Magazine Cultura
Un incontro con Veronica Tomassini
Buongiorno, vorrei iniziare chiedendole a quale età si è avvicinata alla scrittura e se è stato o meno un caso fortuito.
Ho cominciato a leggere, prima di tutto. Troppo e senza filtri. A nove anni avevo già esaurito la curiosità rispetto alla letteratura per ragazzi. A nove anni (non è un’iperbole) lessi “Christiane F. Noi i ragazzi dello zoo di Berlino”, prima ancora del classico “Piccole donne” di May Alcott. Dopo i ragazzi della via Paal, a circa dieci anni, ho preferito proseguire con Henry Miller e in bagno di nascosto con i diari di Anais Nin. C’era una libreria (la libreria paterna) che mi seduceva e non aveva censure. La scrittura mi affrontò finalmente con i temini di scuola, i miei diari, e una grande nostalgia, intraducibile, inarrivabile. Dolente e cupa, tendente all’esistenzialismo ed ai rossetti neri stile Cure, al liceo i miei temi facevano persino paura, pregni di melodramma e di una retorica pazzesca. Però prendevo buoni voti. Ed ero già nei luoghi della scrittura, credo però senza saperlo. I raccontini improbabili e roba così, ce li ho avuti nel cassetto a lungo. Finché non ho dimenticato. Fu la scrittura a ricordarsi di me, a distanza di anni. Congiunzioni, incontri speciali, che io chiamo affinità-traghetto. Ricominciò tutto di nuovo, la mia orbita affastellata di parole, io dentro, confusa, a raccattare e rimettere insieme, periodi brevi, sempre più brevi, accecata dall’idea di una scrittura nobile solo se cattiva, scarnificata, laconica. La scrittura si ripresentò con il lavoro di redazione in un quotidiano.
Se consideriamo come estremi l’istinto creativo e la razionalità consapevole, lei collocherebbe il suo modo di produrre scrittura a quale distanza dai due?
L’istinto creativo mi sta pure bene. Non è sempre vero a mio parere che sotto ispirazione si facciano cose egregie. Spesso la noia, la costanza del buon artigiano, ha la meglio sulla chiusa di un capitolo o sul taglio di un “pezzo”, rispetto a certi deliri di sorta. Spesso la scrittura è noia. Nello stesso tempo diventa anche compimento, esaltazione, soddisfazione totale, il tutto sul vuoto: questo succede strada facendo, di solito, con i polpastrelli provati a sangue.Ecco, l’ispirazione o l’istinto creativo è il tutto sul vuoto, l’imponderabile a metà del cammino. La parola che tuona, il ritmo, la virgola lì, un aggettivo imperscrutabile che arriva sicuro di sé e guai a toglierlo.
Moravia, cascasse il mondo, era solito scrivere tutte le mattine, come descriverebbe invece il suo stile? Ha un metodo rigido da rispettare o attende nel caos della vita un’ispirazione? Ce ne parli.
Mattina, mattina. Lucida e, compatibilmente, ottimista. Dal nulla, il prodigio, i narcisi sul pelo dell’acqua, le parole che qualcuno suggerisce, custodite nello scrigno di una memoria universale o nel luogo in cui ogni voce si è già incontrata prima.
Di che cosa non può fare a meno mentre si accinge alla scrittura? Ha qualche curiosità o aneddoto da raccontarci a riguardo?
Una volta della sigaretta. Oggi che ho smesso di fumare direi che posso scrivere e basta, persino quando sono felice (accade, certo che accade).
Wilde si inchinò di fronte alla tomba di Keats a Roma, Marinetti desiderava “sputare” sull’altare dell’arte, qual è il suo rapporto con i grandi scrittori del passato? È cambiata nel tempo tale relazione?
Amo gli scrittori russi, la nostra letteratura, anzi la Letteratura deve parecchio al realismo russo. La loro perenne attualità continua a sconcertarmi. Da loro ho appreso la forza del grottesco, il pathos del grottesco. Ogni narratore, a mio modesto avviso, ad un certo punto, in una certa fase, dovrà aspirare al medesimo sguardo lucido sopra le cose (Gogol, mi viene in mente lui), alla medesima apparente precisa distanza dal dramma che rende al riso un suono stridulo – il riso che ha suono di singhiozzo – mentre il lettore soffoca nell’amarezza e nella malinconia. In questo i russi erano maestri.
L’avvento delle nuove tecnologie ha mutato i vecchi schemi di confronto fra centro e periferia, nonostante ciò esistono ancora luoghi italiani dove la letteratura e gli scrittori si concentrano? Un tempo c’erano Firenze o Venezia, Roma o Torino, qual è la sua idea in merito?
Credo che la provincia abbia dato parecchio alla storia della letteratura, il neorealismo anche. I paesaggi periferici ed annoiati di Moravia, intendo paesaggi morali più che luoghi fisici, custodiscono una marginalità, una tristezza costipata, che riconosco (anche solo per un’associazione di pulsioni) in quell’interregno (all’occorrenza letterario) che è la provincia. Non è poco. Oggi lo può fare ancora.
Scrivere le ha migliorato o peggiorato il percorso di vita? In altre parole, crede che la letteratura le abbia fornito strumenti migliori per portare in atto i suoi desideri?
Forse mi ha aiutato, forse no. C’è un fattore ics, non è che sia una romantica, ma scrivere è un destino, c’è poco da fare. Indossare il dolore del mondo in qualche maniera è anche ruolo dello scrittore, il più egocentrico tra le creature.
La ringrazio e buona scrittura.
Veronica Tomassini, siciliana di origini umbre, esordisce ufficialmente con il romanzo “Sangue di cane” (Laurana Editore, pagg.232, 2010). In precedenza ha pubblicato le seguenti raccolte di racconti: “L’aquilone” (Emanuele Romeo Editore, 2002); “Outsider” (A&B Editrice, 2006); “La città racconta. Storie di ordinaria sopravvivenza” (Emanuele Romeo Editore, 2008).
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