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Intervista a Maria Daniela Ranieri

Creato il 23 ottobre 2012 da Camphora @StarbooksIt

Oggi giornata tranquilla, un po’ noiosa a dire la verità. Meno male che entra una faccia conosciuta, qualcuno a cui si offre volentieri un caffè, ma anche un cappuccio, ma anche una cioccolata.

Noi ci conosciamo dai tempi in cui cercavi di fare la sceneggiatrice e frequentavi il Corso Rai. Poi le tue esperienze nel mondo della scrittura creativa sono approdate all’editoria. Ci racconti quale è stato l’incidente scatenante che ti ha portata alla pubblicazione del primo romanzo? E quanti romanzi hai all’attivo finora?

Non ho appeso Final Draft al chiodo! Continuo ad affiancare i due tipi di scrittura e spero di continuare a farlo in futuro.Il vero incidente scatenante è stato tanti anni fa, quando ho comprato il mio primo pc e ho scritto la prima sceneggiatura. Lì ho capito, dopo anni piuttosto bui, cosa volevo fare davvero.
Tutto il resto è arrivato di conseguenza. All’inizio ho mandato i miei lavori a vari concorsi. Qualcosa è andato bene, qualcosa no. Ed è stato proprio dopo uno di quei “no” che un’amica mi ha segnalato il concorso di Donna Moderna. Cercavano racconti ispirati ai romanzi di Sveva Casati Modignani. Mi sono fatta prestare “Vaniglia e Cioccolato” e ho immaginato il futuro della protagonista. Per prima cosa le ho ammazzato il marito (mossa apprezzata. Era un detestabile fedifrago) e poi le ho regalato una breve passione con un ragazzo molto più piccolo (mossa altrettanto apprezzata).
Il mio racconto è stato scelto ed è stato pubblicato nell’estate del 2006 dalla Sperling & Kupfer in una piccola raccolta insieme a quelli delle altre vincitrici.
In quell’occasione ho conosciuto Maria Paola Romeo, all’epoca editor presso Sperling. Mi ha proposto di scrivere un romanzo ed è nato Meno male che ci sei.
Il libro è andato benino, così siamo andati avanti. L’anno successivo ho pubblicato Più bella di così, e poi Se fosse tutto facile nel 2010.

Le tue storie appartengono indiscutibilmente al genere chick-lit, un genere che fa spesso storcere il naso alla critica e ai lettori di narrativa cosiddetta alta. Però è un genere che vende, e anche tanto a giudicare dalle classifiche (penso al romanzo di esordio di Daniela Farnese, come esempio recente). Preferiresti essere osannata dalla critica o preferisci avere lettrici che ti leggono per il piacere di una storia in cui si riconoscono?

Perché dovrei scegliere? Io voglio tutti e due!
A parte gli scherzi, credo che avvitarsi intorno alle distinzioni tra narrativa “alta” e commerciale non faccia bene a nessuno. Genera scrittori superbi e rancorosi, oppure ricchi e depressi con la sindrome di Fabio Volo. E rende i lettori miopi e condizionati. O bugiardi (Franzen in metropolitana, Kinsella sul comodino).
Per quanto riguarda il genere chick-lit (orribile definizione) è indubbiamente ancora di moda, ma non è di per sé garanzia di successo commerciale. Al momento ci sono un paio di titoli che vendono molto bene, è vero, ma consideriamo che gli editori “sparano” sul mercato una quantità impressionante di prodotti. Di questi, solo alcuni vengono apprezzati dai lettori. Il resto è usa e getta, spesso resta in circolazione per poche settimane prima di sparire per sempre.

Il tuo ultimo romanzo edito (Se fosse tutto facile) rispetto ai precedenti aveva una particolarità: il protagonista maschile. È stato semplice calarsi nei panni di un uomo?

È stato divertente e liberatorio. Mi hanno aiutato anni e anni trascorsi a raccogliere le confidenze dei maschi che mi circondavano. Da ragazzina, ero una di quelle a cui si dicono cose tipo: “Con le altre solo sesso e ancora sesso, che squallore. Con te è diverso, resterei a parlare tutta la notte”. Il romanzo è stata la mia vendetta.

Meno male che ci sei, il tuo romanzo di esordio, è diventato un film di cui hai scritto la sceneggiatura. Ci vuoi parlare delle differenze che si incontrano nell’adattare il proprio romanzo alla sua versione cinematografica? E soprattutto, lo farai di nuovo?

Le difficoltà sono state enormi, molte più del previsto.
In realtà, se lo scrittore e lo sceneggiatore coincidono, manca un passaggio fondamentale, quello della conversione automatica in immagini, della selezione più o meno conscia dei momenti importanti. È una prima elaborazione necessaria, che può essere fatta solo un lettore esterno.
Se non ci si smarca in maniera decisa dal testo scritto, si rischia un risultato finale appiattito e frettoloso, una riduzione (in tutti i sensi) del libro sullo schermo che difficilmente funzionerà.
Non a caso gli adattamenti migliori sono quelli in cui c’è la maggiore libertà rispetto al romanzo originale. Pensiamo a Shining di Kubrick, addirittura “rinnegato” da Stephen King: i “tradimenti” rispetto al romanzo sono quelli che forse si sono fissati di più nell’immaginario.
Ciò premesso, se qualcuno me lo chiederà di nuovo, risponderò di sì. Ma non dite che non vi avevo avvertito.

La tua esperienza come scrittrice è partita subito con l’interesse da parte di una grande casa editrice. Non è un percorso molto abituale. Ancora più da leggenda metropolitana è vincere un concorso indetto in tutta Italia e tra tutte le lettrici di Donna Moderna, e ritrovarsi con un contratto per un romanzo. Tra gli aspiranti esordienti circola molto scetticismo e molta malafede. Davvero è possibile arrivare a interessare un grande editore muniti solo della propria capacità di costruire buone storie?

Sì.
Basta guardarsi in giro. I romanzi che ultimamente hanno scalato le classifiche e raccolto premi importanti sono in buona parte opera di esordienti assoluti.
Mi sembra che gli editori siano continuamente alla ricerca del nuovo. Tra l’altro, non dimentichiamo che “scommettere” su un esordiente costa meno, e questo può aiutare molto in tempi di crisi.
Per quanto riguarda la leggenda metropolitana… Dipende da come la racconti. Se aggiungiamo i dettagli, e cioè i lavori non pagati, le porte in faccia, gli incarichi surreali, i rifiuti e le stroncature e le lacrime, prima, durante e dopo, allora ci avviciniamo un po’ di più alla realtà.
Le cose brutte non appaiono nelle quarte di copertina.
Tornando al concorso: ho scritto quel racconto in un momento di grande scoraggiamento, la mia collaborazione come dialoghista per una famosa soap opera si era conclusa dopo ben 2 (due!) puntate e questo affievoliva le mie speranze di poter vivere di questo lavoro. Ho insistito e rilanciato al momento giusto. Magari un altro avrebbe ceduto al pessimismo, chissà.
Comunque ne approfitto per comunicare agli autori della famosa soap opera che, nel caso fossero pentiti del loro errore ma fossero troppo orgogliosi per richiamarmi, io li ho perdonati. Non serbo rancore e posso trattare sul compenso.

All’uscita del tuo primo romanzo hai aperto un blog su Style, ma lo hai chiuso dopo poco tempo e ora non sei presente in rete, nemmeno con un profilo facebook o con il famigerato twitter. Non senti il bisogno di essere presente in rete come capita a molti tuoi colleghi? Non trovi che la tua assenza dai social network possa diventare un limite?

No.
Ogni tanto mi pongo il problema, ma poi mi rispondo che il mondo andrà avanti lo stesso anche senza conoscere la mia opinione sull’ultima eliminazione di Pechino Express.
Non nego che nella mia assenza dai social network ci sia un filo di compiacimento snob, come in quelle anziane scrittrici che dichiarano con orgoglio di scrivere ancora con la macchina Olivetti.
Però, davvero, non fa per me. Sono una persona riservata. Amo la confidenza, nella sua accezione più tradizionale. Mi piace parlare di me con chi se lo merita. Mi piace differenziare i contenuti, i tempi e i modi della comunicazione. Non ho grandi verità da gridare al cielo. E poi mi piace, ogni tanto, potermi scordare di alcune persone ed essere a mia volta scordata.
Sia chiaro, il mio non è un odio per il mezzo, tutt’altro. Sono sempre in rete ed essendo curiosissima leggo molto ciò che scrivono gli altri. Ammiro quelle persone (poche) che, sui blog o sui social, riescono a essere sempre brillanti, taglienti, originali, profonde e “sul pezzo”. Non ce la farei mai. Troppo faticoso. Dovrei fingere certezze che non ho. Passerei ore e ore a sforzarmi di scrivere la frase giusta per sembrare sufficientemente figa, salvo poi pentirmene il giorno dopo.
Già solo per rispondere a queste domande ho impiegato mezza giornata! E magari domani ti implorerò di cancellare tutte le risposte.

Ti è mai capitato di ricevere dai tuoi lettori romanzi da leggere e promuovere presso il tuo editore? E come rispondi?

Dico la verità: e cioè che, se uno degli esordienti di cui alla domanda sopra mi avesse sottoposto il suo romanzo, gli avrei risposto che i primi due capitoli erano carini, ma il resto era moscio, da riscrivere. Quell’esordiente (a cui, per fortuna, non era minimamente passato per la testa di chiedere la mia opinione) ha venduto fantastilioni di copie.
Quindi, non sono affidabile.
Prendo molte cantonate. Per esempio, se guardo il festival di Sanremo e sento un giovane che mi piace, dico “È in gamba questo, ne sentiremo parlare”. Regolarmente, il giovane viene eliminato alla prima serata, poi sparisce e cambia mestiere.
Inoltre, più in generale, chi scrive è un pessimo lettore. Non nel senso che legge poco, ma nel senso che legge male. Non è quasi mai sereno. Vede quasi tutto attraverso la lente deformante delle proprie fissazioni, frustrazioni e manie, dell’umore creativo del momento, di innamoramenti improvvisi e anche di invidie e antipatie viscerali. Ascoltare i commenti di uno scrittore sul lavoro di un altro scrittore è spesso un viaggio affascinante e spaventoso nei meandri delle brutture umane.
Del resto, se uno fosse sereno, risolto, ben disposto verso il mondo, che scriverebbe a fare?
Insomma, meglio affidarsi a qualcuno che possa valutare stile, contenuto e messaggio con maggiore lucidità e con criteri razionali e condivisi. E che sia totalmente immune dalla tentazione di copiare le buone idee, quando ci sono.



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