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Intervista a Giuseppe Goffredo

Creato il 18 agosto 2011 da Temperamente

di Carlotta Suscagoffredo

Abbiamo già parlato di Meridione d’inchiostro (Stilo Editrice), e abbiamo intervistato alcuni degli autori dei racconti di questa bella antologia. Ma l’intervista a Giuseppe Goffredo merita di essere letta. Poeta e scrittore, Goffredo è anche editore della Poiesis Editrice (qui una recensione a un libro Poiesis). Oggi è su Temperamente in veste di scrittore del racconto Anche oggi mangio sabbia, su cui l’abbiamo intervistato.

Come hai scelto l’argomento di cui trattare nel tuo lemma di Meridione d’inchiostro, l’emigrazione forzata – e rischiosa?

Non l’ho scelto, non si sceglie. Sono le storie che ci vengono a cercare. Quella storia mi è venuta cercare mentre guidavo. Guardavo il paesaggio innamorato della Puglia, e pian piano la mia mano è stata guidata dagli occhi di un ragazzo che era costretto ad allontanarsi dalla sua terra con una divisa addosso; e poi, ancora ad allontanarsi più lontano, fra le montagne dell’Afganistan a combattere una guerra non voluta. Il giorno dopo i giornali hanno mostrato la foto di Marco Pedone, uno dei tanti ragazzi meridionali, nato a Patù, paese del Salento, morto ucciso in Afghanistan. Costretto a guadagnarsi il pane facendo il mestiere della guerra. Ucciso per immaginare il proprio futuro. L’emigrazione di oggi, anziché verso gli opifici industriali tedeschi, o le miniere del Belgio, è avviata verso il deserto dell’Afghanistan, da quelle contrade occorre fare salva la pelle e mandare i soldi a casa. Capita poi, di rientrare a pezzi in una bara e sentirti celebrato da un signor come La Russa. Bella soddisfazione. È questo che lo Stato immagina per i ragazzi del Sud? La militarizzazione dell’occupazione? La guerra?

Lessico e sintassi del racconto sono di grande effetto: in che modo approcci la scrittura narrativa? Quali le differenze rispetto all’attività poetica?

È la poesia che mi guida. Anzi e la poesia che guida la penna. La penna spreme sul quaderno la scrittura. Difficile spiegare la cosa diversamente. La scrittura è un fatto fisico. Quando qualcosa ti cerca con l’urgenza della verità, la mano esegue e la penna disegna ciò che devi dire. Non parlo di scrittura automatica. Qui sicuramente già la coscienza ha fatto il suo lavoro e l’inconscio ha prodotto i suoi impulsi, allora tutto è pronto: stile, linguaggio, lessico, sintassi, punteggiatura per esprimersi in un unico risultato. Toccare la propria epoca. Trovare il linguaggio per dirla. Non so se esiste confine fra poesia, narrativa, saggistica… non so. Credo occorra tutto. E tutto è nella soggettività di chi scrive. Chi scrive deve essere preparato da un lungo esercizio di vita, ma anche intellettuale, ma anche di scrittura. E poi qual è il confine fra tutte queste sfere? Non so. Credo che la letteratura, come tutto, in questa fase di pesante tramonto della modernità è in profonda crisi. In fondo la distinzione sempre più accentuata fra i diversi generi deriva più da un atto editoriale supino al mercato che da esigenze dettate dallo spirito. L’interezza soggettiva nella sua pienezza ha bisogno di coincidere con l’essere, mentre l’industrializzazione editoriale continua a vivisezionare, d’accordo con il potere per svuotare la forza della scrittura e rendere la letteratura ridicola.

Credi il Sud d’Italia si declini troppo spesso in senso turistico per ottenere una facile presa sul pubblico? Quale immagine ritieni sia fondamentale dare del nostro Meridione e in che modo?

Quello che dicevo sopra, ovvero: mettere a servizio la cultura del tempo libero è un grave errore. Far diventare la letteratura  un divertimento per tenere allegri i turisti nelle serate estive. Accoppiare turismo e cultura è un errore. È come castrare la scrittura e la poesia. Renderla ridicola al mondo. Quando ero ragazzo per strada spesso mi sentivo dire a mo’ di disprezzo “u poet”. Ovvero lo scemo del villaggio. Quello che è ridicolo e inutile. Ora tutti questi festival letterari, sul modello di Mantova, senza un progetto, senza alcuna causale culturale, sono quello che io chiamo movida letteraria. Una specie di saga paesana per attirare i vacanzieri. Creano un reddito politico. Ma certificano la fine della poesia e della letteratura. Consegnano la cultura, come la dittatura economica globale vuole, al divertimento, al relax. Uno scrittore non può parlare di angosce, gioia, disperazione, davanti a pubblico vagante, in cerca di sorprese, se lo fa, è destinato a fare la parte dell’idiota. Anche qui, vengono invocati numeri, percentuali, ma non ci si preoccupa di quanto lo spirito di un popolo possa desiderare. Troppo rumore per nulla, viene da pensare, l’impero dell’immagine, i tempi e i temi televisivi. Si dovrebbe invece partire dall’idea di capire, creare una nuova consapevolezza del Sud, in qualche maniera una idea nuova di modernità del Sud, ma anche dell’Italia. Io sono contrario ai nuovi Masanielli del Sud, D’Aprile o Patruno, nelle cose che dicono non c’è né fondamento né metodo, semplicemente si contrappongo alle grida sguaiate di Bossì ma ne sono i loro alter ego. Il risultato è la confusione o come dicono il ‘partito del Sud’. Il Sud invece, deve prendere consapevolezza di sé e della propria storia, in modo critico, per ricostruire una idea di sé. Il tema mediterraneo ad esempio è un tema importante non solo per il Mezzogiorno per tutta l’Italia. È affrontando il nodo di tale tema che potremmo cominciare a costruire una nuova cultura e un nuovo ruolo del nostro Paese fra Mediterraneo ed Europa, e non solo, superare pregiudizio, razzismo, luoghi comuni, tenere insieme il Nostro Paese che amo in ogni sua parte.

Ritieni che i giovani pugliesi e meridionali abbiano delle responsabilità maggiori dei loro coetanei italiani nel tentare di cambiare la propria condizione? Conviene tentare di rimanere al Sud e lottare ‘contro le cinghie e i dardi di un avverso destino’ o sei arrivato alla conclusione che non ne valga la pena?

Che domande straordinarie mi fai. E poi difficili. Sento che è un tua domanda interna. La domanda che molti giovani del Sud si fanno. Per esempio restare o andare via? E qui che faccio? Come mi comporto? Quale strada prendere? Come risolvo il problema del lavoro? Come metto insieme le necessità con i miei desideri, i miei sogni? A volte sento che i ragazzi sono soli quando affrontano questi temi. C’è vuoto intorno a loro. Com’è stato per me molti anni fa, quando ho dovuto scegliere cosa fare. Dicono che i migliori se ne vanno. Con gli anni ho scoperto che non è così. Restare qui e rimanere vivi, non arrendersi, ricominciare e sempre ricominciare, in realtà è la vera sfida del giusto sentire. Alla fine degli anni Settanta, dentro il tunnel politico, di un Sud dentro il corpo della balena, si stentava a trovare la propria strada. La scelta più facile era prendere la valigia. Chi rimaneva doveva subire l’onda di un posto di lavoro clientelare. Non c’era cosa, ente, banca, ospedale, che non era in mano alla politica. Chi restava doveva allora credere che qualcosa era possibile fare. Cos’è cambiato? Meglio, cosa hanno cambiato i pochi rimasti? Noi? Beh, parliamo di letteratura, ad esempio: se negli anni Ottanta, l’unica speranza per un giovane poeta era essere pubblicato da una casa editrice di Milano o Torino, ora sono alcune case editrici meridionali a pubblicare poeti o scrittori del Nord. È un segno questo di ciò che si costruito sul territorio.  Ciò è molto se il Sud ha il coraggio di alzare la testa e promuovere un proprio progetto, viceversa, in mancanza di una propria larga idea culturale, nulla potrà cambiare. Oggi io non penso più di essere poeta del Sud o del Nord, sono un poeta che vive in questa parte dell’Italia, del Mediterraneo e dell’Europa. Vivo qui. Certo ho accumulato amarezze, sconfitte, frustrazioni, solitudini, ma nel mezzo del cammino della mia vita, sono contento di essere qui, di lavorare qui, di indicare da qui la mia strada per l’Italia. Quando avevo ventisette anni, Natalia Ginsburg mi pregò di restare nella mia terra. Oggi so che aveva ragione, ho intrapreso da allora un lungo viaggio, diverso dai miei coetanei scrittori, la terra in cui sono rimasto mi ha fatto da madre aspra e incantatrice per farmi capire che dovevo pensare, fare e scrivere diversamente dagli altri, ma sono felice di averlo fatto. E lo auguro a chi è più giovane di me.

Grazie mille, e buon lavoro.


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