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“Ho scritto a lungo di cibo e di vino, ma, onestamente, di entrambi non mi importa nulla. Viceversa mi interessa degli uomini, delle donne, della terra, della vita e dell’arte.”Michele, inizio citando quello che hai scritto ne I Sovversivi del gusto, perché ritengo che mai citazione fu più condivisibile. Mi piace questa tua bellissima commistione di persone e di cultura. Ma quanta fatica fanno quegli uomini e quelle donne?
Sai che è leggendo che ho capito che il cibo e il vino possono raccontare i luoghi, la storia, le persone, la bellezza? Me l’hanno insegnato certi scritti di Giuseppe Fava, il giornalista ucciso dalla mafia, il fondatore del mensile I Siciliani, alcuni suoi reportage alle pendici dell’Etna, alla ricerca di sapori, di vini, di ricordi anche, che sapevano dipingere la Sicilia, la miseria, la sottomissione, la rassegnazione, l’umanità, il vigore, la bellezza, la meraviglia, la fatica, la contraddizione di una terra maledetta e bellissima. Attraverso quegli scritti incontrati per caso ho iniziato a leggere il mondo attraverso il cibo e attraverso chi lo produce. A volte penso che fare bene l’agricoltore oggi sia ancora un mestiere da schiavo, da alzarti troppo presto al mattino, da arrivare a pezzi la sera e i conti magari non tornano. Poi però penso che gran parte della gente fa mestieri da schiavo, si alza triste al mattino, non riesce a parlare con i figli e già si è infilata in auto, sui treni ammassati di pendolari, entra in uffici sconfortanti e non produce niente che si possa toccare, vedere, annusare, mangiare, respira lo smog o l’aria condizionata. Vive ben peggio dei miei “sovversivi del gusto”. E a fine mese i conti non gli tornano uguale. C’è una donna di Lomellina, Lia Caimo Duc, che produce riso biologico e sta tutto il giorno sul trattore mentre prima faceva la commercialista. Allora tu guardi la sua pelle cotta dal sole e le chiedi: perché lo fai? E lei dice: per stare a contatto con la realtà. All’inizio ho pensi che ti prenda in giro, lei così fuori dalla realtà. Poi capisci che ha ragione: i campi sono veri, non i computer, i numeri, i conti. Allora guardi la stessa pelle e la vedi bellissima.
Tu scrivi, come dici tu stesso, di cibo e di vino. Lo fai da giornalista, da critico ma anche da scrittore. C’è una prevalenza fra questi tuoi ruoli o convivono tranquillamente?
Direi che è impossibile farli convivere, almeno per me. Io sono stato vittima per almeno vent’anni di un grosso equivoco nel quale mi sono infilato da solo. Sin da ragazzo ho sempre voluto scrivere, non ho mai pensato di fare altro nella vita, mi è sempre stato naturale, come respirare. Così mi sono infilato in una redazione e ho pensato che scrivere volesse dire fare il giornalista tanto da fare del giornalismo la mia professione. Ma non è così: fare bene il giornalista significa informare, far sapere, spiegare a volte. A me interessava e interessa raccontare. E questo è un’altra cosa. Dentro a questo equivoco sono cresciuto, ho girato l’Italia intera in lungo e il largo, ho scritto tantissimo e alla fine ho capito che raccontare era altro. Così oggi, anche occupandomi di alcuni dei temi intorno ai quali ho scritto da giornalista, lo faccio in modo molto diverso. Per riuscirci ho dovuto cambiare mestiere: da qualche anno scrivo solo libri. Nei miei ultimi lavori di saggistica mescolo le parole con lo stesso stile narrativo che utilizzo nei romanzi. Credo nella superiorità della narrazione rispetto all'informazione. Oggi sappiamo tutto ma questo non ci rende migliori. Leggere buona letteratura mi aiuta ad essere un uomo migliore, le parole di grandi scrittori mi servono a comprendere meglio la realtà. Mi piacerebbe, nel mio piccolo, trasmettere qualcosa di simile. Anche quando scrivo un saggio.
Nel leggerti ho capito che tu guardi con gli occhi, analizzi con il cervello ma scrivi con il cuore. In fin dei conti in quelle storie di quel cibo e di quel vino, di quegli uomini e di quelle donne sei completamente coinvolto. Quanto c’è di te nelle tue parole scritte?
Beh, io scrivo quello che vedo, come lo vedo, senza pelle, senza filtri. E per vederlo lo vivo. Per rimanere nel campo del cibo e del vino: racconto di luoghi dove sono stato, di persone che ho incontrato, di persone con le quali ho condiviso il pane e le idee o magari ho anche discusso animatamente. Quindi parlo inevitabilmente di me, perché io lì ci sono. A volte guardo da lontano, a volte filtro con la mia biografia, altre volte mi unisco ad un coro. Scrivere e vivere per me sono la stessa cosa, lo so che a dirlo così fa quasi sorridere, specie in tempi cupi e cinici come quelli in cui viviamo, ma per me è così. Vivo e racconto, racconto e vivo, faccio il mestiere di mettere in fila le parole e dai fili di parole tiro le fila dei luoghi che attraverso. È come un gioco di specchi, imitando Perseo uccido la mia piccola Gorgone Medusa attraverso uno specchio e facendolo ritrovo, o spero di ritrovare, quella leggerezza di cui insegna Calvino nelle Lezioni americane.
La memoria, il tempo. Mi pare che spesso fai i conti con loro in quello che scrivi. Che importanza hanno per te?
Non c’è futuro senza memoria. E probabilmente neppure il presente. Mi piace indagare nel passato, scavare nella storia, soprattutto quella recente, a portata di mano e di testimoni. Fare archeologia della modernità. La memoria collettiva è somma dei ricordi di ognuno di noi e quindi la mia scrittura scava nel ricordo, il mio, quello degli altri. Perché non si dimentichi, quando io per primo tendo a dimenticare, a farmi travolgere da un presente che non so da dove venga. Uccidere la memoria credo sia il modo “migliore” per creare generazioni di persone che non capiscono. Ecco, io coltivo la memoria per capirla, la coltivo sapendola fragile, imperfetta, manipolabile, anche incomprensibile perché noi oggi, spesso, dei segni del passato non comprendiamo nulla. Il passato, per dirla come il geografo David Lowenthal, è una terra straniera, richiede, aggiungo io, la passione dell’esploratore.
Dai! Ti faccio una domanda di quelle che stroncano le carriere, ma te la faccio perché so che tu mi rispondi. Meglio Veronelli e tutto ciò che ha rappresentato o meglio il Gambero Rosso e tutto ciò che rappresenta?
Meglio Riccardo Bacchelli o Dan Brown? Credo che Dan Brown scriva egregiamente ma si possa fare benissimo a meno di leggerlo. Esattamente come il Gambero Rosso. Se vivi in Italia non puoi non aver letto Il mulino del Po. Se ami il vino non puoi non ripeterti di tanto in tanto le parole di Veronelli, servono a darti la rotta a capire la strada: il peggior vino contadino è migliore del miglior vino industriale.
Un’ultima domanda. Forse la più impegnativa. Come si fa a preservare un territorio (appunto con il cibo, il vino, la terra, la vita e l’arte) senza trasformarlo in un simulacro della tradizione, ma tenendolo vivo?
Forse non barando e non fossilizzandosi intorno all’idea che ci siano delle radici da salvare. Gli uomini, come dice l’antropologo Marco Aime, hanno i piedi, non le radici. La storia è la stratificazione del tempo e delle genti, delle persone che l’hanno attraversata, richiede curiosità, attenzione e rispetto. La tradizione invece è spesso un’invenzione: una rappresentazione folcloristica della vita dei nonni scritta dai nipoti a proprio uso e consumo. Non preserva il territorio chi compra le rane cinesi o turche per proporle nelle osterie perché questa è la tradizione. Lo preserva chi sceglie di ridare vita alla terra, di abbandonare la chimica inutile, di permettere alle rane di vivere. Quelle sono le rane da offrire al viaggiatore. Amare la terra più del denaro, i viaggiatori più dei turisti, i libri più della televisione. Credo sia, banalmente la regola del buonsenso. Chi ama la propria terra la preserva ad ogni costo, non impedendo agli altri di entrare, ma rendendola viva e ospitale. Ma qui apriamo discorsi che portano davvero molto lontano. E io sono uno che racconta, non uno che sa dare risposte.
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