Anche se si hanno molti libri alle spalle, vincere il Premio Strega vuol dire raggiungere un traguardo importante. E Romana Petri lo sa bene: arrivata tra i dodici finalisti del Premio Strega 2013 grazie al romanzo Figli dello stesso padre, attende la proclamazione del vincitore che avverrà il 4 luglio. Nel mentre sono riuscita a rivolgerle qualche domanda in merito al contenuto del suo libro e al mondo dell’editoria.
Il vero motore dell’azione all’interno del suo libro è probabilmente la separazione tra Giovanni e la moglie Edda. Perché questo tema è così importante? Può averla influenzata il fatto che in Italia il numero di divorzi e separazioni sia aumentato?
Di separazioni nei romanzi si è parlato sempre moltissimo, molto meno invece di danni anche di lunga durata che possono generare nei figli. Con questo romanzo ho voluto dare voce al dolore dei figli, a quel dolore che nell’infanzia spesso nemmeno si capisce, ma che poi cresce che l’andare degli anni e diventa parte della vita di chi l’ha subito. Perché la separazione dei genitori, anche quando è necessaria, per i figli è sempre un torto subito, qualcosa che è stato loro tolto e senza che abbiano potuto far nulla per impedirlo. Perché i dolori più insopportabili sono proprio quelli dove noi non abbiamo voce in capitolo.
“Figli dello stesso padre” ha come protagonisti due fratelli, due uomini. Perché la scelta di parlare dell’universo maschile? I risvolti psicologici sarebbero stati diversi se due donne fossero state le protagoniste?
Io credo che sarebbero stati diversi e anche molto. Le donne recriminano più degli uomini e dunque parlano anche con maggior facilità. Ho voluto analizzare il pericoloso laconismo dei maschi, quel loro soffrire spesso in silenzio, dunque con poche risorse, quell’andare avanti a oltranza che a volte li porta sul baratro. Ma quando si lancia uno sguardo nel baratro, qualche volta, se la tentazione di andarci a finire dentro non è più forte, ci si salva. Dare voce agli uomini mi piace molto, del resto molti scrittori uomini hanno dato voce a protagoniste femminili. Perché stupirsi del contrario? Parlare di ciò che non siamo apre nuovi orizzonti. Uomini e donne hanno molto da imparare reciprocamente. Senza che debbano esserci i migliori e i peggiori per forza. Siamo diversi, ma siamo anche uguali.
È arrivata tra i finalisti del “Premio Strega”. Che cosa vorrebbe dire vincerlo?
Vincere il premio Strega generalmente cambia molto la vita di uno scrittore. Aumenta il suo pubblico e di conseguenza aumentano anche le sue opportunità, inutile negarlo. È un premio che stabilizza e che dà un futuro di pubblicazione in questo mondo così in crisi dove anche chi ha molti libri alle spalle sta sempre sotto esame, almeno sotto il profilo editoriale. Sono sempre di meno gli editori che rischiano.
Lei è una scrittrice che ha ricevuto molti premi e riconoscimenti. Quale percorso ha compiuto per arrivare ad essere quello che è ora?
Sono sempre stata molto isolata, ho lavorato molto e con grande dedizione. Mi sono dedicata alla scrittura perché era e continua ad essere una vera passione. Non lo considero un lavoro perché della letteratura ho un’idea ludica, ci scrive perché è un’urgenza, altrimenti è meglio non insistere.
Dietro ai suoi libri c’è solo una grande ispirazione o anche un delicato “labor limae”?
Credo molti nell’ispirazione e nell’impeto della scrittura, però il profondo senso di umiltà mi spinge poi a mettere il lavoro da parte per almeno un anno. Questo vuol dire che a distanza di tempo, quando lo riprendo in mano, lo faccio con un senso critico più paterno che materno, quando lo rivedi e ci lavoro sopra cerco di dimenticarmi che è mio.
Trascorre molto tempo sia a Roma che a Lisbona. All’estero l’editoria è in forte crisi come da noi?
In Portogallo l’editoria è ancora più in crisi perché è il paese stesso ad essere in una crisi della quale non si riesce a vedere l’uscita. L’editoria forte ovviamente resiste, i piccoli non fanno che chiudere. È una realtà dolorosa.
Un’ultima domanda: che cosa vuol dire per Lei scrivere?
Significa andare dall’altra parte del fiume. Si vive su una sponda, ma ogni tanto si ha il desiderio di andare dall’altra parte, magari anche solo per poi voltarsi indietro e guardare il luogo dove viviamo con un’altra prospettiva a magari dire con stupore: “Toh, e chi l’avrebbe detto!”
Ringrazio la dottoressa Petri per la disponibilità.
Articolo di Alessandra Coppo