Zerocalcare (Michele Rech, Arezzo, 1983) nasce artisticamente per le strade di Roma, nei centri sociali, mettendo il proprio talento di disegnatore a disposizione della musica e della vita politica e culturale della città. Appena ha fatto capolino sul web, il successo l’ha colto quasi immediatamente: il suo blog a fumetti è stato il primo in Italia a ottenere risultati a dir poco virali, considerando la reattività del pubblico italiano ai fenomeni nuovi.
Al momento Zerocalcare vanta tre pubblicazioni per Bao Publishing, l’ultima, “Dimentica il mio nome”, uscita il 16 ottobre scorso.
Il fenomeno Zerocalcare, grazie sicuramente al potere del web ma anche a quella che oramai sembra una vera e propria vocazione a darsi da fare, è una realtà importante del fumetto italiano.
Noi di Lo spazio Bianco gli abbiamo fatto qualche veloce domanda poco prima dello scorso Lucca Comics & Games.
Ciao Michele, sappiamo che sei molto impegnato e ti ringraziamo. L’intervista sarà breve e indolore. Iniziamo proprio dall’atmosfera del Lucca Comics and Games.
A Lucca, e durante molte altre fiere del fumetto, ti vediamo sempre sommerso dai fan, boccheggiante tra firme e dediche: sei ormai una vera star. Ti è mai successo di riuscire girare indisturbato a una fiera per più di dieci minuti?
Sono due anni ormai che le fiere le vedo negli ultimi dieci minuti prima che mi parte il treno, durante i quali faccio una corsa veloce per tutti gli stand prendendo titoli a caso che mi ispirano dalla copertina e sperando di aver imbroccato le scelte giuste.
Però in quegli ultimi dieci minuti di solito non mi si fila nessuno, quindi sono sufficientissimi.
Qual è la dedica più imbarazzante che ti hanno chiesto a una di queste fiere?
Imbarazzante per la complicazione, un’astronave a forma di plumcake che bombarda il Vaticano con bombe plumcake, con tutte le statue dei santi sulla basilica… Imbarazzante in senso universale, un ragazzo che voleva regalare il libro a due gemelle, e mi chiedeva di disegnarmi in mezzo a queste due (di cui mi mostrava le foto) esclamando contento una roba tipo “Du gust is megl’ che one”. Una roba da pappone che mi faceva venire i tic nervosi a disegnarla…
Ho provato in tutti i modi ad avvicinare i miei genitori al fumetto, ma solo grazie a La profezia dell’armadillo e Un polpo alla gola sono riuscita a convincerli. Adesso appena esce un tuo volume lo sanno prima di me. Nonostante i continui riferimenti alla cultura pop-nerd degli anni ‘80 e ’90, i cinquantenni ti apprezzano. Perché? Ma soprattutto, non ti vergogni?
Ahahaha! Non so se mi mette più ansia quello o quando vengono i lettori tredicenni. Cerco di tranquillizzarmi facendo una media aritmetica.
Sei dunque consapevole di piacere ad un pubblico che copre un range d’età piuttosto vasto (dai 13 ai 60), ma secondo te com’è possibile tutto questo?*
Io penso che aldilà degli stili di vita o dei riferimenti generazionali, le paure, le insicurezze, i difetti umani che provo a descrivere sono cose che in misura variabile abbiamo provato tutti, o almeno le abbiamo incontrate sul nostro cammino. Quindi per quanto probabilmente solo pochi nerd della mia generazione riescano a cogliere tutte le citazioni pop, credo che il succo delle storie sia tutto sommato accessibili a chiunque.
Lavori più di giorno o di notte, preso dall’ansia delle scadenze?
Quando sto sotto scadenza (cioè praticamente sempre) giorno e notte, sono convenzioni ed etichette che perdono qualsiasi significato…
Per il grande pubblico sei nato sul web, quindi il mezzo ti è più che familiare. Ma che rapporto hai con strumenti quali appunto la tavoletta grafica e i programmi associati? Nel senso, le tue storie nascono su taccuini, scontrini, pezzi di intonaco o le schizzi direttamente sulla tavoletta grafica? Hai una qualche forma di attaccamento alla carta o non ti pesa affatto lavorare direttamente con un mezzo più veloce?
Non è tanto una forma di attaccamento, è che con la tavoletta grafica ho le mani fucilate. Non riesco a fare una linea dritta, un tondo, niente. Io faccio tutto su carta, compresa l’inchiostrazione, in modo super tradizionale. La parte digitale riguarda solo le campiture nere, che faccio col secchiello di Photoshop per risparmiare inchiostro, e le ombre grigie, perché l’unica cosa che mi riesce peggio di usare una tavoletta grafica è di usare un pennello.
Le tue storie ed i tuoi personaggi hanno forti riferimenti autobiografici e il tuo io narrativo non sembra essere per nulla cambiato. Ma tu quanto ritieni di essere cresciuto in questi anni, a livello di contenuti e tecniche narrative?
Non quanto vorrei, perché i ritmi iperforsennati (che magari non vengono percepiti da un visitatore normale del blog, ma in realtà la parte del mio lavoro che poi finisce sul blog o su Facebook è una percentuale minima della roba che faccio) di fatto mi impediscono di sperimentare cose nuove, sia a livello di tecniche che di forma. Quindi i miei banchi di prova di fatto sono stati i libri, con quelli ho preso un po’ le misure di cosa sapevo raccontare, quali erano i miei limiti ecc. Dimentica il mio nome, per esempio, è un libro che non avrei saputo fare se prima non mi fossi misurato con La profezia, il Polpo e Dodici.
Di recente hai definito il tuo ultimo libro, “Dimentica il mio nome”, come un’opera alla cui realizzazione tenevi molto, perché c’era “del tuo” ma, finora nei tuoi lavori c’è sempre stata una grossa componente autobiografica (sulla quale si basa il gioco di immedesimazione), magari un po’ “romanzata”, ma tant’è… Viene da pensare che il tuo ultimo lavoro sia diverso dai precedenti, più per i contenuti, o per la forma?
In realtà la forma riprende quello che secondo me mi viene meglio: un accrocchio di capitoli brevi, come era per la Profezia, ma in maniera più omogenea, seguendo sempre un filo unico. Il fatto che lo senta mio però non significa che sia più autobiografico di altri, anzi: in realtà i veri protagonisti, quelli che “agiscono” nella storia, sono pezzi della mia famiglia, mia madre, mia nonna, anche in epoche in cui io non ero nato. Io ci metto le mie emozioni di riflesso a quegli eventi (che è l’altra cosa che mi pare di essere capace a fare un po’). Quando dico che lo sento mio è perché si tratta di emozioni molto personali in alcuni passaggi, e più in generale perché tutta la storia rappresenta comunque le mie radici.
Il tuo blog a fumetti, e il tuo lavoro in generale sono intrisi di romanità: sei uno dei pochi fumettisti che può permetterselo senza perdere pubblico. E anzi, viene da pensare che l’uso del dialetto sia un elemento importante del successo ottenuto. Secondo te, tutto questo c’entra con una certa “filo-romanità” diffusa o, al contrario, è stata la tua simpatia ad avvicinare anche un pubblico più scettico?
Credo la romanità sia assolutamente sdoganata ormai in tutta Italia, in TV si sente parlare romano dalla fiction ai presentatori, di sicuro non è più un ostacolo. Poi più che una questione di filoromanità parlerei di sincerità, nel senso che io cerco di scrivere quanto più possibile uguale a come parlo e a come sento parlare intorno a me, e credo sia una delle cose che funziona.
A proposito di Roma: sono stata a Rebibbia, cercavo qualche segnale della tua presenza, ma nulla. A Garbatella invece ho trovato parecchi poster tuoi, uno in particolare per un gruppo punk. Un poster non firmato, ma la tua cifra stilistica è inconfondibile. Quindi continui a mandare avanti il lavoro d’una volta, sei un ragazzo amante delle tradizioni?
Perché Garbatella ormai è un quartiere di movida, ci stanno un sacco di centri sociali, concerti, la gente ci va a mangiare e a bere da tutta Roma, è uno snodo metropolitano. Quindi lì ci attacchinano i manifesti di tutta Roma. A Rebibbia al massimo attacchiniamo le attività di quartiere… E comunque continuo a fare quella roba perché è la vita mia, il giorno che smetto mi sarò trasformato in un robot da fiera, abbattetemi.
Infine una domanda seria: quanto credi che contino i rapporti umani in questo mestiere?
Oddio è una domanda complicata. Rapporti umani tra chi e chi? Con i colleghi? Con gli editori? Con i lettori? Io con la gente che si legge le mie cose cerco di avere un rapporto sincero e trasparente. Ai colleghi cerco di non rompere le scatole. Con gli editori cerco di essere puntuale nelle consegne. Mi piacerebbe che in questo mestiere contasse questo. Poi quando intervengono dei legami di affetto, di simpatia, di stima reciproca, come è il caso con alcuni editori (il mio di sicuro, ma non solo), colleghi o lettori che poi sono diventati amici, ovviamente è meglio, e rendono tutto più divertente. Ma sono cose in più, che nascono spontanee. Mi fa orrore pensare che per lavorare bisogna andare alle feste o alle cene a bere e a fare i simpatici…
Intervista rilasciata via mail a ottobre 2014.