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Intervista a Franco Zizola

Creato il 22 luglio 2013 da Temperamente

Intervista a Franco ZizolaLettori di Temperamente, oggi ospitiamo nel nostro salotto virtuale Franco Zizola, scrittore veneto autore del romanzo Roghi

Professor Zizola, Roghi ripercorre la storia di Giordano Bruno e Domenico Scandella detto Menocchio, ovvero di figure che hanno sopportato ogni pena per difendere le proprie idee; idee che non hanno ritrattato neanche dinanzi alla morte. Cosa l’ha spinta a scrivere un romanzo su questo tema?

Cosa mi ha spinto a scrivere un romanzo come questo? I romanzi nascono dentro. Prima di tutto. Un tormento durato tre anni e più. Caro Andrea… È un brutto guaio sentire il tempo volare via e cercare assurdamente di trattenerlo. Ancora non ho trovato altra risposta che quella antica: si scrive per cercare di comprendere, per svelare il mistero che ci chiude, per trovare un senso… nella speranza, vana, di evitare solitudine e di respingere al di là dei confini i barbari urlanti. Tracciare un confine, delimitare un campo. Gridano sempre più forte. Incuranti di diritto e di giustizia, strappano le insegne, irridono ghignanti a Giordano Bruno e a Domenico Scandella. Ma ho troppo deboli forze, la mia inettitudine pesa sempre più ed è storia antica. I mostri stanno vincendo la partita. Sono ancora quelli contro i quali aveva combattuto con tutte le sue forze Pier Paolo Pasolini… e Giordano Bruno e Domenico Scandella… e sai bene com’è finita.

Giordano Bruno e Domenico Scandella «odiavano i pedanti» della lingua italiana, e in un noto brano dello Spaccio de la bestia trionfante, citato anche nel suo romanzo, si legge che «Giordano parla per volgare, nomina liberamente; […] chiama il pane, pane; il vino, vino; il capo, capo; il piede, piede». Ebbene, per dirla con un’espressione di Alan Sokal, pare che ancora oggi viviamo in tempi di “imposture intellettuali”. La mia domanda allora è: quanto è importante per lei, che ha insegnato per molti anni lingua e letteratura italiana nei licei, un uso corretto della lingua e in generale dei linguaggi? Crede che oggi ci sia bisogno di una ecologia della comunicazione e del linguaggio?

La domanda innocente nasconde malizia: Quanto è importante l’uso corretto della lingua e in generale dei linguaggi? È importante la scuola, è necessaria? Non è un mestiere privo di senso, nel continuo divenire, nell’incessante trasformazione? Chi detta le regole? Chi pone vincoli e catene? I critici letterari, asserviti agli oscuri disegni dei signori delle tirature e delle mode, forse. La moda è amica della morte, come ben sapeva Giacomo Leopardi, che ha sofferto il Seicento sulla sua pelle ribelle. Perfino Leopardi ha cercato approdi e certezze nella classicità. Trovare un approdo è necessario in un mondo di materne parole dannunziane senza senso, piene di croci e di rosari assurdi. Processioni con statue gessose. Incubi nel freddo dopoguerra.Imposture intellettuali”. Le guerre non sono mai terminate. Cambiano soltanto gli strumenti. In questi anni chiudono fabbriche e scuole e mostri giganteschi invitano a morte. I letterati veri (forse qualcuno esiste ancora) captano le crisi con le loro sottilissime antenne. Non posso esimermi. Scrivere per me diventa necessità. Cerco verità. Bisogno vitale, ben consapevole dell’inutilità, oggi, della scrittura: serpenti e maiali non hanno, del resto, bisogno di parole umane. Mi chiedo cosa significhi scrivere. Portare, forse, alla luce il proprio interiore caos, come la giovinetta che, subita violenza nell’industria familiare tipografica, tentava scrittura senza riuscire a dare senso, a comunicare alcunché? Mi è capitato di pensare a Dino Campana, che andava regalando ai cittadini di Marradi le sue parole fuori norma, tutte da sottolineare con penna rossa e blu professorale. Il libraio soltanto del mio villaggio sa scrivere. Lui beato! A me le parole costano psichica fatica. Non mi accontentano mai. Non mi appagano.

Nel settimo capitolo del romanzo, intitolato Croci, è riportato quest’estratto dall’Etica di Spinoza: «mi resi conto che […] per il volgo religione significa tributare sommo onore al clero e ritenere dignità i ministeri ecclesiastici e fonte di prebende il loro esercizio». Professore, secondo lei è cambiata molto la mentalità dal Seicento ad oggi? E qual è la sua posizione dinanzi a quelle che sono forse delle derive attuali del fenomeno quali, ad esempio, la linea di merchandising di Ratzinger?

Credo che questo nostro sia il tempo violento dell’apparire e del provvisorio. Ma sono esperienze già conosciute nella storia della letteratura. Forme abbaglianti stordiscono. Io credo che l’anima vera del Seicento stia nella parola Trasformazione, una e inarrestabile, trasformazione e sperimentazione. «È del poeta il fin la meraviglia, chi non sa stupir vada alla striglia!». Molto meglio di tale Sgarbi Vittorio imperante oggi. Quanto saranno lunghe e vuote le giornate del prigioniero di bianco vestito nell’ex monastero Mater Ecclesiae? Troverà conforto nella preghiera, l’aiuterà a comprendere il presente e a costruire il futuro? Quale futuro? Povero papa Benedetto XVI! Io non lo credo possibile e provo tanta pena per lui, mentre le folle giovanili brasiliane devote si apprestano ad accogliere il successore suo, più che mai certe del trionfo celeste.

Molti suoi romanzi sono storici ma, come ne Le favole di Isabella, si ritrovano spesso allusioni alla contemporaneità. Le sue opere sembrano voler gettare in tal modo un ponte sui vizi e sulle corruzioni del nostro tempo, assumendo così un carattere universale e non soltanto storico. Uno sguardo alla storia può allora aiutare a comprendere il presente e a costruire il futuro?

Romanzi storici? Forse. Di una storia mai finita, fatta di continue sopraffazioni, di violenze e di morte. Il passato dura nel presente, ahimè! Forse lo pensava pure don Lisander parigino milanese, così sicuro della Provvidenza divina incomprensibile e oscura. Il presente non trova spiegazione privato del passato. Ma gli umani continueranno a scannarsi… amorevolmente, pregando.


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