In occasione della recensione del volume Dostoevskij e la tradizione, ne intervistiamo il curatore Marco Caratozzolo, ricercatore presso l’Università degli Studi di Bari, dove insegna Lingua e Letteratura Russa.
La ‘tradizione’ cui questa raccolta di saggi fa riferimento è composta da «miti, Sacre Scritture, poemi omerici» e anche «satira menippea, dialogo socratico, senso carnevalesco del mondo». In sostanza, le basi culturali di buona parte dell’umanità. Crede che l’aver attinto a fonti così ‘universali’ abbia contribuito a rendere Dostoevskij un autore amato ovunque e in qualsiasi epoca storica?
Tutto ciò che noi abbiamo chiamato ‘tradizione’ in Dostoevskij ha sicuramente contribuito al suo successo, ma questa non sarebbe una risposta completa, poiché molti altri autori hanno utilizzato queste fonti antiche, ma non sempre arrivando al lettore in maniera così diretta e problematica. Dove sta la differenza allora? Nel fatto che Dostoevskij non usa la tradizione per apportare delle citazioni dotte, o perché vuole trasmettere il sublime in letteratura oppure ancora perché vuole dimostrare di conoscere molto bene il passato. Dostoevskij usa questa tradizione per dimostrare che il mito ricompare in epoche storiche diverse con caratteristiche nuove, in una versione modernizzata e quindi più vicina all’uomo contemporaneo. I suoi personaggi sono talvolta originali «combinazioni» (Nazyrov) di elementi della tradizione provenienti da diversi momenti e contesti del passato: questo procedimento induce il lettore di Dostoevskij a pensare la vita umana non come un fenomeno avulso dalla storia, ma come la reinterpretazione di una storia antica, il ripetersi delle sfide tragiche del passato con cui tutti noi prima o poi dobbiamo misurarci. Ecco perché diciamo che Dostoevskij è un autore attuale, che ‘pone dei problemi’.
Nel suo saggio, spiega come in diversi personaggi di Dostoevskij sia rintracciabile l’archetipo letterario del buffone, declinato in diversi modi, e ne riporta alcuni esempi. Come spiega una tale ricorrenza? È possibile individuare una valenza simbolica unitaria, nonostante si tratti di figure dai caratteri anche molto diversi?
La ricorrenza del personaggio del buffone ha molti significati. Alcune volte questo tipo di personaggio compare con scopi comici, per stemperare la tensione drammatica che si respira nelle scene dello scontro dostoevskiano. La maggior parte delle volte, però, il buffone assolve una funzione liberatoria, poiché il suo essere fuori dal mondo delle regole, la sua parola schietta e volgare, le sue acute invettive contro i personaggi che rappresentano l’alta gerarchia, il desiderio di possesso, la falsità, trasmettono un senso di salvezza dall’oppressione del potere e sottolineano l’idea che in un mondo in cui non è stata detta l’ultima parola, in cui tutto può ancora essere, anche il ‘pre-potente’ è destinato a cadere. Il buffone viene ad annunciarglielo e a sancire questo passaggio: anche questa mi sembra un’antica storia che si ripete come un mito.
Quindi il ‘briccone divino’, di cui lei individua l’esempio più completo in Ferdyščenko, personaggio de ‘L’Idiota’, ha in sostanza il compito di svelare agli altri che esiste la possibilità di un’alternativa. Ma il protagonista del romanzo, il principe Myškin, dotato di un ‘superiore vedere’, non fa lo stesso, anche se in modo inconsapevole? Si potrebbe parlare di personaggi opposti e complementari?
Myškin e Ferdyščenko sono due personaggi opposti nella forma, ma complementari nella funzione. Entrambi provengono da un mondo “esterno” alla società, sono in qualche modo emarginati. Rappresentano due figure tipiche della cultura russa, entrambe votate a far emergere la verità, eppure in forme opposte. Myškin ricorda quella figura russa del folclore sacro definita jurodivyj, o folle in Cristo. Si tratta per lo più di semifolli che giravano per le strade vestiti di stracci e catene, facevano discorsi farneticanti, ma venivano rispettati perché si pensava portassero nella loro follia una parola divina, di verità, oltre al dono della preveggenza. Erano infatti gli unici che potevano permettersi di inveire contro lo zar. Ovviamente Myškin è una variazione di questa figura, di cui presenta i caratteri interiori, funzionali, ma non quelli esteriori. Ferdyšenko invece è il buffone, non quindi una figura del folclore sacro, ma del folclore di strada. A differenza di Myškin, egli è evanescente, non ha un posto definito in società, non agisce all’interno di essa, quindi porta la funzione dell’antico briccone divino, il quale è privo di legami forti con il mondo esterno e dopo aver ripristinato la libertà e la verità in un contesto di oppressione e falsità, esce di scena come un arlecchino teatrale che ha assolto la sua funzione.
Nell’ultimo saggio, Ugo Persi riflette, in una nota, sul modo in cui l’industria culturale odierna sia passata dallo stimolare il pubblico al semplice compiacerlo, abbassando inevitabilmente la qualità del proprio prodotto. Crede sia possibile e necessaria un’inversione di tendenza?
Il problema a mio avviso non è l’esistenza di prodotti di bassa qualità che cercano di compiacere il pubblico. Questa, se ci pensiamo bene, non è una novità della nostra epoca e non rappresenta un pericolo se il fruitore è capace di distinguere: tutti però sono davvero coscienti che il serial tratto dai Fratelli Karamazov è un’esperienza assai riduttiva rispetto alla lettura del romanzo? Il problema è che manca la pazienza e la ‘lentezza’ (uso la metafora di Milan Kundera) per approcciarci alla lettura. Tutti vogliono sempre un risultato immediato dai loro investimenti nel tempo libero: ‘perché leggere se l’industria culturale odierna mi dà quello che trovo in un libro in molto meno tempo?’, potrebbero pensare i più. Il problema è che soprattutto la lettura, in quanto fase impegnata, contemplativa, ‘lenta’ dell’approccio al testo, sviluppa il senso critico, permette di porre dei problemi, di mettere in dubbio la realtà e non accettarla così come ci viene trasmessa. Credo che viviamo in un’epoca in cui si ha fretta di arrivare a una conclusione, a un risultato, mentre si è perso il gusto del processo. Tutti vogliamo arrivare alla meta e non ci rendiamo conto che magari il viaggio per raggiungerla è anche più bello della meta stessa. Credo che un’inversione di tendenza sia possibile con una nuova educazione alla lettura, alla lentezza. Cosa fare in pratica? Promuovere i libri e la lettura sempre e ovunque, organizzare ancora più spesso letture e presentazioni di libri, valorizzare le biblioteche, spargere i libri dappertutto, nei negozi, nelle case, dal parrucchiere, nelle spiagge, in televisione, nei locali. E trasmettere, in queste occasioni, il messaggio della lentezza, del piacere della lettura.
Marina Lomunno