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Intervista a Stefano Marino

Creato il 18 giugno 2014 da Temperamente

Stefano Marino1Lettori di Temperamente, ospite del nostro salotto virtuale è oggi Stefano Marino, autore del bel saggio La filosofia di Frank Zappa.

Salve, Stefano. Da studioso di filosofia e da zappiano a mia volta, non potevo non entusiasmarmi dinanzi al tuo libro, un libro di cui, lo dico sinceramente, ho spesso sentito l’esigenza e sofferto la mancanza. La mia prima curiosità è dunque: quella di Frank Zappa è tua passione personale o è un “capriccio” da studioso di filosofia estetica?
Beh, intanto ti ringrazio molto per i complimenti, che fanno sempre piacere. In particolare, mi ha molto colpito quel che dici a proposito dell’“esigenza” e della “mancanza” che, a tuo parere, si provava per un libro su Zappa un po’ particolare come il mio, cioè filosoficamente impostato e concepito. In effetti, è una mancanza che ho avvertito anch’io e che ho cercato di colmare scrivendo qualcosa di diverso da una biografia di Zappa, da una raccolta di interviste sulla sua musica o da un libro di commento ai suoi testi: tutte operazioni degnissime e anche importanti, sia chiaro, e che altri hanno già svolto sicuramente meglio di quanto non avrei saputo fare io (penso ai lavori di N. Slaven e B. Miles o, in Italia, di M. Pizzi); ma, per l’appunto, operazioni già svolte, per cui proporre un altro libro di quel tipo avrebbe rischiato di produrre un risultato ripetitivo. Di qui, l’idea di offrire invece una lettura filosofica, o comunque filosoficamente “ispirata”, della figura e dell’opera di Zappa: idea che (e così arrivo alla tua domanda) non considero né solamente il frutto di una passione personale, né il mero “capriccio” di uno studioso di filosofia, ma un po’ entrambe le cose e un po’ nessuna delle due! Con ciò voglio semplicemente dire che alla base del mio progetto c’è stata sicuramente la componente della passione personale per Zappa e, in generale, per la cosiddetta popular music: anzi, diciamo che alla base c’è stato il tentativo di far convogliare in un libro entrambe le mie passioni, visto che questo termine si può applicare egualmente bene, nel mio caso, sia alla filosofia che alla musica. Al tempo stesso, e nient’affatto in contraddizione con il primo impulso, alla base del mio progetto c’è stata anche la componente del “togliersi uno sfizio”, consistente nel prendermi la libertà, in primo luogo, di rivisitare criticamente alcune teorie di quello che, comunque, è il filosofo che mi ha maggiormente ispirato negli anni, e cioè Theodor W. Adorno, e nel prendermi la libertà, in secondo luogo (e in diretto collegamento col punto appena citato), di focalizzare la mia attenzione, per una volta, non sull’interpretazione di opere filosofiche, letterarie o musicali unanimemente considerate “elevate”, ma su un oggetto più controverso quanto al suo statuto culturale, ossia la popular music, la quale però ha sempre avuto un’enorme influenza sulla mia vita, perlomeno dall’adolescenza, quando scoprii di avere in casa un vero e proprio tesoro, la collezione di LP di mio padre (fra i quali esercitarono un fascino speciale su di me quelli di Doors, Led Zeppelin, Cream, Pink Floyd, Who, Genesis, King Crimson e, appunto, Zappa). Sotto questo punto di vista, il libro su Zappa e quello, per certi versi gemello o comunque complementare, che ho curato l’anno scorso col mio amico e collega Donato Ferdori (la raccolta di saggi Filosofia e popular music), possono anche esser considerati come dei piccoli ma, spero, non irrilevanti tentativi di avviare in Italia una discussione filosofica sulla musica pop-rock. Discussione che altrove, ad esempio nel mondo anglosassone, mi sembra invece ben avviata e, anzi, consolidata da anni. La domanda, infatti, è: se esistono, sono certamente legittime e sono ormai unanimemente accettate l’estetica del cinema o della fotografia, allora perché non si dovrebbe poter pensare anche allo sviluppo di un’estetica della popular music?

Vuoi spiegare ai lettori di Temperamente il significato del sottotitolo del tuo libro, “Un’interpretazione adorniana”?
Mah, guarda, la ragione di quel sottotitolo è semplice e risiede nel fatto che il mio libro è sì un libro su Zappa, certo, ma per certi versi è anche un libro su quello che, come ho appena detto, nonostante tutto (nonostante, cioè, la sua critica acerrima e un po’ prevenuta della popular music, che mi è sempre risultata abbastanza indigesta…) rimane il mio filosofo preferito, e cioè Adorno, al quale infatti sono dedicate ampie parti del testo, in particolare nel terzo capitolo. Sintetizzando, dunque, direi che il mio è un libro su entrambi (il che, come vedi, si ricollega a quanto dicevo prima sul tentativo di coniugare entrambe le passioni: la musica e la filosofia), o meglio, come scrivo nel libro, un tentativo di far interagire l’estetica di Adorno e la poetica di Zappa, nella convinzione che ciò possa rilevarsi utile sia per la comprensione di alcuni aspetti della musicologia filosofica del primo, sia per l’interpretazione del senso complessivo dell’opera del secondo. D’altra parte, il titolo La filosofia di Frank Zappa, originariamente suggeritomi da Luca Taddio della casa editrice Mimesis (a cui sono grato per aver creduto fin dall’inizio nel progetto), mi sembrava estremamente efficace e, quindi, ritenevo opportuno mantenerlo così, ma senza un sottotitolo “strategico” non sarebbe emerso il riferimento, per me decisivo, alle teorie filosofico-sociologiche di Adorno. Pertanto, diciamo che l’aggiunta del sottotitolo Un’interpretazione adorniana cerca di rendere giustizia al ruolo svolto dal confronto critico con Adorno nell’orientare la mia analisi dell’opera zappiana in una direzione ben precisa, e serve anche ad “avvisare” il lettore che qui, come dicevo prima, non si tratta di una biografia di Zappa o di una panoramica sul suo repertorio più famoso, bensì di un lavoro che – e spero di non sembrare pretenzioso nel dir ciò – rivendica un autentico statuto filosofico.

Una volta, nel corso di un dibattito sulla musica, un filosofo ha detto: «I tre geni musicali del Novecento sono I Beatles, Miles Davis e Frank Zappa». Ti senti di condividere quest’affermazione?
Sì e no. Sì, nel senso che è innegabile che i personaggi in questione meritino la qualifica di “geni” e rappresentino delle figure centrali del Novecento musicale. No, invece, nel senso che nutro una forte diffidenza per ogni tipo di riduzione di intere epoche (tanto più se complesse, variegate e persino contraddittorie, o quantomeno sfuggenti e difficili da inquadrare, come è stato senza dubbio il Novecento) a pochi nomi, stili o correnti, per quanto fondamentali essi possano anche esser stati. Il che, a mio avviso, vale sia per la musica e le arti, che per la filosofia o anche le scienze. Non so, la formula che citavi mi ha subito fatto venire in mente quella, molto nota e per certi versi anche efficace, ma senza dubbio un po’ riduttiva, che Richard Rorty pose all’inizio del suo capolavoro La filosofia e lo specchio della natura, là dove sosteneva che i tre “geni” filosofici del Novecento, quelli che, per così dire, con le loro grandi opere erano riusciti a contenere il pensiero di un intero secolo, fossero stati Dewey, Heidegger e Wittgenstein. Ora, nessuno può avere nulla da obiettare sul fatto che questi tre autori abbiano esercitato un’influenza profondissima e duratura sul panorama filosofico del XX e XXI secolo, e però rimane il fatto che operare una selezione del genere e, soprattutto, attribuirle poi una sorta di valore “assoluto”, finisce inevitabilmente per lasciare da parte una quantità di altri autori non meno importanti e degni di attenzione. Passando dalla filosofia alla musica, viene subito da chiedersi come si possa parlare de “i geni musicali del Novecento” (là dove tutto il problema, in fondo, sta nel semplice uso dell’articolo determinativo…) senza menzionare grandi e geniali personalità della musica “colta” del Novecento (da Mahler e Debussy, passando per Schönberg, Stravinskij, Webern, Bartók, Ives e Varèse, per giungere fino a Boulez, Stockhausen, Cage, Berio e Ligeti) o, volendosi limitare al jazz e alla musica pop-rock, senza porre a fianco di Davis nomi come Parker, Mingus, Monk, Coleman, Braxton e soprattutto Coltrane (che personalmente ho sempre ritenuto di un altro livello, per non dire di un altro pianeta!), o senza porre a fianco dei Beatles i vari Dylan, Velvet Underground, Hendrix o Eno: tutti, a loro modo, scopritori e inventori di linguaggi. Detto ciò, vorrei anche aggiungere che nel caso di Zappa, ecco, le cose si fanno forse più complicate… non nel senso che io intenda proclamarne la superiorità su qualcuno degli artisti che ho appena citato, niente affatto, non è certo questo che intendo (anche perché sono sempre stato diffidente verso operazioni del genere, come si sarà capito), ma semplicemente nel senso che certe distinzioni che, bene o male, riusciamo a mantenere e, anzi, si rivelano utili nel caso dei succitati compositori e musicisti, nel caso di un artista assolutamente sui generis come Zappa (al contempo “colto” e popular, ma a suo agio anche col vocabolario del jazz) vengono assolutamente a saltare.

Spesso i commentatori di Nietzsche separano con troppa superficialità il Nietzsche filosofo dal Nietzsche filologo, il Nietzsche filologo dal Nietzsche poeta, il Nietzsche poeta dal Nietzsche musicologo, e così via, non accorgendosi degli elementi comuni (ad esempio la questione del ritmo nella lingua) a tutti questi aspetti di uno stesso e unico pensatore. Idem per Zappa, nei confronti del quale si tende a separare con altrettanta facilità lo Zappa freak dallo Zappa ‘colto’, lo Zappa rocker dallo Zappa ‘sperimentale’, lo Zappa entertainer dallo Zappa ‘impegnato’. Cosa puoi dire a riguardo? Come ti poni nei confronti di queste categorizzazioni?
Sono perfettamente d’accordo con te, sia come discorso generale (e l’esempio che porti, cioè quello di Nietzsche, è senz’altro calzante), sia in particolare, cioè facendo specificamente riferimento a Zappa, un autore oltremodo complesso e non catalogabile. Un autore che, se lo si vuole davvero comprendere, va inteso appunto nella compresenza dell’aspetto profondo e di quello superficiale nella sua poetica, dell’aspetto erudito e di quello popular nella sua musica, dell’aspetto sublime di certe sue partiture e di quello disgustoso di molti suoi testi, e così via. Compresenza che, a mio modo di vedere, costituisce la vera cifra di un’opera sterminata, talvolta (come accade con qualsiasi artista, del resto) diseguale e oscillante quanto alla sua qualità, ma in ogni caso entusiasmante, come quella di Zappa. Guarda, penso che questo aspetto della compresenza di tutti gli aspetti che giustamente tu ricordavi (il freak, il “colto”, il rocker, lo “sperimentatore”, l’entertainer, l’“impegnato”) si colga benissimo nelle performance live di Zappa, forse ancor più che nelle registrazioni in studio, perché dal vivo, talvolta nello spazio di pochi brani, talvolta persino all’interno di un medesimo pezzo, si può notare davvero la sua inarrivabile capacità di scherzare, giocare e “intrattenere” (sia il pubblico, sia i musicisti della sua band, sia probabilmente anche se stesso!) anche avendo a che fare con materiali musicali di estrema complessità. Non so, penso a certe registrazioni live dei Mothers della prima metà degli anni Settanta, con Chester Thompson e Ruth Underwood impegnati a eseguire alla batteria e alle percussioni parti quasi ineseguibili per la loro difficoltà, e con Zappa che nel frattempo “disturbava” l’esecuzione (ma il “disturbo” estemporaneo, in realtà, era ovviamente concepito come parte integrante della performance) parlando, facendo battute improvvisate, ecc. La stessa cosa si può vedere naturalmente anche in altri filmati, ad esempio nel live dell’84 Does Humor Belong to Music?, il quale mi fa anche venire in mente la straordinaria procedura di Zappa di ri-arrangiamento in tempo reale dei brani durante il concerto, con la band che doveva prestare sempre attenzione ai suoi gesti perché c’era appunto un catalogo prestabilito di gesti concepiti per indicare al gruppo che, in base all’ispirazione o al capriccio o anche alla mera volontà di divertirsi del leader, l’arrangiamento standard del brano doveva essere improvvisamente abbandonato e bisognava saper suonare all’istante il medesimo pezzo ma, ad esempio, con tutt’altro ritmo (un caso frequente sono le reinterpretazioni dei brani in chiave reggae). D’altra parte, se con queste ultime considerazioni sto facendo riferimento al repertorio più “canzonettistico” di Zappa degli anni Ottanta, in cui, pure in un contesto di goliardia pura, si venivano comunque a inserire elementi di improvvisazione e sperimentazione, pensa per converso alla fortissima componente ironica presente in un progetto orchestrale serissimo e avanguardistico come The Yellow Shark. Tutto ciò, lo ribadisco, a conferma dell’idea di base (che, peraltro, ho visto essere condivisa anche da attentissimi studiosi del vocabolario musicale zappiano, come ad esempio G. Montecchi che cito spesso nel mio libro) secondo cui è impossibile e insensato, nel caso di un autore come Zappa, proporre delle “categorizzazioni”, come le chiami tu, volte a separare in maniera netta un aspetto della sua caleidoscopica personalità dall’altro.

Il tuo studio tratta di Frank Zappa, ma è anche un ripensamento dei concetti di “impegno” e “intrattenimento” e della loro possibile sovrapposizione. Secondo te, in tempi di uniformità e omologazione ai dettami dell’industria culturale e discografica c’è ancora spazio per l’autonomia di pensiero, per il pensiero critico, per l’espressione artistica tout court? In altri termini: Zappa ha degli eredi o è stato un fenomeno isolato?
Guarda, a dispetto dell’interesse e del rispetto che nutro per tanti critici “radicali” della modernità e contemporaneità, devo ammettere di non avere una visione catastrofista del mondo in cui viviamo. Nel senso che, sì, certamente constato nella nostra epoca l’esistenza di notevoli e preoccupanti tendenze all’uniformità, all’omologazione, al livellamento culturale, al condizionamento-istupidimento delle persone da parte dei mass media, ecc.; e, tuttavia, rilevo anche come sussistano innegabilmente degli spazi e dei “rifugi” per un pensiero critico, libero e autonomo. Spazi che, proprio in quanto ridotti spesso allo stato di meri “rifugi”, sono certamente insufficienti, e dei quali, dunque, non ci si può e non ci si deve accontentare (nel senso che ci si deve impegnare per ottenere sempre qualcosa di più e qualcosa di meglio), ma che pur tuttavia nelle società moderne esistono e che – è questo il dato che vorrei sottolineare – non ovunque, nel senso di “non in ogni tempo” e “non in ogni luogo”, sono stati egualmente tollerati… Sotto questo punto di vista, nonostante – come dicevo – mi sia occupato un po’ della cosiddetta “critica filosofica della modernità”, alla fine mi sento forse più vicino a una visione come quella di Jürgen Habermas, il quale vede nella modernità “un progetto incompiuto”. Vale a dire, riferendo il discorso a ciò su cui richiamavi l’attenzione nella tua domanda, un “progetto” che, proprio perché a volte non concede spazi sufficienti all’autonomia di pensiero, al pensiero critico o all’espressione artistica autentica, va sicuramente portato avanti, perfezionato, “completato” e, quand’è il caso, anche criticato (lungi da me negare tutto ciò: ci tengo a non esser frainteso e scambiato per un ottimista che crede di vivere nel migliore dei mondi possibili!), ma che non va affatto rifiutato in blocco o abbandonato, anche perché le alternative alla modernità (perlomeno considerandola nei suoi aspetti migliori, come quelli incarnati dai grandi valori dell’illuminismo) non mi sembrano granché attraenti… Detto ciò, e spostando ora il discorso da un piano filosofico e sociopolitico a un piano musicale, credo dunque che, sì, ci siano indubbiamente spazi per l’autonomia di pensiero e la libera espressione artistica, ma anche che l’esistenza di tali spazi non vada mai data per scontata, bensì salvaguardata e, se possibile, incrementata, tanto in relazione alla quantità quanto in relazione alla qualità dei suddetti “spazi” (come cantava Giovanni Lindo Ferretti alcuni anni fa, la libertà è “difficile, mai data, va sempre difesa, sempre riconquistata”). Infine, a proposito di Zappa, per quanto riguarda la rivendicazione di libertà e autonomia nei confronti dei dettami dell’industria culturale, credo che egli vada inserito in un discorso più ampio che parte perlomeno dal Dylan del 1965 – il quale con la celebre e traumatica (per i suoi fan) esibizione al Festival di Newport “distrusse” l’immagine di folk singer che pure l’aveva reso celebre – e che giunge fino ai giorni nostri, con i tentativi di artisti come Radiohead, Nine Inch Nails, Rage Against the Machine o Ani Di Franco di svincolarsi il più possibile dai controlli operati dal “sistema”. Da questo punto di vista, Zappa non rappresenterebbe tanto un unicum, quanto uno dei vari testimoni di un’esigenza condivisa, e fortemente sentita nell’universo musicale contemporaneo, di maggiori spazi di libertà. D’altra parte, però, nel momento in cui si prende in considerazione non tanto il “cosa” quanto piuttosto il “come”, appare chiaramente che un unicum Zappa lo è stato davvero: ovvero, nel momento in cui si prende in considerazione non tanto il fatto che egli abbia combattuto una battaglia che, tutto sommato, anche altri artisti hanno combattuto e tuttora combattono, quanto il modo in cui egli ha portato avanti tale battaglia, esso sì unico quanto a lucidità, coerenza, intransigenza, costanza e tenace perseveranza. Ecco, dal primo punto di vista direi allora che Zappa abbia avuto sia dei progenitori che degli eredi; dal secondo punto di vista direi invece che, perlomeno per quelle che sono le mie conoscenze del panorama pop-rock, l’unico personaggio accostabile a Zappa sotto questo aspetto (e anche sotto altri aspetti, in primo luogo per la qualità davvero eccelsa di buona parte della sua produzione musicale) sia forse Robert Fripp, con la sua teoria e pratica – che ho sempre trovato illuminanti e straordinarie – di lavorare “nel mercato ma non sottoposto ai valori del mercato”, agendo come una “piccola unità indipendente, mobile e intelligente”.

Leggo in quarta di copertina che oltre ad essere studioso di filosofia sei anche batterista. Ebbene, Frank Zappa, che non a caso ha iniziato suonando la batteria, ha avuto fra i suoi meriti quello di lanciare grandi batteristi come Terry Bozzio, Vinnie Colaiuta, Chester Thompson e Chad Wackerman: nomi che certamente conosci, e che si sono affermati come abili interpreti del ritmo e della tempistica zappiana. Perché è stato così importante per un compositore come Zappa avere dei grandi batteristi? E quanto è importante in generale la tempistica in musica?
Sì, dai 12-13 anni in poi la musica ha sempre accompagnato la mia vita, sia sotto forma di ascolto e studio teorico, sia sotto forma di pratica, come batterista appunto. Per questo motivo, è stato naturale per me dedicare il libro agli amici (in primo luogo i miei compagni nelle
band Mersenne e Comandante Brioche) con cui ho avuto modo di condividere nel corso degli anni questa esperienza magnifica e davvero arricchente che è il suonare insieme. Venendo ora a Zappa, come ricordi giustamente tu, anch’egli era batterista, o meglio compì i primi passi nel mondo della musica dietro piatti e tamburi, per passare però ben presto alla chitarra, con la quale avrebbe raggiunto livelli di assoluta eccellenza. Da un punto di vista biografico e immediato, dunque, il suo interesse per il ritmo proviene da lontano, addirittura dalla sua giovinezza, e ciò spiega la sua passione per l’aspetto percussivo, la sua tendenza a comporre anche (se non soprattutto) tenendo presente la dimensione metrico-ritmica della musica e, di qui, la sua cura e meticolosità nella scelta del batterista al momento di formare le band con cui registrare e andare in tour. Sono famosi gli aneddoti a proposito dei provini massacranti a cui Zappa sottopose perlomeno alcuni dei grandi batteristi che hai citato e, a questo proposito, ti dirò che fu proprio grazie a due opuscoli del musicologo G. Salvatore allegati a una rivista per batteristi che leggevo da ragazzino, nei quali si narravano tali aneddoti e si esaminava poi nel dettaglio il fattore ritmico che è preponderante nella concezione musicale zappiana (sebbene io consideri Zappa anche uno straordinario inventore di bellissime melodie: pensa ai temi di brani complessi ma in grado di conquistare l’ascoltare al primo ascolto come Peaches En Regalia e King Kong, o anche alla semplicità che però si avvicina alla perfezione di tante sue “canzonette”): ecco, dicevo, fu anche grazie a quegli opuscoli allegati alla rivista “Percussioni” che la figura di Zappa mi incuriosì e pian piano mi appassionò. Ricordo ancora il fascino misterioso della parola “poliritmi”, associata all’incredibile padronanza dello strumento di Vinnie Colaiuta, oppure la ricostruzione del modo in cui Terry Bozzio, per il quale Zappa compose appositamente l’infernale Black Page, passo per passo prese confidenza con la partitura e imparò a eseguirla: tutte cose che all’epoca (e, in una certa misura, ancora oggi!) mi sembravano assolutamente mitiche. Alla domanda sul perché sia stato così importante per Zappa circondarsi di grandi batteristi, dunque, risponderei molto semplicemente dicendo che se vuoi comporre musica così difficile dal punto di vista metrico e ritmico, beh allora devi per forza ingaggiare qualcuno come Bozzio, Colaiuta o Wackerman che sia poi in grado di leggerla, assimilarla, farla propria e infine eseguirla. Alla domanda su quanto sia importante in musica, in generale, il fattore temporale, risponderei poi che esso, accanto alle dimensioni orizzontale e verticale (o, se vuoi, melodica e armonica) e timbrica, rappresenta senz’altro una delle componenti fondamentali del suono come mero evento fisico, in primo luogo, e, in secondo luogo e soprattutto, del suono come evento umanamente organizzato, ovvero di ciò che, in sintesi, siamo soliti chiamare “musica”. Come accenno nel libro, alcuni musicologi ritengono che la tradizione occidentale, nel suo complesso, abbia privilegiato l’elaborazione della musica in senso melodico, armonico e contrappuntistico, rispetto allo sviluppo della sua dimensione metrica e ritmica. Sotto questo punto di vista, forse un “pensiero ritmico” come quello condensato nella musica Zappa (ma penso anche, a questo proposito, alle straordinarie ricerche e pratiche ritmiche di un compositore minimalista come Steve Reich, che adoro) può rivelarsi utile per ricordare alla musica “colta” la fondamentale importanza che il dato elementare del battito, della pulsazione, riveste in ogni musica, oserei dire nella musica in quanto tale, e al contempo per ricordare alla musica popular (che è spesso standardizzata e fossilizzata su un monotono 4/4 con accenti fissi, bisogna ammetterlo) come l’elemento del beat, nella sua immediata fisicità e naturale seduttività, possa anche essere base di partenza per sviluppi vivaci, fluidi e dinamici, anziché momento che non dà luogo ad alcuna sperimentazione o elaborazione.

Stefano Marino

Molto bene, Stefano, non mi resta che ringraziarti per tanta puntualità e passione, e rimandare ai seguenti link chi volesse saperne di più sulle tue attività:

Sito web docente

Link a brani dei Mersenne

Link a brani dei Comandante Brioche


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