsi del male?«Lo scacco è insito nella natura umana. Ma Dio mi dà la possibilità di vedere più in profondità».E cosa trova?«Non è un trovare qualcosa è un avvicinarsi alla verità».Si trova, intanto, un’idea di comunità, che non ha molto da spartire con l’idea di religione.«Avverto un certo rigetto di fronte al trionfalismo della religione ».Mette in discussione l’operato della Chiesa?«La Chiesa è una necessità per la prosecuzione del messaggio evangelico. Però essa restastrumentale, non è il fine. Il fine è il regno di Dio. I monaci l’hanno ben presente».Ed è il motivo per cui si è fatto monaco e non prete?«Sì. La Chiesa può fare benissimo senza di noi. Ha bisogno di strutture gerarchiche, non deimonaci. Non a caso siamo ovunque. Perché oltre che cristiano siamo un fenomeno umano. Ilmonachesimo non vuole confondersi con l’istituzione della chiesa; ma non vuole neanche diventareun’ipotesi settaria. Il nostro desiderio di marginalità ci impedisce di essere intolleranti. Ma non dicercare una verità condivisa nel profondo».Che cosa è per lei la verità?«Ciò che la fede degli altri può testimoniare»La teologia non la seguirebbe su questo.«Sono convinto che la verità non la possediamo. Essa ci precede. Siamo tutti mendicanti di verità:credenti e non».Ma chi non ha certezze è penalizzato?«Sono penalizzati solo coloro che non credono in nulla: i nichilisti. Per tutti gli altri c’è la fiducia inqualcosa che chiamerei il bene comune. La crisi morale e culturale che l’Occidente vive dipende dalfatto che non crede più nel bene comune. Oggi tutti cercano la felicità. Ma essa è un fattoindividuale: la mia felicità può essere l’infelicità per gli altri. Il credente quando dice “Dio” devepensare al bene comune».Bene comune sono l’acqua, l’aria, la terra, la difesa della vita. Non necessariamente occorreDio per tutto ciò.«Penso al bene comune come al Dio che ci umanizza».Non pensa che stiamo andando verso il disumano?«Se si guarda agli ultimi decenni, in particolare all'Italia, vedo la regressione. La perdita di fiducianella polis e nel bene comune. Certo, il deserto sta avanzando ma l'uomo ha le energie perostacolarlo»Concretamente come?«Ogni giorno ascolto tante persone: il giusto e il delinquente. A noi monaci dicono tutto. E non èfacile, le assicuro, misurarsi con la follia o la cattiveria di una persona. Certe notti vado a dormireesausto e mi chiedo come ricominciare l’indomani a sentire queste storie. Però, nel faccia a facciacon chi si ascolta, dalle parole spesso scagliate con violenza e rabbia, c’è la volontà di vedere ilbene».Quanto nel suo ruolo di praticante del bene alligna il privilegio?«Ci si sentirebbe privilegiati se non ci fossero momenti in cui viene meno il noi stessi: o perché ipesi da portare sono troppo gravosi, o perché si è feriti dagli altri, o quando si ha la coscienza dellapropria inadeguatezza o dell’essere spaventati. Chi sono e perché vengono a dire a me certe cose?La tentazione che ho, a volte, è la nientità, fino all'ateismo».E quando si insinua il dubbio radicale?«Lo combatto con il silenzio. Sto molto da solo, anche intere settimane, nel mio eremo».Le ha pesato il celibato?«Quando si è giovani pesa, soprattutto sotto forma di astensione sessuale. Ma dopo i cinquant’annipesa di più l’idea di non avere figli. Avere sì tanti affetti ma non averne uno in particolare. Ci sonocerte sere che vai a dormire chiedendoti: per chi mi alzerò domani? Sono interrogativi che ci fannosentire non dei privilegiati ma poveri uomini come tutti gli altri».Cosa vedono gli altri in lei? Il suo carisma o cosa?«All’inizio c’è stata la mia figura. Ma oggi la qualità della comunità è di essere molto umana. Hosempre detto: il cristianesimo o è umano o non è cristianesimo».La comunità protegge. Ma fuori la vita è spesso terribile.«Non viviamo di culto come i preti. Non siamo pagati perché facciamo opera pastorale. Lavoriamonella falegnameria, nel cibo, nella produzione delle icone, nei libri. Alcuni fratelli si impegnanofuori come insegnanti, infermieri, medici. Si alzano alle cinque per andare in ospedale. E poitornano nel pomeriggio per provvedere ai compiti e alle mansioni interne».La sua fede combatte la fragilità?«So bene cosa sia la fragilità umana. E non le nascondo che nonostante la mia fede ho paura dellamorte. Non mi sono rappacificato con essa. Certo, spero che Gesù Cristo mi prenda tra le suebraccia. Ma resta la paura e a volte anche il dubbio su cosa ci attende dopo la morte. Sono convintoche ci sarà un giudizio di Dio, di misericordia ma sarà un giudizio, perché la vita sarebbe unastupidaggine se avessimo tutti un uguale esito».E l'idea del merito?«So di essere stato al mondo, mi capisca bene, non dalla parte delle vittime. E a volte mi chiedo senon sia stato dalla parte dei carnefici. Non nel senso che abbia voluto fare il male. Ma aver godutouna vita nella stima e nella fiducia degli altri, non essere mai stato perseguitato per le mie idee, nonaver mai avuto un rapporto forte con il dolore, mi fa pensare che non abbia brillato per particolarimeriti».Non siamo noi ad attribuirceli. Dunque?«Dunque, è preferibile esercitarsi all’arte del lasciare la presa, continuando a ritenere cara la vita, ad
amarla, mentre la si lascia nelle mani di altri».

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