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Intervista a Francesca Melandri

Creato il 22 giugno 2010 da Gadilu

Intervista a Francesca Melandri

Pubblico qui la versione integrale dell’intervista a Francesca Melandri apparsa sul Corriere dell’Alto Adige di oggi.

Il primo luglio, alle ore 18.30, la scrittrice Francesca Melandri presenterà all’Eurac di Bolzano il suo romanzo “Eva dorme”. Si tratta di un libro che intreccia una complessa vicenda d’amore (e dunque individuale) con la recente storia dell’Alto Adige-Südtirol, rappresentando così anche un importante contributo di riflessione – in lingua italiana – sul nostro territorio e i suoi problemi. Abbiamo chiesto all’autrice di rispondere ad alcune domande suscitate dalla lettura della sua opera.

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Scorrendo le tue note biografiche apprendiamo che hai vissuto per quindici anni in Sudtirolo. Ci puoi raccontare in cosa è consistita per te questa lunga esperienza e in che modo ti ha arricchita?

Domanda facilissima: sono più ricca di due figli rispetto a prima di andarci a vivere. Per di più due figli, come dice la dedica del libro, “allegri mistilingue”. Però va detto che io in Sudtirolo ci vado da quando sono nata. La mia famiglia ha una casa che ha esattamente la mia età, nelle alture sopra Santa Cristina di Val Gardena. Non ho mai vissuto senza che questa provincia facesse profondamente parte della mia vita, insomma. Ancora adesso quando sogno l’infanzia sogno le estati nei boschi e i sottotetti dei fienili, mica i noiosi appartamenti di città.

Si dice che la scrittura corrisponde a due bisogni precisi (oltre a quello del semplice narrare). Il bisogno di capire, di fissare sulla carta i contorni di un problema per poi prepararsi ad approfondirlo sempre di più, e quello di prenderne congedo, cioè di spingerlo nel passato. In quale dei due bisogni ti riconosci maggiormente?

Pensi davvero che la scrittura sia questo? Mi pare che sia troppo, come definizione, ed allo stesso tempo troppo poco. Lo scrittore è come un dio che racconta a sé stesso il proprio universo. Io mentre scrivo rido, mi commuovo, a volte perfino mi spazientisco con l’universo che mi si sta svolgendo tra le mani, oppure mi dico, “ma guarda un po’, chi l’avrebbe mai detto!”. Poi la scrittura è musicalità, emozione che sbotta imprevista, e tante altre cose ancora, I due bisogni di cui parli sicuramente caratterizzano la scrittura però, guarda, mi viene il dubbio che forse caratterizzino anche l’esistenza umana in generale. O almeno, ogni esistenza che cerchi almeno un po’ di essere consapevole, oppure, come direbbe Jung, di svolgere il proprio unico, inimitabile e insostituibile processo di individuazione: prima elaborare, poi andare oltre. Ognuno questo viaggio lo fa con i suoi strumenti, talenti ed energie. Lo scrittore lo fa (anche) raccontando storie, ma non è certo l’unico modo.

Tu sei una scrittrice italiana, la lingua italiana è dunque il mezzo privilegiato con il quale ti esprimi. Proponendo però una storia “sudtirolese” impattiamo un contesto irriducibilmente plurilingue. Che tipo di considerazioni è possibile svolgere al riguardo?

Qui tocchi un punto molto personale. Io in realtà sono una scrittrice bilingue, ma il tedesco – che ho imparato, se l’ho imparato, da adulta – non c’entra niente: le mie due lingue sono l’inglese e l’italiano. Ho i cassetti pieni di racconti scritti in inglese, e dagli anni in cui ho molto viaggiato e vissuto in Asia mi sono rimasti pacchi di taccuini di viaggio in inglese. Ho anche scritto professionalmente per il cinema in inglese. Leggo molto più in inglese che in italiano, sogno sia in inglese che in italiano. Questo per raccontare che la situazione di spaesamento linguistico – inevitabile di chi racconta (e legge) una storia ambientata in un luogo d’incontro tra lingue come il Sudtirolo – ha sempre fatto parte, anche in tutt’altri contesti, della mia storia e del mio rapporto con la scrittura e con la parola. Questo spaesamento linguistico, questo sentimento di non appartenere né di identificarmi precisamente con una sola lingua (e quindi, come sappiamo, con una sola versione del mondo) lo considero una condizione forse non sempre comoda ma fertilissima, insomma una delle grandi fortune che abbia avuto nella vita. Sicuramente essa è tra i motivi per cui mi sono azzardata a fare una cosa così follemente ambiziosa – se non, diciamolo, presuntuosa – come raccontare una terra che non è la mia (se non per l’amore che nutro verso di essa), con protagonisti che parlano una lingua non mia.

Anche se la figura di Vito – il carabiniere, l’italiano “buono” – svolge una funzione centrale, “Eva dorme” è scritto con un’ottica “tedesca” (le due protagoniste principali, Gerda ed Eva, sono sudtirolesi di lingua tedesca). Come sei arrivata a prendere questa decisione?

Forse non mi crederà nessuno, ma io al fatto che questa scelta avrebbe potuto essere considerata strana non ci ho mai pensato. Voglio dire, per me Gerda ed Eva sono persone. Punto. E a me da narratrice interessano le persone. Le circostanze mediante le quali ho imbastito le loro vicende hanno fatto sì che quello di Gerda e Vito fosse un amore “interetnico”, e volevo inoltre raccontare la storia di una minoranza linguistica, quindi questo mi ha fatto scegliere del tutto naturalmente la loro rispettiva lingua, senza un solo pensiero al fatto che, essendo io italiana, mi sarebbe forse sembrato strano o difficile immedesimarmi con un personaggio di lingua tedesca – e infatti non lo è stato. Il fatto che Gerda ed Eva fossero di lingua tedesca non me le ha mai rese  estranee o “fremd”. Siccome però tutti mi fanno notare questa cosa come una stranezza (ma solo ora che il libro è uscito) ho cominciato anch’io a chiedermi come sia stato possibile. Non so dire con certezza, ma sento che c’entri il fatto che per periodi estesi ho viaggiato e lavorato a lungo in posti non solo “estranei”, ma decisamente esotici. Posti in cui, insomma, magari si comunica con la lingua franca che è l’inglese ma poi c’è il bengali, il thai, il mongolo o il cantonese, e se tu queste lingue non lo sai bene (e io non le sapevo bene) ci sono altri modi di comunicare per sentirsi vicini alle persone. Ecco, io credo che forse è stata questa esperienza fatta in anni formativi della vita a convincermi che c’è qualcosa di profondamente condivisibile e comunicabile al di là della lingua – la condizione umana, suppongo si chiami. Quindi non m’è proprio venuto in mente di considerare un personaggio estraneo o “difficile da descrivere” solo perché non parla la mia lingua madre, ma il tedesco.

Per scrivere il libro hai sicuramente consultato diversi testi che hanno per tema la questione sudtirolese. Quali ti hanno influenzato di più?

Più che singoli testi, citerei il fatto che, sapendo almeno un po’ la lingua, ho potuto accedere alla bibliografia tedesca sulle vicende Sudtirolesi, ovvero quella bibliografia che gli scrittori italiani che hanno scritto di questa terra non hanno mai letto – proprio perché appunto in tedesco. Il fatto che in italiano ci sia pochissimo materiale è stata un’altra scoperta, del tutto coerente col fatto che di questa terra in Italia a lungo non ci si è occupati se non in modo propagandistico e/o inconsapevole. Se non avessi saputo il tedesco, “Eva dorme” non l’avrei mai potuto scrivere perché le ricerche storiografiche sarebbero state azzoppate. Però detto questo mi piace citare due libri in italiano, non di storici ma di giornalisti, che mi hanno fatto riflettere su tante cose: “Il calicanto di Magnago” di Riccardo Dello Sbarba e “Spaesati” di Lucio Giudiceandrea. Ma le mie più importanti fonti sono state le molte persone che ho intervistato per farmi raccontare come sono andate le cose, come le hanno vissute, insomma il fattore umano. Sono citate alla fine del libro, e ci tengo molto che vengano trattate come la vera fonte anche intellettuale di questo libro: è attraverso i loro racconti che mi sono fatta un’idea di come sono andate davvero le cose. Sempre per il motivo che io non sono una storica, bensì una romanziera. La Storia non esiste, per me, se non incarnata nelle persone che l’attraversano, ne sono sospinte, la plasmano. Anche per questo ho scelto di descrivere Silvius Magnago come persona, non come figura astrattamente politica.

Qui da noi la storia è ingombrante. È come un gorgo che attira a sé ogni aspetto del discorso pubblico (a cominciare dalla politica). Ora, anche nel libro la storia gioca un ruolo determinante. Ma lo fa più a livello individuale che a livello collettivo. I protagonisti di “Eva dorme” non sono per così dire “rappresentanti” dei rispettivi gruppi linguistici, o almeno non solo. Sono individui in carne ed ossa, assolutamente particolari. È possibile dare a questo fatto una lettura anche “politica”?

La risposta forse l’ho già data sopra. La persona per me è persona, senza distinzione di razza, sesso eccetera. Quindi anche i miei personaggi li ho visti così. Nessuno deve essere giudicato in quanto “rappresentante” di un gruppo linguistico, di un’etnia, di una religione, ma ha il diritto ad essere giudicato e conosciuto unicamente per quello che è come individuo. Tanto più questo vale per un personaggio da parte del suo narratore. E’ questo un discorso politico? Forse in questi tempi, purtroppo… E allora dico che questa è la mia unica vera “ideologia” (comunque mi consolo pensando che sono in buona compagnia, visto che la nostra meravigliosa Costituzione inizia proprio così, e i Sudtirolesi sono molto fortunati che il Paese del quale si sono trovati a far parte l’avesse come carta fondante – altrimenti forse l’autonomia non si sarebbe mai realizzata).

La parola “Heimat”, così centrale per comprendere il rapporto dei sudtirolesi con la loro terra, si declina con difficoltà in italiano e per gli italiani di qui (a cominciare dalla sua traduzione, che risulta infatti impossibile). Tu che significato dai a questo concetto? Che cosa è “Heimat” per te?

La mancanza del concetto di Heimat ha sicuramente contraddistinto la storia d’Italia (noi abbiamo storicamente la famiglia, o il campanile, e proprio non è la stessa cosa, tanto meno la parola “Patria” che subito ti senti un po’ ridicolo a pronunciarla). Heimat è una parola bellissima, certo intraducibile. Semanticamente, non a caso, è vicina seppure non coincidente con una delle mie parole preferite della lingua inglese, “home”. Io credo che l’identità si svolga tra due estremi dello spettro: il senso dell’Heimat (dell’appartenenza) da una parte e quello della libertà (dell’apertura) dall’altra. Per mia indole e grazie ai casi della vita io gravito personalmente, ad esempio, più verso questo secondo estremo. Ma credo che le due condizioni, esistenziali ancora più che culturali,  abbiano molto da insegnare l’una all’altra. In una società ideale dialogano e si arricchiscono a vicenda. E’ un po’ come quello che si dice che bisognerebbe fare con i figli, no? “Dai ai tuoi figli radici e ali”.

Adesso non vivi più in Sudtirolo, anche se il legame con questa terra è certamente ancora presente. Quali speranze vorresti condividere con i tuoi ex conterranei?

Ex? Come ex? Io i miei consanguinei sudtirolesi ce li ho ancora in casa, e tra loro parlano il Puschtra (il dialetto pusterese, ndr) anche ora che viviamo all’Esquilino, nel cuore di Roma! Più seriamente, innanzitutto la politica secondo me dovrebbe smetterla di strumentalizzare ed ideologizzare temi sui quali la società civile è ormai molto più avanti, il tema del bilinguismo su tutti ad esempio. Poi, se ai lettori italiani credo di aver raccontato una storia che non conoscevano, ai lettori Sudtirolesi mi farebbe piacere invece se il mio libro li facesse ricordare che la loro, nonostante tutto, è una storia di successo. Un successo umano, quindi imperfetto come tutte le cose umane, però accidenti, guardiamoci intorno, pensiamo alle altre storie di minoranze etniche in Europa e nel mondo, e poi valutiamo se le cose non avrebbero potuto andare peggio, molto peggio di così. Mi piacerebbe insomma che il Sudtirolo smettesse di rivolgere la propria attenzione solo ai propri problemi di convivenza e si rendesse conto invece di quanta strada è stata fatta, di come questo sia un patrimonio da condividere con il mondo intero. E la condivisione obbliga alla generosità. Ecco, forse i Sudtirolesi, ora che sono una delle società più prospere del pianeta, forse possono permettersi di essere più generosi: tra di loro, e con il resto del mondo.



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