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Intervista ad Alessandro Zaccuri

Creato il 19 gennaio 2011 da Sulromanzo

Alessandro ZaccuriBuongiorno, vorrei iniziare chiedendole a quale età si è avvicinato alla scrittura e se è stato o meno un caso fortuito.

 

«Ho provato a scrivere il primo romanzo all’età di otto o nove anni. Era un western, con lo straniero che arriva in città mentre lo sceriffo lo scruta dalla porta del saloon. Più in là non sono andato, però ho capito che iniziare una storia non difficile: il vero problema sta nel trovare un finale. Già alle medie ho avuto l’occasione di pubblicare qualche articolo, alle superiori ho collaborato in modo assiduo a un paio di periodici studenteschi. Nel frattempo, ero passato alla poesia. Dall’università in poi mi sono messo a fare sul serio, tanto che la scrittura si è trasformata nel mio lavoro. Ma quando sono diventato giornalista, pur occupandomi di letteratura, mi sono allontanato dalla dimensione creativa. Per anni ho continuato a prendere appunti, ad accumulare abbozzi, ma mi ero convinto di essermi ormai spostato nel campo della critica. Poi, all’altezza dei quarant’anni, ho deciso di farmi un regalo. Avrei dovuto scrivere un reportage sulla città in cui vivo, Milano, e ho provato a virarlo in chiave narrativa. A quel punto mi sono reso conto che sì, potevo ritentare con il romanzo, anche senza cowboy».

 

Se consideriamo come estremi l’istinto creativo e la razionalità consapevole, lei collocherebbe il suo modo di produrre scrittura a quale distanza dai due?

 

«L’istinto consapevole, direi. Non è una battuta: è un obiettivo. Sono convinto che a fare la differenza tra uno scrittore e l’altro sia il dialogo con il proprio critico interno, corrispettivo letterario del “maestro interiore” raccomandato da sant’Agostino. In ogni attività creativa intervengono fattori inesplicabili, come l’incipit di un racconto o il tema che ci si trova ad affrontare. Nello stesso tempo, tuttavia, occorre saper prendere le distanze, leggersi dall’esterno, assumere una postura che riguarda sia l’etica del racconto (non barare con il lettore, mai) sia l’etica in senso proprio. Oggi più che mai concludere una storia è difficile perché significa prendere posizione, non rassegnarsi alla retorica delle storie, ribellarsi all’idea che un finale valga l’altro. Per essere credibile, invece, una favola ha sempre bisogno di una morale.»

 

Moravia, cascasse il mondo, era solito scrivere tutte le mattine, come descriverebbe invece il suo stile? Ha un metodo rigido da rispettare o attende nel caos della vita un’ispirazione? Ce ne parli.

 

«Non vivo dei libri che scrivo e quindi, quando scrivo un libro, devo darmi una disciplina. Lavoro al mattino per un’ora o due, prima di iniziare la giornata. La pratica del giornalismo mi ha insegnato a concentrarmi nella breve durata e così può capitare che queste sessioni di scrittura si rivelino abbastanza proficue. In giornata, nei ritagli di tempo, continuo a leggere sull’argomento di cui mi sto occupando (nei miei romanzi, oltre che nei saggi, c’è parecchia ricerca), controllo un’informazione, magari prendo qualche appunto. La sera, se posso, correggo. In ogni caso, non riprendo mai a scrivere se prima non ho riletto le pagine del giorno prima. Mi accorgo che il libro inizia a prendere forma quando, prima di addormentarmi, riesco a raccontarmi il prossimo capitolo. Qualche volta un’idea può venire anche da un sogno, ma sono casi eccezionali. Doni, non risultati.»

 

Di che cosa non può fare a meno mentre si accinge alla scrittura? Ha qualche curiosità o aneddoto da raccontarci a riguardo?

 

«Mi basta che ci sia silenzio. Non ascolto musica, evito di controllare la posta elettronica e cerco di essere a buon punto per quando inizierà a suonare il telefono. Con il passare del tempo sto diventando lievemente meteoropatico e mi accorgo di scrivere molto quando c’è il sole alla finestra o, meglio ancora, quando posso trasferirmi con il portatile sul balcone di casa. In quanto padre di una famiglia discretamente numerosa (i figli sono tre), ho rinunciato da tempo al miraggio di una stanza tutta per me. Mi accampo dove riesco e, di norma, non mi pesa neanche troppo. Anche questo, credo, lo devo al mestieraccio di giornalista.»

 

Wilde si inchinò di fronte alla tomba di Keats a Roma, Marinetti desiderava “sputare” sull’altare dell’arte, qual è il suo rapporto con i grandi scrittori del passato? È cambiata nel tempo tale relazione?

 

«Se avessi continuato a fare il mestiere per cui ho studiato all’università, oggi sarei un filologo della letteratura latina medievale. Segno che per me la tradizione è sempre stata importante, purché fosse un po’ impura, contaminata con qualcosa che, di solito, non consideriamo classico. La scelta del volgare al posto del latino, per esempio, è l’elemento che più mi appassiona nella Commedia di Dante. Dal punto di vista strettamente narrativo, considero inarrivabile il modello di Moby Dick, che però è un romanzo imperfetto, i cui difetti possono ancora oggi apparire evidenti quanto i pregi. Quasi a contrappeso, ammiro in modo incondizionato l’ingannevole semplicità della prosa di Borges. “Emma Zunz” è il suo racconto che amo di più: non una parola fuori posto, non una consecutiva di troppo. Per fortuna, continuo a fare scoperte e riscoperte con una certa regolarità. Negli ultimi anni mi sono entusiasmato per Friedrich Glauser e ho avuto ripetute conferme del fatto che da autori come Stefan Zweig o Rudyard Kipling non si finisce mai di imparare. Tra gli scrittori contemporanei, ho una simpatia naturale per quanti praticano un combattivo rispetto verso il passato.»

 

L’avvento delle nuove tecnologie ha mutato i vecchi schemi di confronto fra centro e periferia, nonostante ciò esistono ancora luoghi italiani dove la letteratura e gli scrittori si concentrano? Un tempo c’erano Firenze o Venezia, Roma o Torino, qual è la sua idea in merito?

 

«Anche a causa della mia professione di giornalista, sono in contatto con molti autori, pur non frequentando nessun gruppo in particolare. Collaboro a diverse riviste (“Nuovi Argomenti” e “SatisFiction”, tra le altre), però è dalla chiusura di “Letture”, un paio di anni fa, che non partecipo più a una riunione di redazione. Ci si regola con uno scambio di e-mail, con qualche telefonata. È indubbio che la rete abbia ampliato la possibilità di connessione e, insieme, abbia smaterializzato i rapporti. Con qualche altro milanese capita di vedersi, per fortuna, ma il più delle volte ci si annusa attraverso un commento su Facebook o un’altra apparizione sul web. Poi ci sono i festival, le presentazioni, il Salone di Torino. Oggi come oggi mi pare che sia più facile incontrarsi in circostanze del genere anziché alle Giubbe Rosse.»

 

Scrivere le ha migliorato o peggiorato il percorso di vita? In altre parole, crede che la letteratura le abbia fornito strumenti migliori per portare in atto i suoi desideri?

 

«Prima bisognerebbe stabilire se realizzare i desideri migliori o peggiori la vita, no? Scherzi a parte, scrivere per me è un’occasione di consapevolezza. Non sto dicendo che scrivere dia un senso alla vita: il senso, semmai, lo si trova altrove, la scrittura aiuta a riconoscerlo, a portarlo in superficie. C’è un testo, molto bello, che Auden scrisse per commentare il documentario su un corridore: lì il poeta non ha la pretesa di creare la bellezza, si limita a celebrarla dove la trova, semplicemente. La letteratura dovrebbe avere sempre questa onestà, questa delicatezza nei confronti del reale.»

 

La ringrazio e buona scrittura.

 

 

Alessandro Zaccuri è nato a La Spezia nel 1963. Vive a Milano, dove lavora come giornalista per il quotidiano “Avvenire” e per Tv2000. Ha pubblicato saggi (Citazioni pericolose, Fazi, 2000; Il futuro a vapore, Medusa, 2004; In terra sconsacrata, Bompiani, 2008), un reportage narrativo (Milano, la città di nessuno, L’Ancora del Mediterraneo, 2003) e due romanzi (Il signor figlio, 2007, e Infinita notte, editi entrambi da Mondadori). È inoltre autore di una raccolta di racconti (Che cos’è una casa, Cittadella, 2009) e dell’ebook Il Deposito (www.40kbooks.com). Nonostante i buoni propositi, in rete lo si trova più che altro nei social network.


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