Abel Ferrara. Un filmaker a passeggio fra i generi
Sovera Edizioni, 2013
pp. 458.
Il Critico Fabrizio Fogliato esplora nuovamente l’universo di Abel Ferrara con un saggio edito da Sovera dove ci si sofferma ampiamente e come mai fino ad ora sull’opera del regista newyorkese, includendo l’intera produzione, inclusa molta produzione spesso considerata “minore” o tralasciabile, ma che invece dipinge l’autore a tutto tondo. Impreziosiscono vari interventi di personaggi che hanno circuitato intorno all’universo Ferrara. Per saperne di più chiediamo alcune domande all’autore
1 – Fabrizio, tu hai già curato un saggio su Abel Ferrara, “Flesh & Redemption: il cinema di Abel Ferrara”. Quindi questo nuovo saggio è un aggiornamento o, come direbbero i Monty Python, “qualcosa di completamente diverso”? Cosa ti ha spinto a tornare sull’autore newyorkese?
Il fatto di non aver detto tutto e di voler dare una lettura della sua opera decisamente “diversa”, come dimostra la scelta di scrivere il libro come un catalogo – con l’intera opera-omnia sviscerata in rigoroso ordine cronologico – partendo dalla prima pagina con il primo corto per arrivare alla fine con l’ultimo film (per l’epoca) in produzione. Per la prima volta in Italia, ho raccontato non solo il cinema ma anche le esperienze con il teatro, il videoclip, i mockumentary, le serie-tv, i progetti multimediali, le docu-fiction, e perché no anche gli scheletri nell’armadio e/o i misteri irrisolti…. con l’obiettivo di restituire il ritratto di un autore in maniera completa ed esaustiva. L’ottica è stata quella di scrivere una biografia per procura (raccontare l’uomo attraverso la sua arte). Nel libro si entra da subito nella carriera del regista senza tentennamenti con l’obiettivo di tracciare quello che è il filo conduttore del racconto di un cineasta-menestrello che imbraccia, indistintamente, la chitarra e la macchina da presa con la stesa passione, la stessa voglia di improvvisazione e anche la stessa disomogeneità.
2 – Nello stile, Ferrara è il più “europeo” degli autori della generazione newyorkese, tuttavia, il suo dipinto della realtà di NY è sempre il più onesto. Come te lo spieghi?
Proprio per quanto tu dici, il suo essere onnivoro di cinema – senza distinzione né di provenienza né di qualità – il voler piegare i generi alle sue esigenze fa si che i suoi film nella loro irresolutezza e irregolarità (cosa che, a mio avviso, non li rende sempre belli ma comunque sempre interessanti), diventino di volta in volta ritratti sinceri e senza reticenze della metropoli newyorkese. Il suo punto di vista “altro” legato ad una visione critica e anti-retorica di stampo europeo permette ai suoi film, persino quelli meno riusciti, di raccontare gli anfratti, le spigolature, le idiosincrasie della città evidenziando ciò che altri non dicono. Il suo è (quasi) un cine-occhio moderno quando è rivolto verso New York
3 – Scorrendo la sua filmografia, si possono trovare alcune opere che c’entrano come i cavoli a merenda nell’opera Ferrariana, soprattutto nel periodo italiano. Come interpreti questa bizzarra identità di “autore ma un po’ puttana” che gli è stata spesso mossa come accusa?
In fondo a Ferrara interessa solo girare, o come dice lui “agitarsi”. Non fa distinzione né quantitativa né qualitativa, forse peccando anche di presunzione e pensando che ci sia comunque uno zoccolo duro di fans deciso a seguirlo fino all’inferno…. In realtà, i suoi film “italiani” hanno appunto il grosso difetto di essere “italiani” – ultimo il Pasolini – con il risultato di apparire altro, sia nella forma che nel contenuto, rispetto al suo percorso artistico. E’ come se in questi lavori – se non a tratti – venisse meno la sua anima ribelle e sperimentale per adagiarsi in un conformismo di maniera che, oltre ad essere rassicurante, gli garantisce la giusta visibilità (con tanto di comparsate TV). L’Italia “pretende”, dunque, la normalizzazione del suo estro artistico.. e lui non si tira indietro.
4 – Ferrara spesso parla dei suoi primi collaboratori come figure fondamentali per la sua formazione. Parlo di Nicolas St.John, Ken Kelsh, Joe Delia fino a molti nel suo entourage. Ferrara a volte li addita come i veri responsabili della sua opera. Possiamo dire che Ferrara, più che un regista, è stato un ottimo “prod-autore” (produttore/autore), come esistevano solo in altri tempi, che muoveva bene i fili dei suoi collaboratori, favorendone il talento?
Concordo pienamente con quanto esposto nella domanda. Ferrara ha bisogno della factory per poter essere Ferrara. Il suo è un cinema che vive nell’anima dei seventies (anche nelle opere più recenti) e di quell’atmosfera, di quella temperie, di quelle istanze ha un maledetto bisogno per poter essere efficace e seriamente scandaloso (nell’accezione evangelica).
5 – In particolare vorrei soffermarmi su Nicolas St.John, un autore che non ha avuto la fama che meritava. Non pensi possa essere lui il vero responsabile di quella “poetica del peccato originale”? Non pensi che alcune opere di Ferrara dell’era “post St.John” abbiamo un po’ il sapore di surrogato, quasi una brutta copia?
Sì, è vero. Lo stesso Ferrara lo ha più volte ammesso – e nel mio libro ci sono anche un paio di dichiarazioni inedite nel merito. Nicodemo Oliverio (alias Nick St. John) è stato per lungo tempo l’unico in grado di tenere le briglie della “follia artistica” Ferrariana, di rendere il suo cinema “eversivo” e profondo, di regolare una scrittura filmica altrimenti schizofrenica e a genialità limitata. Oliverio è stato l’angelo custode i Abel Ferrara, colui che ha vigliato su un uomo perennemente in bilico tra dannazione e redenzione ed è stato colui che ha reso il suo cinema, per certi aspetti, unico e irripetibile. Dopo St. John la filmografia di Abel Ferrara è altra cosa e denuncia tutti i limiti di un talento, tanto bizzarro quanto incontrollabile che, solo a sprazzi e in determinate condizioni sa riappropriarsi dello spirito originario e brillare di luce propria restituendo schegge di cinema che entrano sottopelle e che lasciano il segno nel cervello e nel cuore.
Gianluigi Perrone