In occasione dell’uscita del n. 2/2012, dedicato in buon parte alla “Primavera araba”, “Eurasia” offre ai suoi lettori un’intervista esclusiva a Massimo Campanini, esperto di questioni mediorientali. L’intervista è stata realizzata tre mesi fa.
Professor Campanini, vorrei cominciare con la domanda forse più impegnativa, alla quale nessuno finora ha saputo dare una risposta esauriente, ammesso che ciò sia possibile ricorrendo ai consueti strumenti dell’analisi sociale e politica. Esiste a Suo avviso un filo conduttore, un motivo comune, in quella che è stata definita la “primavera araba”? Vi è chi la spiega con un diffuso desiderio di “libertà”, che però non può bastare come categoria analitica, anche perché la “libertà” è un concetto che va riempito di contenuti concreti. Per di più, gli occidentali, se davvero tenessero per principio alla “libertà” (che resterebbe pur sempre un concetto vago), aiuterebbero sia i “ribelli libici”, verso i quali sono stati così solerti, che i manifestanti del Bahrain, sommamente ignorati e peraltro più pacifici (visto che anche il “pacifismo” pare costituire per gli occidentali una “questione di principio” da cui far derivare simpatie ed appoggi). Non si è, piuttosto, in presenza di un “grande gioco” tra potenze nel quale il mondo arabo-islamico funge, per l’ennesima volta, da “campo di battaglia” e le relative popolazioni da ‘comparse’ di un dramma i cui protagonisti risiedono altrove?
Esistevano motivi oggettivi a giustificare le rivolte arabe. Il desiderio di libertà e partecipazione, il desiderio di essere protagonisti della vita politica e istituzionale dei singoli paesi è certamente uno di questi. Un membro dell’assemblea costituente tunisina, appartenente al partito islamico moderato al-Nahda, mi ha detto che la rivoluzione tunisina è stata la rivoluzione della dignità, della riacquisita consapevolezza di essere protagonisti e al centro della storia, come cittadini e come uomini. Naturalmente, tutto ciò non è sufficiente. Non bisogna trascurare le motivazioni economiche, la crisi del mondo del lavoro, la disoccupazione, la povertà ingigantite dal saccheggio delle risorse nazionali da parte dei regimi al potere, da quello di Ben ‘Ali a quello di Mubarak. È naturalmente anche vero che le rivolte o rivoluzioni arabe si sono inquadrate in un più ampio orizzonte di geopolitica internazionale dove gli interessi neo-imperialistici delle grandi potenze hanno avuto il loro ruolo. Questo giustifica i due pesi e le due misure che sono stati applicati, per esempio, in Libia e in Siria. Questa proiezione internazionale però non credo abbia avuto effetto sulla scaturigine e sullo svolgimento delle rivolte (fatto salvo il caso molto ambiguo della Libia) quanto piuttosto potrebbe averne sui potenziali esiti nel futuro dei cambiamenti istituzionali. Bisognerà verificare sul campo quanto la Tunisia e l’Egitto, ma anche la Libia e la Siria (poco si dice ormai dell’Algeria o dello Yemen) saranno in grado di determinare liberamente il proprio futuro. In ogni caso, nutro una visione relativamente positiva delle ribellioni che hanno agitato il mondo arabo mediterraneo nel 2011: sono convinto che, nella maggior parte dei casi, si sia trattato di autentici moti popolari che molto potevano dire riguardo alla sperimentazione, in paesi per lungo tempo di democrazia bloccata, di nuovi modelli politici. Questo a prescindere dagli sguardi interessati che dall’estero potevano essere gettati sulle rivolte, soprattutto nel timore che avrebbero potuto aprire la strada a un’affermazione dell’Islam (come in parte si sta verificando).
Nel cosiddetto “Occidente” viene sistematicamente diffusa dai media “autorevoli” l’idea secondo cui dovremmo tremare all’idea di un mondo islamico “in mano agli estremisti”. Ora, per chi s’informa solo dalla televisione e dai giornali più conformisti, anche i Fratelli Musulmani rientrano nel calderone del “fondamentalismo/estremismo/terrorismo”… Ma non le pare schizofrenico che, da una parte, i governi occidentali sostengano “rivolte” guidate da movimenti “islamisti” (i “liberal-democratici” arabi a mio avviso sono poco più che folclore) e, dall’altra, continuino ad alimentare questa paura del “terrorismo islamico”, di “al-Qâ‘ida” eccetera? Questo, se restiamo su un piano propagandistico. Gli occidentali, difatti, non si fanno alcuno scrupolo nell’essere “alleati” di chicchessia, compresi “regimi islamici” che “governano con la sharî‘a” (altra definizione “terrificante”) come quelli della Penisola araba, e ciò dimostra che l’unico criterio che per essi vale – come per chiunque altro, del resto – è sempre stato quello di considerare “alleato” chi accetta di “collaborare” e/o si sottomette, specialmente in campo economico e finanziario. Alla luce di tutto ciò, anche il tanto sbandierato “laicismo” – che sembrerebbe un valore non negoziabile in casa propria – non risulta affatto essere conditio sine qua non per lo stabilimento di solide “alleanze”: si pensi alla Siria, più “laica” (definizione che lascia il tempo che trova) dell’Arabia Saudita, eppure totalmente invisa a Washington e ai suoi alleati. Come spiega queste contraddizioni?
La spiegazione deve essere individuata, com’è ovvio, negli interessi geopolitici e di potenza che motivano le decisioni dei paesi occidentali. Il fatto che il regime siriano sia “laico” non è sufficiente a far dimenticare il suo costante legame con l’Unione Sovietica, prima, e la Russia dopo, oppure le convergenze strategiche che manifesta nei confronti del regime più vituperato del mondo contemporaneo, quello sciita rivoluzionario dell’Iran. Si tratta dunque di supportare tutti quei capi di Stato o quei movimenti o quelle tendenze ideologiche che in qualche modo risultano congrue o almeno utili ai disegni di potenza dell’Occidente in una regione “calda” e instabile come il Medio Oriente. In questa luce è evidente che l’islamismo politico o islamismo radicale, sostenitore, almeno sul piano teorico, di posizioni fortemente critiche per non dire ostili all’outlook e al sistema politico internazionale occidentale, venga additato come il principale nemico dell’ordine mondiale, come il destabilizzatore, ideologico e pratico, della democrazia internazionale. Da ciò derivano le condanne, spesso pregiudiziali e disinformate, di movimenti come i Fratelli Musulmani, che indubbiamente godono di consenso popolare e che stanno conseguendo importanti risultati in elezioni che possono essere considerate sostanzialmente libere e democratiche. Del resto, l’alternativa rappresentata dai movimenti islamici si innesta in un quadro di grave crisi, di idee e di rappresentatività, dei partiti liberal-democratici nei Paesi arabi, partiti che non hanno radicamento di massa e sono fondamentalmente elitari. Questi ultimi non hanno di fatto accettato il risultato elettorale che ha premiato gli islamisti e agitano lo spettro di un boicottaggio del processo di trasformazione istituzionale in atto dimostrando di essere ben poco coerenti con quei principi democratici che vanno sbandierando.
Alcuni sostengono che dietro questa “primavera araba” vi sarebbe una “regia occulta” dei Fratelli Musulmani, sostenuta dagli occidentali (con la Turchia a svolgere un ruolo di appoggio) e dalle “petromonarchie” del Golfo. Tra l’altro, è stato anche osservato che gli ex “moderati” Ben ‘Ali e Mubarak, ostili alla Fratellanza islamica, prima della loro defenestrazione stavano intensificando le loro relazioni con la Cina (similmente alla Grecia poco prima l’esplosione del “problema del debito greco”). Adesso, dopo il “cambiamento”, Tunisia ed Egitto, per non parlare della Libia, vengono ricondotti nell’alveo “atlantico” grazie alla collaborazione di dirigenze per anni tenute “al caldo” a Londra. E non stupisce, a questo punto che la “nuova Tunisia”, seguita immediatamente da altri, abbia espulso l’ambasciatore siriano ufficialmente per motivi di carattere “morale”, ma non il rappresentante diplomatico israeliano (che dovrebbe essere invece come il “fumo negli occhi” per chi dell’Islam fa una sorta di “programma politico”)! Ci può aiutare a comprendere meglio tutto ciò e a capire quali alleanze svilupperanno i Paesi arabi dopo le “rivolte”?
Che ci sia stata una regia occulta dei Fratelli Musulmani in combutta con l’Occidente dietro le rivolte arabe è una tale sciocchezza che non merita neppure di essere esaminata; e del resto risulta in palese contraddizione con quanto ipotizzato (e analizzato) nella domanda precedente. I Fratelli Musulmani stanno tentando di approfittare delle rivolte per imprimere un marchio islamico alle società in via di trasformazione di Tunisia, Egitto, Marocco e anche Libia, ma la loro proposta politica è lungi dal venire accettata dai policy-makers occidentali, ossessionati dal problema securitario “islamico”. Nel quadro del riassetto e del riassestamento delle relazioni internazionali dopo le rivolte, di tutto rilievo appare la posizione della Turchia che ambisce, da una parte, a un ruolo di potenza regionale grazie al suo peso demografico, economico e militare, e, dall’altra, a un ruolo di potenziale guida e punto di riferimento nei confronti dei nuovi regimi “islamicamente moderati”, alla luce del carattere altrettanto “islamicamente moderato” dell’AKP. Il problema del rapporto con Israele è ovviamente molto delicato. Credo che nessuno dei Paesi arabi abbia voglia di rischiare una nuova guerra con Israele, che sarebbe devastante per i rapporti internazionali oltre che per l’economia della regione. E tuttavia c’è da aspettarsi un raffreddamento o almeno una più consapevole presa di distanza dei nuovi governi islamisti moderati nei confronti dello Stato ebraico, rispetto alla politica succube e rinunciataria, per esempio, di un Mubarak. In ogni caso non credo ci sia da aspettarsi un profondo sconvolgimento delle alleanze internazionali della regione. Non foss’altro che per questioni economiche, i rapporti tra nuovi Paesi arabi e mondo occidentale rimarranno privilegiati rispetto, per esempio, a quelli con la Russia, che sta disperatamente cercando di non abbandonare la Siria di Assad per non perdere il suo principale punto di appoggio in Medio Oriente. Naturalmente l’espansionismo cinese cercherà di ingerirsi anche negli affari mediorientali, ma la Cina gode di maggiori credenziali di neutralità e di passato disimpegno rispetto alla Russia, e in ogni caso, se vorrà svolgere un ruolo significativo nell’area, dovrà calibrare e riequilibrare i suoi disegni strategici. Il Medio Oriente non è territorio “vergine” come l’Africa nera.
Dopo il suicidio del giovane tunisino Bou ‘Azizi, che ha rappresentato la miccia in grado di far esplodere la polveriera, i “disperati economici” che s’immolano in Tunisia non si contano, mentre in Libia si va già diffondendo – più rapidamente di quanto si è formata in Iraq – l’idea secondo cui “si stava meglio quando si stava peggio”. In Libia, inoltre, il “tenore di vita” non era quello delle masse di diseredati che comprensibilmente, in Egitto, appoggiano le “rivolte”… Vi sono poi dichiarazioni dei “salafiti” egiziani che denotano un certo attaccamento ai principi del “libero mercato”… Non c’è il concreto rischio che le speranze di molti di veder migliorare le proprie condizioni socio-economiche venga platealmente frustrato?
Le rivoluzioni o le rivolte su larga scala hanno sempre per conseguenza una crisi economica più o meno profonda, di riassestamento e di trasformazione. La storia rivoluzionaria dell’Unione sovietica e della Cina lo dimostra ampiamente. I Paesi arabi che hanno conosciuto le rivolte non sfuggono a questa regola: le economie di Tunisia ed Egitto sono in crisi e non è inverosimile che, almeno per un prevedibile futuro, la povertà si diffonderà piuttosto che diminuire. Molto dipenderà dalle politiche economiche che sapranno implementare i nuovi governi la cui operatività è comunque di là da venire. Indubbiamente la Libia godeva di una certa affluenza sotto Gheddafi e di certe garanzie di welfare. È giustificabile che esistano alcuni scontenti della situazione presente. Ma in ogni caso, anche qui non si può divinare il futuro. Il carattere liberista che indubbiamente prenderà il sistema economico libico – come già profondamente liberista era il carattere, sotto Ben ‘Ali e Mubarak, dei sistemi economici tunisino ed egiziano – dovrà essere attentamente programmato e monitorato.
Veniamo ora alla “questione palestinese”, che per decenni ha costituito il coperchio, la giustificazione, la valvola di sfogo di ogni tensione presente nella regione vicino-orientale. Come giudica il fatto che proprio durante questi sconvolgimenti nella regione arabo-islamica, sia la Palestina con la relativa “questione” ad essere passata in sott’ordine? Il “nuovo Egitto” non dovrebbe fare di più per i palestinesi? È notizia di questi giorni (12 febbraio 2012) che il gasolio egiziano è esaurito, e Gaza, pertanto, è rimasta al buio e al gelo!
Sono convinto che, purtroppo, per i palestinesi non ci sia una reale via d’uscita. Ormai nessuno dei Paesi arabi – peraltro secondo me con ragione – ha la possibilità o la volontà di mettere a rischio gli equilibri interni e internazionali per risolvere con una azione di forza la “questione palestinese”. I palestinesi sono sempre stati (dopo Nasser) fondamentalmente abbandonati a se stessi e questa situazione non cambierà anche se, per esempio, il nuovo Egitto potrà ulteriormente raffreddare (ma non rompere) la pace con Israele. Dovrebbe piuttosto essere Israele, se condizionato dalla maggioranza aggressiva e nazionalista che attualmente lo domina, a rendere la situazione più tesa e incandescente. I palestinesi devono in ogni caso contare sulle proprie forze per strappare qualche concessione.
Il ruolo della Turchia (membro della Nato, ricordiamolo), che sta proponendosi come uno degli attori principali delle sommosse nella vicina Siria, secondo Lei è coerente con quello sin qui svolto finora? Gli arabi – penso alla vicenda della Freedom Flotilla e ad alcune uscite eclatanti del primo ministro Erdogan contro Israele – guardano con molto favore alla Turchia “islamica”, visto che gli arabi stessi si dimostrano patologicamente incapaci di esprimere una guida capace di andare al di là dei particolarismi nazionali e settari. Ma non c’è il rischio, invece, che la Turchia si faccia prendere la mano inseguendo sogni d’egemonia regionale, e non solo (penso ai Balcani) rischiando di provocare oltre il limite di sopportazione altre medie e grandi potenze d’Eurasia (penso alla Russia e all’Iran)?
Come ho già detto in precedenza, la Turchia sogna di essere la bandiera e la guida di un Medio Oriente islamicamente moderato, fondamentalmente liberista, comunque prioritariamente interessato a un equilibrio internazionale regionale. Non credo che i dirigenti turchi vogliano comunque tirare a tal punto la corda da rischiare guerre. Il loro appoggio, almeno morale, alle rivolte arabe e il loro disegno strategico di indebolimento della Siria attuale o comunque di possibile controllo di un’eventuale nuova Siria si inquadrano in un medesimo orizzonte strategico di egemonia regionale. Un conflitto potenziale con l’Iran è possibile, ma allo stato attuale delle cose non conviene a nessuno.
Non ritiene che vi sia il rischio che gli arabi, infatuatisi in una sorta di “nazionalismo religioso”, possano prestarsi di buon grado a svolgere un ruolo attivo in un’ipotetica prossima campagna militare occidentale contro l’Iran? Non crede che un innalzamento della provocazione nei confronti di Tehran potrebbe innescare una fase particolarmente grave dello scontro in atto per il predominio mondiale, se non addirittura una guerra mondiale?
Lei evoca scenari apocalittici che non tengono conto della realpolitik. Certi regimi arabi, come l’Arabia Saudita o gli emirati del Golfo, vedrebbero sicuramente di buon occhio un indebolimento o addirittura un rovesciamento dell’Iran. Ma non hanno la forza militare per imporsi. D’altro canto, nuovi Paesi arabi come la Tunisia o l’Egitto non hanno alcuna convenienza ad inasprire le tensioni regionali, come ho già detto in precedenza. Un attacco israeliano (o israelo-americano) all’Iran rimane possibile, anche se, credo, non probabile perché scoperchierebbe un vaso di Pandora dalle conseguenze imprevedibili.
Un’ultima domanda: ne vale la pena di “fare la rivoluzione” per poi mantenere intangibili i confini, specialmente nel Vicino Oriente arabo-islamico? Voglio dire: che senso ha illudere le masse, sovente infiammate col sogno dell’unità dall’Atlantico al Golfo, se poi l’obiettivo non è quello di unire la “patria araba e islamica” in un’unica entità politico-amministrativa? A chi spetterebbe, a suo avviso, la guida di una siffatta entità? Vengono in mente i dibattiti sul Califfato che tennero banco ancora per tutti gli anni Trenta dopo la (illegittima, poiché l’Assemblea di Ankara non aveva alcun potere per farlo) abolizione del Califfato ottomano… Per non parlare delle crescenti aspettative messianiche che circolano nel mondo islamico proprio a proposito dell’esito finale di questa “primavera”…
I sogni universalistici, siano essi panarabi o panislamici, sono retaggi del passato e sono sostanzialmente improponibili e impraticabili nel mondo contemporaneo. Non vedo aprirsi prospettive né per l’uno né per l’altro. I particolarismi e gli egoismi nazionali e locali sono ormai dovunque predominanti. I Fratelli Musulmani per esempio potrebbero avere nel loro DNA una vocazione panislamista, ma soltanto dal punto di vista teorico. Dal punto di vista pratico sono interessati a ottenere il controllo di quei Paesi in cui stanno vincendo le elezioni, come in Tunisia o in Egitto. A questo fine nazionale o francamente nazionalistico, la rivoluzione indubbiamente può servire.
* Massimo Campanini (Milano 1954) ha insegnato nelle Università di Urbino, Milano e Napoli l’Orientale. Attualmente è professore associato di storia dei paesi islamici all’università di Trento. Si occupa di studi coranici, di pensiero politico islamico e di movimenti islamici contemporanei. Tra i suoi ultimi libri: Ideologia e politica nell’Islam (Mulino 2008) e I Fratelli Musulmani nel mondo contemporaneo (Utet 2010). È in corso di stampa L’alternativa islamica (Bruno Mondadori 2012).
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