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Intervista ad Andrea Coccia

Creato il 21 dicembre 2010 da Sulromanzo

Andrea CocciaÈ stato pubblicato di recente il numero 12 di Aleph, su che cosa vi siete concentrati?

 

Da un paio di numeri a questa parte cerchiamo di lavorare con un tema in filigrana, una sorta di filo conduttore intorno a cui gravitano i materiali che compongono il numero. Per questo numero 12 abbiamo scelto l'Alterità, una categoria che racchiude infinite problematiche e che offre altrettanti spunti. In particolar modo abbiamo cercato di proporre sguardi letterari diversi dal nostro, a partire dallo speciale su Migjeni, scrittore albanese inedito e sconosciuto qui in Italia, di cui abbiamo pubblicato il racconto “Storia di una di quelle” e la poesia “I canti non cantati”, corredati di uno scritto introduttivo a cura di Astrit Cani, fino all'intervista tripla a Pap Khouma, Ornela Vorpsi e Helena Janeczek e ai racconti di Idolo Hoxhvogli.

 

Lo avete dedicato a José Saramago…

 

Dedicare uno speciale alla memoria di José Saramago è stata una decisione presa quasi senza discutere all'interno della redazione. Stavamo iniziando a selezionare il materiale e a mettere insieme gli interventi di questo numero quando abbiamo saputo della sua morte e, per un affetto che  lega tutti noi allo scrittore portoghese, abbiamo deciso che dedicargli uno spazio sulla nostra rivista era senz'altro il miglior modo per ricordarlo. Abbiamo quindi chiesto al nostro vecchio professore di Letteratura Portoghese, Piero Ceccucci, che conosceva personalmente Saramago da anni, di scrivere un breve articolo e lo stesso abbiamo fatto con Orietta Abbati, anche lei professoressa di letteratura portoghese e amica di Saramago. Ai loro due saggi abbiamo poi affiancato un articolo di Michele Bertinotti ed è venuto fuori questo speciale.

 

L’editoriale parla di uno scenario italiano desolante, prova a spiegare ai lettori di Sul Romanzo le ragioni di tale visione?

 

Sono ormai anni che lo scenario politico e sociale italiano assomiglia più ad una landa desolata che a un paese dove valga la pena vivere, da oggi ancora di più.

Soprattutto per i giovani questo paese è diventato una trappola e se è vero che molti scelgono di andarsene trovando all'estero quello che qui non possono avere, è altrettanto vero che moltissimi altri restano, ed è per questi che la vita è sempre più difficile. Rimbalzati continuamente da uno stage ad un altro, da un lavoro pagato una miseria ad un altro pagato in nero, chi ha avuto la sfortuna di affacciarsi nel mercato del lavoro negli ultimi cinque o sei anni vive in condizioni pazzesche, mettendo insieme 3 o 4 lavori, svendendo le proprie competenze e capacità – spesso di alto livello - spesso per pochi euro al giorno o addirittura per niente.

Definire una situazione del genere “desolante” è usare un eufemismo e la cosa più drammatica e che le classi dirigenti non si preoccupano di questo sfacelo, non si rendono conto che stanno portando il paese in una palude molto pericolosa, i cui ingredienti si chiamano emarginazione, esasperazione, frustrazione e il cui risultato finale sarà molto doloroso per tutti.

Io personalmente sono molto pessimista, è da dieci anni che parliamo di svolte da fare per evitare il peggio, e ancora nessuno ha toccato il volante: o iniziamo a volare, o il muro di cemento armato che ci aspetta sarà difficile da superare.

Quello che è successo a Roma il 14 dicembre è un segnale importante che però, temo, il nostro paese non sarà in grado di capire. Tutti hanno stigmatizzato la violenza come un riflesso incondizionato e aproblematico, condannando la cosa senza approfondire, perdendo l'occasione di ragionare sulle motivazioni che hanno spinto migliaia di persone a reagire in quel modo. Non voglio in alcun modo difendere l'uso della violenza e non posso accettare che sia l'unico mezzo rimasto a nostra disposizione per farci ascoltare, però c'è da rendersi conto delle esatte dimensioni (spropositate) che ha ormai assunto la rabbia e la frustrazione della nostra generazione, rabbia e frustrazione che la politica e la società hanno il dovere di interpretare, cercando di dare qualche risposta invece di prenderci a manganellate.

 

 

Ho letto con interesse l’intervista tripla a Pap Khouma, Ornela Vorpsi e Helena Janeczek, perché avete scelto proprio loro?

 

Abbiamo scelto questi tre scrittori – un senegalese, una albanese e una tedesca di origine polacca – perché ci interessava ragionare sull'essere stranieri in un paese straniero, in particolare indagando le dinamiche che stanno dietro ad una scelta che i tre hanno in comune, quella di scrivere in una lingua che non è la loro, l'italiano. Seppur inizialmente temessimo un pochino la formula dell'intervista “tripla”, temendo l'appiattimento della conversazione causato dalle identiche domande, alla fine, visto il risultato, siamo molto contenti della nostra scelta.

 

L’attualità può essere influenzata dalla letteratura, nel vostro caso da una rivista letteraria o sono soltanto illusioni da tenersi strette?

 

Non credo che la letteratura possa cambiare direttamente il mondo, ma è innegabile che possa cambiare noi, e che quindi, in un certo modo, possa avere influenza sulla vita collettiva. Se per esempio assistessimo a una diffusione massiccia della curiosità, della passione e del coraggio (tre qualità che credo siano alla base della vera lettura), a quel punto il mondo cambierebbe certamente. Il punto però è sempre lo stesso, fino a quando non saremo disposti a impegnarci singolarmente, a cambiare prima di tutto il nostro stile di vita, fino a quando continueremo a credere di poter cambiare il mondo da fuori continueremo a brancolare nel buio.

 

Se si torna con la mente all’inizio del secolo scorso, non si può non pensare a Leonardo, Hermes e altre che spronarono le menti del tempo, vede qualche similitudine fra le riviste di allora e quelle contemporanee?

 

Beh, il confronto con riviste come Hermes e Leonardo con l'Aleph mi sembra un po' azzardato. Quelle che hai citato sono infatti due realtà istituzionali della cultura italiana dell'inizio Novecento, non possiamo certo paragonarci a Papini, Prezzolini e Borgese. Poi non si può certo dimenticare che l'Aleph è figlio di un momento storico e culturale assolutamente diverso, imparagonabile e probabilmente molto più problematico, soprattutto per una rivista. Cent'anni fa l'intellettuale aveva un ruolo nella società, poteva avere un potere, una legittimità, poteva sperare di essere ascoltato. Ora non è più così. In questi ultimi anni la parola “intellettuale” è diventata praticamente un insulto, grazie anche ad un certo sdoganamento dell'ignoranza, uno degli atti più rivoluzionari, profondi e terrificanti del regime berlusconiano: un altro degli aspetti desolanti di questa nostra realtà.

 

Come orientarsi nella qualità? Contano soltanto i nomi importanti o bisogna andare oltre?

 

La qualità non è importante è fondamentale ed è ovvio che per cercarla bisogna andare oltre i grandi nomi. Ma non bisogna scambiare questa necessità fisiologica della scoperta con la sete da parte delle grandi concentrazioni editoriali e dell'editoria in generale per i cosiddetti esordienti. Ormai ogni anno assistiamo al lancio di una decina di esordienti spacciati come grandissimi autori che però, come cavalli pompati ad ormoni, alla lunga spariscono. E la cosa più divertente è che ormai alla lunga vuol dire dopo una stagione. È grottesco vedere cosa è diventato il mondo editoriale (non che prima fosse molto diverso, ma oggi è veramente risibile), a capo delle più importanti case editrici c'è una casta di amministratori che sarebbero ugualmente bravi a vendere scarpe e borsette di coccodrillo, l'attenzione alla qualità non è più una priorità. Basta vedere quanti libri vengono pubblicati all'anno, cifre esorbitanti per un paese in cui sembra che tutti vogliano scrivere ma in cui praticamente nessuno legge.

 

Che cosa potrebbe fare lo Stato per le riviste letterarie?

 

L'unica cosa che dovrebbe fare lo Stato per aiutare le riviste letterarie è combattere l'analfabetismo, l'ignoranza, invertire la rotta, insomma, investire sulla cultura, sulla ricerca, sul futuro di questo paese. Solo così può aiutarci, smettendola di toglierci la terra sotto i piedi.

 

L'Aleph
E che cosa potrebbero fare le riviste letterarie per lo Stato?

 

Per lo Stato nulla, per la società dei lettori tanto. Le riviste letterarie sono come palestre, sia per gli scrittori che per i critici che per i lettori, quelli veri, s'intende. Allo stato attuale gli scrittori scrivono per abitudine, spesso cose illeggibili e delle quali normalmente non frega a nessuno, i critici si danno all'onanismo intellettuale, vivendo di segnalazioni prezzolate, di supercazzole, mentre i lettori sono diventati anch'essi consumatori, da una parte fagocitano qualsiasi libro che venga presentato in televisione, da quel ceto nuovo di critici alla Fazio, Bignardi e company, dall'altra si nutrono di una letteratura talmente dozzinale – quello pseudo fantastico che ha sepolto Tolkien e Stoker sotto un cumulo di spazzatura, che non posso chiamare inutile e annichilente perché probabilmente mi darebbero dell'elitario, ma che continuerò a detestare con tutte le mie forze.

 

Qual è il futuro di Aleph? 

 

La speranza è quella di poter continuare a pubblicare, ma questa è una decisione che dipende molto dai nostri lettori. Se riusciremo a raggiungerne abbastanza per avere i soldi per fare un altro numero andremo avanti, se ciò non dovesse accadere vorrà dire che non avremo abbastanza lettori, e se non interessa a nessuno, beh, allora è meglio smettere non trovi?


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