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Intervista ad Otello Lupacchini sull’arresto di Enrico Nicoletti.

Creato il 09 luglio 2011 da Yourpluscommunication


Intervista ad Otello Lupacchini sull’arresto di Enrico Nicoletti.Secondo lei, l’arresto di Enrico Nicoletti dopo l’omicidio di Simmi, è un caso?

La circostanza, per chi non è addetto ai lavori, può sembrare bizzarra o, comunque, prestarsi ad interpretazioni suggestive del tipo “l’hanno arrestato subito dopo, dunque…”. In realtà, i tempi decorsi fra la richiesta, l’applicazione e l’esecuzione della misura cautelare, sono incompatibili con il breve tempo decorso tra l’omicidio Simmi e l’esecuzione della misura a carico del Nicoletti. Si può, dunque, concludere che s’è trattato soltanto di un semplice caso. Bizzarro, magari, suggestivo, ma pur sempre nient’altro che un caso.

Chi meglio di lei potrebbe dire chi è esattamente Nicoletti.

È, per dirla con Mino Pecorelli, “un ex carabiniere, che poi cambiò casacca”. Già dagli anni Sessanta, aveva esordito come usuraio, indirizzando i suoi interessi verso imprese in difficoltà economica, così da rilevare, con modestissimi esborsi iniziali, lucrose attività commerciali ed immobili. La capacità economica così acquisita, i collegamenti con esponenti di primo piano del crimine organizzato, in particolare quelli impegnati nell’usura ai massimi livelli, e la sua indubbia notevolissima capacità operativa gli consentirono d’inserirsi nel giro dei grandi investimenti. Già dai primi anni Sessanta, erogò prestiti a Flavio Carboni, per finanziarne gli investimenti immobiliari.

In tale epoca, operava in collegamento con Domenico Balducci, Spurio Oberdam e Piero Cuccarini, non solo massimi esponenti dell’usura a Roma ma, referenti di Cosa Nostra e di Pippo Calò. La sua figura non può che essere compresa a pieno, se non la si metta in relazione a quella di Enrico De Pedis.

Costui, quantunque l’ultimo processo a suo carico, per essere stato a capo dell’associazione mafiosa – e sottolineo mafiosa! – denominata convenzionalmente “banda della Magliana”, e per altri fatti specifici, si sia concluso con un proscioglimento “per morte del reo” (incidenter tantum, a beneficio dei purtroppo tanti, oserei dire troppi, “giuristi dei giorni di festa” adusi adontarsi a gettone, significa che l’accusa non trovava smentita in atti, altrimenti si sarebbe imposta anche per il “morto” l’assoluzione “perché il fatto non sussiste” o “perché l’imputato non lo ha commesso”!), per ogni storico degno di questo nome fu il capo dell’ala cosiddetta “testaccina” di quel sodalizio criminoso.

Ebbene, già dalla metà degli anni Ottanta, fra i “testaccini”, la leadership di Enrico De Pedis, sebbene indiscussa era esposta tuttavia a critiche. I rapporti tra costui e i più fedeli tra i sodali si erano alquanto deteriorati, nel corso della sua detenzione. Una volta uscito dal carcere, Enrico De Pedis s’era convinto, per altro, d’aver fatto un salto di qualità rispetto a quelli e, quindi, aveva allentato i rapporti con loro. Ne aveva stretti, per contro, con Sergio De Tommasi e con Enrico Nicoletti, i quali svolgevano ormai attività di riciclaggio ad alto livello e, comunque, apparentemente legali.

Se, tuttavia, poté contare, sino alla fine, sulla fedeltà del De Tomasi, altrettanto non si può dire del Nicoletti, i cui rapporti con il De Pedis ben presto si deteriorarono. “omnium rerum vicissitudo est”, avrebbe detto Terenzio e “nisciuno è tanto grosso asino, che qualche volta, venendogli a proposito, non si serva dell’occasione”, avrebbe a sua volta chiosato Giordano Bruno, se il 2 febbraio 1990 avessero appreso che Enrico De Pedis era stato ucciso da un colpo d’arma da fuoco esplosogli contro, almeno in apparenza, al termine di una discussione.

La sua uccisione, infatti, s’inquadra certamente nello stesso contesto nel quale era maturato l’omicidio di Edoardo Toscano, a conferma di come troppo presto, probabilmente, fosse stata rivendicata la superiorità di una frangia del sodalizio, quella apparentemente vincente dei testaccini, sull’altra, considerata oramai perdente della Magliana.

In ogni caso, dopo la morte di De Pedis, Enrico Nicoletti tornò ad avvicinarsi a Marcello Colafigli e agli esponenti del vecchio sodalizio aggregatisi intorno a costui e questo mentre la mattanza ancora non era cessata e l’Euro Car Tuscolano, sua storica base operativa, era fatto oggetto di attentati dinamitardi.

Furono per lui momenti bui: in quel periodo, fu oggetto di minacce ed aveva veramente paura, tanto da cercare di allontanarsi dall’Italia, chiedendo al notaio Michele Di Ciommo di poter usare il suo aereo personale. Seguendo, tuttavia, la metodica del «doppio binario», vale a dire dei contatti paralleli con la criminalità e con le Forze dell’Ordine, riuscì, alla fine, ad uscire dall’angolo alla grande. Dagli atti dei processi istruiti a suo carico emerge come, in una occasione, almeno, si sia fatto garante di Flavio Carboni, addirittura accollandosene tutti i debiti, quindi diventando conseguentemente creditore unico, di fronte alle più potenti consorterie del crimine organizzato italiano.

Il resto è ancora cronaca.

Valutando un attimo nel tempo le cose, vediamo che Nicoletti è uno dei pochissimi rimasti vivi ed in una situazione di “potere” a Roma?

In linea puramente teorica, (teoria elaborata sull’ambito di un’esperienza conoscitiva di determinati fenomeni) all’interno delle organizzazioni criminali, vi è una divisione del lavoro. Qualcuno è impegnato nelle pratiche più pericolose e, diciamo anche, più sanguinose (dal traffico di droga alla gestione in prima persona di bische clandestine alla pratica degli omicidi, delle estorsioni e quant’altro) altri operano, invece, ad un livello puramente affaristico, nel campo del reinvestimento dei capitali sporchi e del loro riciclaggio attraverso pratiche, evidentemente criminali, che vanno dall’esercizio professionale dell’usura alle bancarotte.

Nel caso di Enrico Nicoletti, si è accertato giudiziariamente che egli appartenne all’associazione denominata banda della Magliana, svolgendovi un tipo di attività, che non era quella né del sicario né del trafficante di sostanza stupefacenti, ma principalmente quella dell’usuraio, in prospettiva del riciclaggio e del reinvestimento del denaro sporco.

Di qui una serie di “incidenti di percorso”, considerati i processi e le indagini che lo hanno investito, nel tempo. Breve, l’attività criminale imputata al Nicoletti, per un verso richiede notevoli capacità imprenditoriali ed una professionalità spiccata. È certamente più facile fare il killer che non il riciclatore.

Ma per il riciclatore, che accumula via via esperienze in settori quali l’usura, l’esercizio abusivo d’attività bancaria,il riciclaggio, si prospetta una carriera più lunga rispetto a quella che magari può avere il killer, che ha più alte probabilità di lasciare la pelle sul campo.

Alessandro Ambrosini


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