Tra i primi post di Oltreloscoglio c’è quello dedicato ad uno dei suoi libri, così ho pensato che sarebbe stato davvero interessante provare ad intervistare Marina Crescenti. Lei, gentilissima, ha accettato ed ecco di seguito la nostra chiacchierata!
Ciao Marina, noi ci conosciamo già ed è un piacere per me intervistarti. Spero sia l’occasione per farti conoscere anche ai lettori di Oltreloscoglio.
Se ti chiedo di presentarti… chi è Marina Crescenti?
E chi lo sa. Ci provo: una donna che vive delle passioni di quando era bambina, una bambina che realizza i suoi sogni coi mezzi e le capacità di un donna. Credo di essere puerilmente matura.
Cos’è per te scrivere e quando hai iniziato?
Scrivere è un bisogno fisiologico, se scrivo sto bene, se non scrivo mi sento una bomba a orologeria. Scrivere è libertà allo stato puro, un salto nel vuoto, è adrenalina. Scrivere è terapeutico. Una droga, non potrei farne a meno. Scrivere significa crescere. E’ vedere come cambi nel tempo, qualcuno che ti resta accanto, che cambia con te, per te, come te. Fedele, leale, non lo sarà solo se sarai tu a tradire te stesso con false emozioni, finti sentimenti su carta. Quando ho iniziato? Non ho molti ricordi legati a Barbie o Ciccio Bello, solo uno in particolare: una penna a sezione esagonale colorata di rosso, scivolava meravigliosamente sul foglio, inchiostro blu, avevo appena imparato a scrivere, non ho mai smesso.
Se invece ti riferisci alla narrativa, ho iniziato nel 2004 con 4 Demoni.
Ogni scrittore ha le sue abitudini, i suoi momenti speciali e modi di cogliere l’ispirazione. Tu in quale situazione ami scrivere i tuoi libri?
Sicuramente, di notte. Ma ogni momento può diventare perfetto, basta lasciarsi andare, ascoltarsi, lasciare che le cose arrivino dentro e sgorghino fuori, senza preconcetti, niente sbarramenti, puoi allora cogliere l’istante di una visione anche a un semaforo rosso. Importante è avere una penna sempre a portata di mano, anche un cruscotto a volte può essere una valida base di appoggio.
Da cosa nasce la predilezione per il genere giallo e noir?
Dalla mia voglia, no meglio, dalla necessità imprescindibile di conoscere fino in fondo il perché delle cose, e anche il dove, il quando, il come! E il giallo, come il noir, racchiude in sé tutto questo. Comunque, è una passione travolgente che ho da quando ero bambina, temo di esserci nata, non riesco a immaginarmi senza.
Dai tuoi libri emerge una particolare sapienza cinematografica. Infatti, i film polizieschi degli anni ’70 hanno creato il tuo immaginario fin da bambina. Quanto influisce la passione per il cinema sul tuo modo di scrivere?
Parte tutto da lì. Dai film gialli e polizieschi italiani dell’epoca – qualcosa del cinema francese, meno di quello americano – che ho visto e stravisto. Ci sono cresciuta. Mi hanno plasmata. Formata. Deformata?…
Ognuno di noi ha un libro speciale, quello che in qualche modo più di altri è stato importante nella nostra vita. Qual è il libro che ti ha lasciato il segno?
Due. Centomila gavette di ghiaccio, la mia bibbia, è arredo permanente del mio comodino. L’Alienista di Caleb Carr, lo spintone finale che mi ha fatto andare a sbattere contro la scrittura narrativa.
La citazione più bella letta in libro?
La vita è la cosa più infernale che possa capitare a una persona.
Veniamo a “E’ troppo sangue anche per me”, di cui i lettori di Oltreloscoglio hanno già avuto modo di leggere la recensione. Da quale idea è nato?
l giallo è una passione, la scusa per scrivere di ciò che desidero. In ogni mio libro, come in questo, esiste un argomento di fondo che comincia a premere dentro, io lo lascio fare, poi lo metabolizzo, lo sviscero, quando prende a gridare forte è ora che esca. E’ un parto. L’idea di “E’ troppo sangue anche per me” scatta dalle cosiddette Case delle Bambole, tristemente note anche come Joy Divisions, le Divisioni della Gioia, ovvero, i bordelli tedeschi dove gli ufficiali nazisti obbligavano le più belle giovani ebree, prelevate dai campi di concentramento e poi tirate a lucido, a prostituirsi senza sosta. Senza possibilità di fuga. Ma una ce la fa, almeno nella mia mente, e da questa idea ulteriore si snoda l’intero romanzo ambientato ai nostri giorni, con agganci al passato.
E’ troppo sangue anche per me è il terzo romanzo in cui il protagonista è Luc Narducci, commissario ispirato all’attore Luc Merenda. Quali sono secondo te i punti di forza del tuo Luc?
E’ vero, sincero, mostra solo quello che è veramente, conosce i suoi limiti, molto meno le sue capacità, perciò non si dà arie ed è comprensivo verso gli altri, poco con se stesso, si butta nelle cose e non si risparmia, è autoironico, impulsivo, fedele, è un sentimentale, sa essere un vero amico, ma soprattutto è un grandissimo gnocco!
Luc Merenda alla fine lo hai conosciuto! Dopo mail senza risposta, tentativi vari sei riuscita a conquistare anche lui. Come è andata?
La prima volta che ci siamo incontrati, un tre anni fa circa – ero andata a Parigi per farmi consegnare la prefazione al terzo romanzo – avevo il raffreddore, sfilo di tasca un fazzoletto, ma prima guardo strategicamente l’orologio al polso, le 10,15. Lo aspettavo per le 10,30. Avevo un quarto d’ora buono. Perfetto. Agisco con calma, con altrettanta calma, tramutatasi subito in un “vorrei sotterrarmi”, sollevo lo sguardo e me lo ritrovo davanti nell’esatto istante in cui mi soffio il naso. Erano trent’anni che volevo conoscerlo.
Oggi, stiamo scrivendo a quattro mani un memoir sugli episodi più divertenti della sua vita d’attore, ho superato il trauma.
In “E’ troppo sangue anche per me” Luc, commissario lombardo, preciso e rigoroso, è affiancato da un collega e amico di vecchia data pescarese. Si tratta di Orfeo, un investigatore dai modi meno convenzionali e caratterizzato da un forte accento abruzzese. Cosa viene fuori da questo incontro di personalità diverse?
C’è un’altra cosa nel libro che mi divertiva parecchio descrivere: il rapporto tra il protagonista, Luc, di Milano, e il suo amico poliziotto, Orfeo, di Pescara. T’ho detto tutto. Due mentalità a confronto. Nord e Sud. Ne succedono di tutti i colori, ridevo da sola, mentre scrivevo di questi due rompiscatole, come hai detto giustamente tu, così diversi, e impegnati, loro malgrado, in un’indagine dai toni cupi; credo si sia trattato anche di un espediente (inconsapevole?) per allentare la tensione. E non solo del lettore.
Orfeo con la sua semplicità, i suoi modi schietti, strappa a Luc ogni tanto un sorriso e gli fa capire che c’è anche un altro modo di vedere le cose. Vorrei riportare l’ultimo dialogo tra i due soggetti:
Le risaie sono ricolme d’acqua, Orfeo le osserva rapito mentre guido verso la chiesa. E si sta rilassando. Era ora. Chissà, mi domando, in un uomo che ha vissuto col mare davanti, quali emozioni susciti un paesaggio così diverso. Di certo, una percezione di armonia, un senso di pace nuovi per lui.
“A Lù.”
“Sì…”
“A Lù.”
“Eh!”
“A Lù, ma quant’ cazz’ ha piovuto?”
La scelta di dar voce a un personaggio di Pescara è legata alle tue origini, giusto?
Giusto. Il romanzo comincia con un omicidio avvenuto a Pescara, ma è ambientato tra Milano e Pavia, con una breve tappa a Varsavia. Il perché io abbia voluto inserire Pescara in un mio romanzo è presto detto: è la mia città. Vivo a Pavia da diversi anni, cominciava a non piacermi che parlassero o scrivessero di me come una scrittrice pavese. Perciò, ho pensato che fosse arrivato il momento di “immortalare” tra le pagine di un mio libro le mie radici.
Luc Narducci è circondato da tanti altri personaggi: la sua squadra investigativa e la sua famiglia. Credo contribuiscano a rendere avvincente la lettura, perché immergono il lettore in una realtà che sente più “umana” e vicina a lui. Quanto ti diverte muovere i fili della vita dei vari personaggi?
Molto. Quando dicevo che scrivere è libertà, voglio intendere proprio questo: dei tuoi personaggi puoi fare quello che vuoi. Come pure hai carta bianca con le vicende nelle quali vuoi immergerli. Puoi farli addirittura morire…
Credo anch’io che descrivere i personaggi a tutto tondo, lavoro, famiglia, relazioni interpersonali, hobby, presentarli dunque nella loro completezza, non solo renda la trama più densa, più interessante, ma il lettore finirà anche per affezionarsi a loro. La monotematicità la trovo piuttosto noiosa.
In “4 Demoni” era presente la tua passione per il tennis, in “Joy” tracce tratte dai brani dei Joy Division, band inglese degli anni ’79-80 e in E’ troppo sangue anche per me flash e immagini riferite ad un documentario sulla Joy Division (baracche femminili dei campi di concentramento in cui le donne venivano usate come prostitute dalle SS). Quest’ultimo è un tema molto delicato e importante, come è nata l’idea di proporlo nella vicenda da te narrata?
L’idea è nata da un documentario che ho visto in televisione intitolato “La Prostituzione e la Wehrmacht”. Non immaginavo a quali cose orribili andassero incontro quelle povere ragazze, e non è stato facile ascoltare queste ultraottantenni sopravvissute a quell’inferno mentre parlavano della loro sterilizzazione, del modo raccapricciante con cui veniva eseguita.
Ecco una testimonianza di come anche il giallo e il noir siano mondi letterari in cui è possibile trovare anche altro, per non parlare delle emozioni vere che suscitano e dunque, di quanto possano essere comunicativi. Eppure, per qualcuno, come è avvenuto per il Premio Nazionale di Letteratura Neri Pozza, gialli, fantasy ecc. ignorano il compito conoscitivo della letteratura…
Sono rimasta letteralmente allibita di fronte a tanta superficialità, boria e ignoranza. Non voglio aggiungere altro, lungi da me fare a questa casetta editrice, quantomeno di intenti, della pubblicità.
A ottobre è stato pubblicato il tuo nuovo romanzo “Le lacrime del branco.” Puoi presentarcelo?
Il romanzo si ispira ai nostri polizieschi degli anni ’70. Questa volta mi interessava mostrare la doppia dimensione in cui vivono i componenti del branco: carnefici e vittime al tempo stesso. Ragazzi che usano ogni genere di violenza senza mostrare rimorsi o ripensamenti, vittime degli abusi subiti in ambito familiare durante l’infanzia. Non a caso, il titolo parla di lacrime. Abusi, dunque, sofferenze, umiliazioni che traggono spunto da storie vere che ho approfondito in alcuni testi e saggi sull’argomento. Perciò, il mondo visto attraverso gli occhi di spietati assassini, il lato umano di cinque ragazzi nella difficile convivenza col proprio io, difettato, dilaniato da chi prima di loro la sapeva già lunga su come distruggere un’anima e deviarla in prossimità dell’Inferno.
Un’ultima domanda. Se ora avessi dinanzi un foglio bianco, cosa scriveresti?
Dopo il Branco? Una storia d’amore. Per purificarmi.
Marina, ti ringrazio per il tempo dedicato a questa intervista. Ancora complimenti e in bocca al lupo per tutti i tuoi prossimi progetti!
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