Oggi vi parleremo di Alex Torinesi, un autore che abbiamo avuto il piacere di intervistare e che presto vi presenteremo ulteriormente attraverso una recensione alla sua ultima “fatica” letteraria.
Intervista ad Alex Torinesi, autore de “Dieci anni dopo”
Benvenuto nel nostro Blog, Alex. Siamo molto contenti di ospitarti. Chi ti ha condotto a noi?
Vorrei dire il caso. Da buon internauta appassionato di scrittura navigo spesso nel mondo dell’editoria e soprattutto degli amanti dell’arte della scrittura. Così mi sono imbattuto nel vostro blog trovandolo da subito ben impostato e ricco di informazioni, soprattutto per quanto riguarda la galassia degli esordienti o dei non visibili. E allora, da non visibile, mi sono intrufolato in punta di piedi.
Vorresti presentarti brevemente ai nostri lettori?
Cosa fai nella vita? Come occupi il tempo libero? Coltivi qualche passione particolare?
Sono un piccolo, minuscolo imprenditore che opera nel settore dell’innovazione tecnologica in ambito biomedicale. È un lavoro che mi impegna molto ma fortunatamente non mi toglie l’energia e il tempo per dedicarmi alle altre tre grandi passioni della mia vita: la montagna, la fotografia e la scrittura.
Sei qui per presentarci “Dieci anni dopo”, ma noi vorremmo prima fare un salto nel passato, per capire se hai già scritto qualcosa e cosa ti ha spinto verso il mondo della scrittura. Cosa ci puoi dire a riguardo?
Scrivo da sempre, fin da bambino quando riempivo quaderni interi di ogni cosa mi passasse per la testa o quando scrivevo lettere a consolati e ambasciate di tutto il mondo per farmi mandare depliant o materiale illustrativo che mi facesse conoscere gli angoli più sperduti della Terra. Ora sorrido al pensiero di quei ricordi persi nel tempo ma evidentemente avevo già da allora una certa inclinazione per la scrittura. Più tardi, ormai grandicello, ho scritto diverse poesie che non ho mai pubblicato, articoli per riviste di settore fino ad arrivare a qualcosa di più impegnativo. Ho esordito nel 2009 con un saggio dal titolo “Ufo e alieni il crepuscolo della scienza” perché all’epoca mi interessavo attivamente anche di ufologia, argomento che poi ho abbandonato dedicandomi a qualcosa che trovo più affine alle mie attitudini e ai miei attuali interessi. Così nel 2010 è uscito il mio primo romanzo dal titolo “Nell’angolo del mio inverno”, un libro scritto “di pancia”, ambientato in un manicomio collocato in un non-luogo in un non-tempo. Lo potrei definire qualcosa a metà tra il noir e lo psicologico. Successivamente mi sono cimentato in una fiaba per bambini, genere agli antipodi rispetto al precedente, intitolata “La storia del bosco incantato”, libro nato quasi per scherzo ma la cui stesura mi ha divertito molto. E infine “Dieci anni dopo”, un romanzo solo apparentemente d’amore mentre in realtà vuole essere lo spunto per qualcosa di più profondo.
“Dieci anni dopo” narra le vicende di Davide e Paola e affronta un amore un po’ diverso dal solito, per nulla scontato e noioso, che affronta le difficili prove del tempo, che si perde e si ritrova. Chi sono Davide e Paola? E come descriveresti il sentimento che li lega?
Paola e Davide sono l’una lo specchio dell’altro. Ho cercato di affrontare un argomento particolare in modo tale che la mia interpretazione fosse il più possibile sfumata e leggera. Sono infatti convinto che un libro sia un po’ come un quadro, un brano musicale, un’opera architettonica: il suo valore non sta in ciò che vuole comunicare chi lo crea con la sua esperienza soggettiva, piuttosto nella capacità di generare emozioni in chi legge, guarda o ascolta. Se poi tali emozioni sono in linea con ciò che l’autore ha provato a comunicare con il proprio lavoro significa allora che egli stesso ha compreso come superare certe barriere ed entrare in simbiosi con chi ne “usufruisce”, parlando una lingua universale che va oltre la ragione e la materialità; in caso contrario è nella complessità e spontaneità delle emozioni provate da chi legge che risiede la bellezza artistica dell’opera. Aggiungo una considerazione su quello che dovrebbe essere il fil rouge del libro, ciò che qualcuno definisce con l’espressione “il senso del libro” che altro non è che la molla che mi ha spinto a costruire il racconto. Il significato che sta alla base e di cui ho voluto trattare è il concetto di dualità. Come dice nella conferenza iniziale il prof. Minetti è solo con il DUE che conosci l’UNO. Il libro vuole essere un cammino dentro se stessi per cercare e comprendere il proprio sé e non ciò che sta al fuori perché al di fuori non c’è nulla (semplicemente perché essendo tutto Uno non c’è un “di fuori”). Il significato dunque è il distacco perché solo con il distacco, solo con un secondo punto di osservazione puoi vedere te stesso. È il senso dell’esperire, del fare esperienza e quindi dell’apprendere chi siamo. Questo percorso di conoscenza usa la creazione dello specchio per potersi vedere e quindi conoscere, iniziando, apprendendo e finendo. Paola e Davide quindi sono il reciproco specchio entro il quale guardarsi vicendevolmente. È per questo che metaforicamente la loro storia ha un inizio e ha una fine (nascita e morte). Ed è per questo che il loro legame è così profondo. Paola impara, grazie a Davide, a conoscere un lato di sé che ha sempre saputo (inconsciamente) di avere ma di cui non aveva consapevolezza; e lo fa guardando Davide, il suo specchio. Così scopre la bellezza delle proprie emozioni, la gioia di vivere al di là di autocostrizioni che in fondo non le appartengono per natura e che l’hanno imbrigliata per troppo tempo. Davide invece apprende una parte di sé, l’unico tassello mancante della sua esistenza, guardando il proprio specchio, ovvero Paola, colei che in quel momento diventa ciò che gli restituisce la sua immagine che altro non è che una parte del suo IO: il passato mancante. Se è vero come è vero che noi siamo anche le nostre esperienze a Davide e Paola mancava un pezzo fondamentale del proprio percorso di vita per completare il proprio percorso esistenziale. È per questa ragione che il finale ha una svolta apparentemente sorprendente. Alla fine chiunque cerca sempre se stesso negli altri, il proprio specchio. Paola e Davide sono reciprocamente lo specchio di cui hanno bisogno perché dopotutto sono uguali, sono uno l’immagine dell’altra. Entrambi quindi sono la rappresentazione della ricerca del sé nell’altro, una ricerca che non rimarrà incompiuta ma che nel finale donerà ad entrambi la consapevolezza di ciò che sono. Inizio e fine, nascita e morte. Ecco il fare esperienza, ecco il conoscere.
In una relazione seria tra due persone quanto è importante la componente “cuore”? E quanto quella della ragione?
Ragione e cuore sono elementi di uno scontro atavico nel quale talvolta predomina l’uno, talvolta predomina l’altro. Il buon senso ci dovrebbe spingere a trovare l’equilibrio tra queste due parti di noi perché è soltanto nell’equilibrio che si trova serenità e completezza. Di solito dove vince un elemento sull’altro c’è sempre, di fatto, una sconfitta. L’uomo, inteso come essere umano, non è la somma di ingredienti a se stanti, è qualcosa di molto più complesso come recita l’antico adagio secondo cui “il tutto è più della somma delle sue parti”. Io non ho ricette o verità da rivelare, credo solo che una relazione che funzioni sia il frutto di un’alchimia imprevedibile e in un certo senso magica, dove cuore e cervello possono permettere il raggiungimento di questo incanto solo se “lavorano” (mi si passi il termine) in sinergia, con l’obiettivo di raggiungere una pienezza che non escluda nulla ma punti al pieno raggiungimento del sé. Amare è un atto egoistico, noi amiamo per noi stessi, per il nostro star bene, per la nostra realizzazione, per la nostra stessa vita. Inutile fingere che amare sia un donare fine a se stesso. Amare è un donare per ricevere, quindi un atto puramente egoico ma non per questo meno nobile o importante. Solo l’amore di un genitore verso il proprio figlio sfugge a questa regola (e non è sempre vero il contrario).
Leggendo “Dieci anni dopo” si ha l’impressione che tu sia attratto dalla filosofia e che voglia trasmettere questa tua “passione” anche al lettore. È così?
In un certo senso è così, per lo meno per quanto riguarda alcuni argomenti. Spero di averlo fatto in maniera delicata e poco “invasiva”, sia per non urtare convinzioni altrui che possono divergere dalle mie, sia perché ho affrontato un tema su cui si sono scritti fiumi di inchiostro. Diciamo che ho provato (e chissà se ci sarò riuscito) a proporre una diversa chiave di lettura di certi temi.
Perché hai deciso di ambientare le vicende a Milano? Cosa rappresenta per te questa città? E cosa significa, invece, per i tuoi personaggi?
Milano è la città in cui sono nato e a cui è legata la mia storia e la mia famiglia benché personalmente io non ci abbia mai vissuto ma solo lavorato per un breve periodo. Milano è una galassia, un mondo da scoprire, una città adorabile eppure invivibile, una contraddizione unica ma piena di un fascino e di un’attrazione cui è difficile sottrarsi. Milano in fondo è una parte di me ed era lo scenario ideale per ambientare la vicenda che poi ho narrato in “Dieci anni dopo”. Forse è anche un modo per far conoscere questa città a chi non l’ha ancora potuta conoscere. Nell’economia della storia poi Milano è fondamentale, soprattutto per Davide, perché a quella città è strettamente legato il fluire della propria vita.
Quanto hai impiegato per redigere questo romanzo? Hai incontrato qualche difficoltà durante la stesura?
La stesura vera e propria mi ha impegnato per cinque mesi circa. In realtà la sua genesi è stata molto più lunga, almeno un anno e mezzo. Come ho già avuto occasione di dire questo è un libro che potrebbe aver scritto un architetto con squadra e goniometro, tutto si incastra alla perfezione, soprattutto considerando che la vicenda si snoda in un arco temporale di vent’anni dove è facile cadere in errori bizzarri. La difficoltà maggiore che ho incontrato è stata quella di rendere consistente (e credibile) l’intreccio della trama senza cadere in banalità o contraddizioni.
Ritieni che siano i personaggi ad accompagnarti nelle loro vicende o che sia tu a decidere le loro azioni?
Difficile dirlo con esattezza. In genere parto con un obiettivo e quasi sempre arrivo da tutt’altra parte. In questo i personaggi hanno una responsabilità determinante perché è lo sviluppo della storia stessa e delle loro personalità a stabilire eventi o sfumature che poi influenzano gli accadimenti. In genere “domino” abbastanza bene i miei personaggi, anche perché in ognuno di loro c’è sempre una parte di me, però riconosco che talvolta sia dura resistere alla tentazione di far governare a loro gli eventi della trama.
Qual è il momento della giornata che preferisci dedicare alla scrittura?
La mattina. Mi alzo molto presto e approfitto del silenzio per scrivere. Mi aiutano molto la solitudine e il silenzio, riesco più facilmente a concentrami e a calarmi quasi ipnoticamente nel contesto di quanto scrivo. Il rovescio della medaglia è che poi non ho più possibilità di imputare alla distrazione o alla mancanza di condizioni al contorno gli errori che commetto.
Quando hai scoperto la tua passione per la scrittura?
Come dicevo molto presto. L’ho sempre coltivata, fosse solo per scrivere lettere quando ancora non esisteva internet e la posta elettronica, o per abbozzare pensieri e riflessioni su qualunque cosa avessi sotto mano. Certo non avrei mai pensato di poter scrivere e pubblicare dei libri.
Ti piace leggere? Credi che per essere un buon scrittore sia prima di tutto necessario essere un buon lettore?
Adoro leggere, mi nutro di libri e delle emozioni che mi da’ la lettura. E per rispondere alla domanda dico che forse non sarà una condizione sufficiente ma sicuramente è necessaria: per poter scrivere bisogna prima voler leggere e continuare a farlo. Per me, poi, leggere un romanzo o un racconto diventa anche una vera e propria opportunità di studio. Assorbo come una spugna ciò che mi colpisce e che mi cattura e cerco, per quanto mi sia possibile, di carpire segreti o insegnamenti da chi scrive con maggior maestria e talento di me. Per la serie… non si finisce mai di imparare anche perché sono assolutamente consapevole che devo migliorare molto, soprattutto nella ricerca definitiva del mio stile.
Quali i tuoi progetti futuri? Puoi anticiparci qualcosa?
Sto scrivendo un nuovo libro, un thriller stavolta, un genere per me nuovo e che mi sta coinvolgendo molto. Sarà qualcosa di originale e diverso dal classico thriller a cui si è portati a pensare. Tra le altre cose sono in una fase in cui il mio stile si sta evolvendo con rapidità e se non fosse all’apparenza presuntuoso direi che sto crescendo molto. Spero di ultimarne la stesura entro l’estate e poi poterlo dare alle stampe. Ho progetti ambiziosi su questo lavoro ma ancora non dico nulla per scaramanzia.
Hai un sito dove possiamo seguirti?
Ho un piccolo blog in cui parlo delle cose che amo e che spaziano su diversi fronti. È raggiungibile a questo URL: http://www.alextorinesi.blogspot.it/
Grazie, Alex, per aver partecipato alla nostra intervista.
Grazie a voi per l’ospitalità e complimenti per l’ottimo lavoro che fate e per la serietà con cui lo portate avanti.