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Intervista a Giovanni Turi, Osvaldo Capraro, Omar Di Monopoli

Creato il 23 settembre 2011 da Libriconsigliati

In occasione della presentazione del libro nel bellissimo centro storico di Locorotondo, abbiamo avuto modo di incontrare due degli autori e il curatore di Meridione d’Inchiostro, raccolta di racconti inediti di scrittori del Sud (Stilo Editrice), già recensita sulle nostre pagine.

A Osvaldo Capraro, Omar Di Monopoli e Giovanni Turi abbiamo posto alcune domande che hanno dato vita a un’interessante intervista che proponiamo a voi lettori.

Giovanni Turi, Osvaldo Capraro, Omar Di Monopoli

Giovanni Turi, Osvaldo Capraro, Omar Di Monopoli

Omar Di Monopoli

- Nel  tuo racconto (uno dei più efficaci dell’antologia) Nostro Signore L’Uomo-Purpu, aleggia un senso del tragico che rimanda immediatamente a I Malavoglia di Verga, forse per quel tentativo di sfidare il mare che non si conclude positivamente. Dunque non c’è speranza per i “vinti”, in ogni epoca?

- Credo che a ben guardare la figura-cardine alla base di tanta letteratura meridionale sia in realtà l’«invitto», particolare forma di sconfitto che in fondo non perde mai poiché latore di una quintessenziale invincibilità. Gli (anti)eroi che adoro descrivere nei miei libri sono così: gente semplice che affronta a capo chino un destino più grande, ma pur uscendone spesso colle ossa rotte – in verità avanzano senza paura verso la fenditura dell’orizzonte, con la consapevolezza di non avere altre opportunità che progredire nella tempesta, accettando magari il rischio di perdersi…

- Con la tua trilogia (Uomini e cani, Ferro e fuoco, La Legge di Fonzi, tutti pubblicati da Isbn Edizioni) hai inaugurato un nuovo genere letterario, il “western pugliese” che con uno sguardo disincantato e un linguaggio “sporcato” da dialettismi ma molto colto ci racconta un “certo” Sud. Come nasce questa tua scrittura così originale?

- Da una commistione di fattori: in primis, il fatto che a Manduria, terra in cui vivo, Sergio Leone veniva a prendere le facce da “peones” di cui costellava i suoi film. Quindi in qualche maniera amplifico e faccio mia una concezione delle mie terre che era già nella testa di un genio come il Maestro degli spaghetti-western. Poi sono figlio di un’adorazione che rasenta la patologia per il southern-gothic di stampo americano: per cui Faulkner, Caldwell e Flannery O’Connor sono il mio modello di riferimento. Infine c’è la lingua italiana, così ricca e onomatopeica, che se ben intavolata può sorprendere davvero tutti i palati (e se a questo ci aggiungiamo il pepe del vernacolo, la ricetta si fa unica e originalissima).

- “Compito della letteratura è accendere i riflettori sulle lacerazioni” è tua questa definizione. Cosa rispondi a chi ti accusa di non fare “buona pubblicità” alla tua terra?

Che a occuparsi della promozione della Puglia migliore ci pensano già, e con straordinaria efficacia, le associazioni turistiche e gli assessorati competenti. Chi si occupa di arte, chi è impegnato nel campo della cultura tout court (anche quando, come nel mio caso, in fondo scrive giallacci impastati di Sud e pistolettate) deve prefissarsi necessariamente obiettivi diversi: farsi carico della zona oscura, sporcarsi le mani per raccontare ciò che ufficialmente viene taciuto: non siamo e non vogliamo essere brochure di benvenuto per nuovi, agognati visitatori da spennare…

- Il tuo racconto ha un elemento in comune con quello di Osvaldo Capraro: entrambi raccontano come lo sguardo degli altri possa influire sul destino dei singoli. È anche una metafora del Sud. O no?

Non c’è dubbio che, per dirla con John Donne, «nessun uomo è un’isola!», siamo parte di un grande disegno, ognuno componente fondamentale e al tempo stesso particella sostituibile di un universo sociale in perenne movimento. Al Sud lo sguardo degli altri si fa metafora di una crescita di consapevolezza mai sufficientemente «agita». Ci muoviamo aspettando il plauso altrui, il consenso dei maggiorenti, il finanziamento del Nord, l’elemosina del ricco politico di turno: ottemperando alle esigenze di qualcosa che è sempre fuori da noi: ma il Sud possiede una sua specificità, una propria peculiare identità che è fatta di secoli di storia, di ricchezze meravigliose. Forse dovremmo imparare a fidarci del cambiamento imparando a far tesoro di ciò che siamo stati, per guardare al futuro con maggiore fiducia.

Osvaldo Capraro

- Il tuo racconto, Il sopra e il sotto, è breve ma efficace come una pennellata decisa. È la storia di un “senza fissa dimora” come si direbbe oggi e del suo incontro con una figura straordinaria del nostro Sud, Don Tonino Bello, che però qui rimane, volutamente, sullo sfondo. Che senso ha oggi raccontare la figura di don Tonino? È rimasto qualcosa di quel suo tentativo di capovolgere l’immaginario?

- Don Tonino Bello era un “eretico”, uno che non si accomodava nei salotti del monopensiero dominante, lo contestava e non temeva di pagarne le conseguenze in termini di isolamento. Il nostro Meridione ha sempre avuto figure di “eretici”, ovviamente invisi al potere, di cui oggi sentiamo una grande nostalgia. Ma la forza dell’eresia sta nella contestazione del presente nell’ottica di un futuro migliore, ed è una forza che oltrepassa i limiti geografici. Don Tonino non era solo uomo del Sud, era uomo tout court, “fino in cima”, come avrebbe detto lui. Penso che uno dei compiti della letteratura, oggi, sia raccontare l’eresia e la forza spiazzante di un’utopia che relativizza il presente e che afferma a pugni stretti che il nostro è solo uno, non l’unico e nemmeno il migliore dei mondi possibili.

- A me sembra di ritrovare qui diversi elementi comuni a un tuo precedente racconto apparso nell’antologia della Minimum fax, Ogni maledetta domenica. Ma anche collegamenti con il tuo romanzo Né Padri Né figli… nel senso che in tutti c’è un ribaltamento di ruoli e un’ingiustizia di fondo. I “vinti” di verghiana memoria sono destinati a rimanere tali?

- Sì, finché non prenderanno coscienza che la propria situazione di “vinti” non proviene da un fato oscuro e immutabile, ma da una serie di circostanze difficili ma non impossibili da capovolgere. I vinti di una volta erano i poveri. Oggi sono i poveri di cultura, coloro che credono di pensare con la propria testa, ma sono eterodiretti da un’immensa struttura di potere mediatico. Per buttarlo giù basterebbe una consapevolezza di massa che, però, siamo sempre più lontani dal raggiungere.

- Il tuo racconto ha un elemento in comune con quello di Omar: entrambi raccontano come lo sguardo degli altri possa influire sul destino dei singoli. È anche una metafora del Sud. O no?

- Direi piuttosto una metafora della storia e di un modello di civiltà (o di inciviltà…) in cui i più deboli sono destinati a soccombere. Il modello del nostro benessere occidentale (ormai sempre più in crisi) è fondato sulle conquiste e gli sfruttamenti coloniali. Sullo schema, cioè, del più forte che si afferma sul popolo magari più avanzato culturalmente, ma meno preparato militarmente. Una delle possibilità perdute del nostro Sud è stata il dimenticare la nostra millenaria cultura per lasciarci colonizzare l’immaginario da quella dominante del mercato e dell’iperconsumo. Sparpagliati in monadi, senza più un’idea di comunità, continuiamo a essere terreno di caccia per conquistatori, diventiamo cioè come il loro sguardo ci vuole.

Giovanni Turi

- Giovanissimo, eppure sembra che tu ti sia trovato molto a tuo agio nel rapportarti agli autori di questa raccolta, tutti con un certo background. Come hai selezionato gli scrittori? Alla luce di tanti positivi riscontri, e considerato che molti nomi sono rimasti “fuori” ci sarà una seconda raccolta?

- Innanzitutto sono scrittori che hanno già ampiamente affermato il proprio talento, che nelle loro opere hanno dimostrato un’attenzione particolare ai temi sociali del Mezzogiorno o comunque a un’ambientazione meridionale; inoltre quasi tutti vivono da Napoli in giù (l’unica eccezione è Cosimo Argentina, ma chi più tarantino di lui?), si confrontano dunque quotidianamente con le problematiche della propria terra d’origine, ne colgono per primi gli spiragli di rinnovamento e talvolta se ne fanno promotori. Per il secondo volume ho già raccolto diverse adesioni, ma promuovere un’antologia di racconti pubblicata da un piccolo editore è impresa davvero ardua, per cui dobbiamo ancora fare un bilancio tra passione e impegno profusi e riscontri ottenuti.

- Nove autori, molto diversi tra loro, stili diversi, generazioni diverse: questa la forza di Meridione d’inchiostro. Alla fine, a tuo parere, quale immagine del Sud emerge?

Emerge un affresco del Sud tutt’altro che rasserenante; permangono situazioni di disagio e forme di arretratezza, contraddizioni e paradossi, eppure qualcosa sembra smuovere il nostro atavico immobilismo: se non altro la consapevolezza di dover e poter cambiare, a partire dalle piccole azioni, come l’ascolto delle situazioni di disagio o il rifiuto di ogni forma di omertà. Insomma, dove c’è una buona letteratura, c’è sempre speranza.

Mariella Sciancalepore per Libri Consigliati


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