Maria Teresa Santalucia Scibona
a cura di Rina Brundu
Quale fu la tua prima composizione?
Prima di rispondere alla domanda, ritengo doverosa una premessa che chiarisca il costante peregrinare per l’italico stivale. Mio padre Enrico, Ufficiale di carriera in Marina, morì per ferite di guerra l’11giugno del 1940. Era in convalescenza a Siena. Il babbo proveniva da una famiglia numerosa e patriarcale della Basilicata, oltre al fratello Tommaso aveva sette sorelle. Due di loro, si fecero Suore in un Convento di Roma. Per l’ardente zelo spirituale e sociale, esse furono elette, l’una Provinciale (Madre Evelina Foglino), l’altra Vicaria, (Madre Incarnazione Santalucia), dalle Consorelle della Congregazione Italiana delle Suore Betlemite, Figlie del Sacro Cuore di Gesù. Il Beato Pedro de San José de Betancur, era nato in un’isola delle Canarie a Teneriffe (Spagna). Giunto povero e malato nel Nuovo Mondo, per l’insaziata carità verso i miseri selvaggi divenne il Fondatore dei Fratelli Betlemiti e delle sorelle Betlemite (nel 1658). Il giovane sant’uomo morì a 41 anni di stenti. La Casa Generalizia delle zie era quindi a Bogotà in Guatemala. Invece, la casa Provinciale di Roma era in Piazza Sabazio n.15. Oltre le venti sedi già istituite e sparse nel meridione, furono inaugurati, il Convitto e la Scuola Magistrale ad Andria (Bari), nella splendida villa del Marchese Nicola Porro. La mamma d’accordo con le cognate, mi spedì a studiare in Puglia, fui affidata alla Preside e Superiora, Madre Ermanna Fiume, molto amica della nostra famiglia. Dopo l’orfanotrofio senese di San Marco e i due anni trascorsi nel nobile Istituto delle Suore e Orsoline in via Nomentana di Roma, approdai nel collegio di Andria (Bari) ubicato in Pendio San Lorenzo, al quale era annesso l’Istituto Parificato Magistrale “Sacro Cuore di Gesù”. Malgrado fossi cresciuta, l’incontenibile vivacità non si era affatto affievolita. Ero agile come le capre di Argan, trascorrevo più tempo sugli alberi frondosi del parco, che in sala di ricreazione.
Arrampicata comodamente fra i rami, riuscivo a meditare gli scherzi da attuare sia nelle camerate del dormitorio, sia a scuola per evitare una temuta impreparazione. Mi sentivo ancora seguace e sorella di Giannino Stoppani, quando prima di me, il simpatico discolo fu rinchiuso nel Convitto Pierpaolo Pierpaoli, per essere educato secondo i dettami dell’epoca. Anch’io, potrei scrivere un libro divertente sulle bravate compiute negli anni cinquanta. Per ritornare all’inizio delle composizioni, tralascio alcuni abbozzi protestatari delle Scuole Medie, e passo a quelli vergati su una vecchia agenda medica della Farmitalia, dal pomposo titolo “Opera Iuvanilia”. I primi versi stentati e moti ironici, sono scaturiti dal sentimento di sana ribellione, contro le ferree regole del collegio che osavano tarpare le ali della nostra giovanile libertà.
A scuola, mi dilettavo con le parodie di note canzoni, ad ogni compagna avevo dedicato una strofa ironica per delinearne il carattere o qualche tipico difetto. Poi, elaborai una fase imitativa di versi classici, in terzine, per le tre cantiche, della gaudiosa “Commedia quasi Divina.” Avevo messo il cane Fox, all’Inferno, le collegiali nel Purgatorio e le Suorine in Paradiso. Persino il buon Padre Dante si sarebbe rivoltato nella tomba per l’irridente scempio.
Avendo già abusato dell’altrui pazienza, sarò breve. In qualità del nuovo Gian Burrasca in gonnella, Vi delizierò col sonetto che segue dal titolo, “ Abbasso il baccalà in umido”.
“ABBASSO IL BACCALA’ IN UMIDO”
Forse perché siam povere mortali
costrette da perversa sorte ria
a cui piacque chiamarci collegiali
dobbiam subire sempre? E cosi sia!
Il venerdì tanto per non cambiare
invece di caviale o buon prosciutto,
andando a refettorio per mangiare
sul bianco piatto che vorrei distrutto
Ser Baccaleo, usurpator troneggia
come assiso su comodo guancial.
Vedo lo stoccafisso che galleggia
Acerrimo nemico personal,
un pensier mi balena: sulla seggia
distendo ratta un provvido giornal.
Andria, lunedì 15 marzo 1954
In fondo alla nostra aula, nascosto da un’ ampio tendone c’era un palcoscenico, dove noi collegiali e le studentesse dell‘Istituto, durante l’anno o nel saggio finale, recitavamo poesie, allegre commediole, con relativo accompagnamento musicale dell’ insegnante di pianoforte. Prima dell’ora di religione, mi celavo dietro la tenda del palco, appena Don Antonio, con l’appello arrivava al cognome Santalucia, apparivo io con un piccione bianco in mano. lo facevo svolazzare per la classe dicendo:“Lo Spirito Santo scenda su di voi”. Le risate e le punizioni erano assicurate. Spesso allietavo la scolaresca, declamando sarcastiche strofette approssimative. Il maldestro tentativo del mordace sonetto, fu scritto per la corale protesta di noi collegiali, quando frequentavo la Seconda Magistrale. Ogni venerdì a pranzo, Madre Rosaria, addetta alla spesa e alla cucina, poneva sul tavolo del refettorio, la pentola del minestrone (/detta la lunga sbrodaglia ) e il solito vassoio stracolmo di baccalà in umido. Allora lo detestavo con tutta me stessa. Tuttavia, l’indigesto baccalà, tutti i venerdì, continuava imperterrito a turbare i nostri prelibati pasti, ma almeno noi avevamo esternato il nostro sferzante disappunto.
Quando capisti davvero il ruolo che la poesia avrebbe avuto nella tua vita?
Ho avvertito nel mio animo, fremere lo sconforto, una ribelle disperazione, nel luglio del 1977, quando mi fu diagnosticata l’invalidante progressiva disabilità. L’artrite reumatoide deformante avrebbe sconvolto per sempre la mia giovane vita, con gravi ripercussioni per la famiglia, per i figli ancora piccoli, bisognosi di cure e di attenzioni. Dopo alcuni mesi, le febbri altissime e l’anchilosi del corpo, mi costrinsero ad andare in pensione, con un mensile irrisorio. Lasciai l’impiego di ruolo, nel grado di Segretaria Capo del Provveditorato agli Studi di Siena. In un incerto domani, dovevo abitarmi ad una radicale diversità, lastricata di rinunce, ostacoli imprevisti, barriere architettoniche e mentali. Non avevo più un futuro, solo un’ esistenza a metà, che sarebbe dipesa, per lo più, dalla buona disponibilità degli altri.
Dopo un difficile periodo di assestamento fisico e mentale, adottai il forte proposito di reagire, senza falsi pietismi. Non volevo farmi coinvolgere dalle spire avvolgenti e insidiose della malattia, divenuta una scomoda, inseparabile compagna di viaggio. Giordano Bruno soleva dire; “Il tempo tutto toglie e tutto da”. A me era stato tolto molto!
Per i sani potrebbe sembrare uno strano paradosso, tale sfida però, possiede dei risvolti positivi, infatti la paralisi mi ha costretto a potenziare quel minimo margine di azione, che mi era rimasto, mi ha indotto a considerare le cose davvero essenziali per l’essere umano, come l’ineludibile dignità della persona e una sconfinata libertà dello spirito.
La serena accettazione di un avverso destino, è maturato dopo un lungo processo interiore, per giungere a una sofferenza che non passi invano, che abbia invece, una valenza salvifica, per le persone amate. Lo scopo del mio impegno spirituale sarà quello di mettere a fuoco come qualunque individuo, nei quotidiani conflitti esterni ed interni al suo cuore, non sarà mai lasciato solo dallo sguardo paterno di un Dio Misericordioso.
Cos’è la poesia per te?
Oltre ad essere un’eccellente sintesi di forma e contenuto, la poesia è un anelito interiore capace di esaltare il valore della umana personalità. Un testo può insorgere dentro di noi per le sollecitazioni più diverse, per la capacità evocativa di una musica, per l’incontro fortuito con una persona special che ci attragga, in un legame empatico, per un’ opera d’arte in sintonia col nostro modo di decodificare l’armonia di un paesaggio.
Il saper privilegiare il residuo stupore dell’anima bambina, che avverta ancora la voglia di rendere la cruda realtà, seducente e romantica. Un ottimo spunto compositivo potrebbe essere la maestosa vastità del mare. Amo l’incanto sempre nuovo, nello scrutare le onde marine, infide attrattive, imprevedibili bellissime, sicché possa sognare orizzonti misteriosi, esotici, lontani.
Talora gioisco, nel ritrovarmi a stretto contatto della terra madre, con l’opulenta magnificenza della natura, lasciandomi affascinare dalla millenaria ritualità dei gesti ampi dei seminatori. Mi attrae, il volere evidenziare in un testo, gli arcaici istinti dei pastori seguendo per tratturi antichi, la loro silente, meditativa transumanza. Nella povertà educativa circostante, priva di certezze, sarebbe bello porre in atto, il tentativo di trasferire sul piano più elevato ed artistico, la propria concezione del mondo, con un’impronta civica sobria e rigorosa che sia di stimolo all’incerto futuro dei giovani.
Sento la necessità di scavare negli abissi dell’anima per comprendere l’estesa gamma dei sentimenti umani, nella loro minuta psicologia, trasferendoli poi, in immagini liriche in cui ciascuno, nella propria storia, intessuta di amori, possa trovare una personale rispondenza.
Nel volume “L’amore imperfetto” (2003, a cura di Neuro Bonifazi, Editore Helicon), con sguardo disincantato persino malizioso, ho tentato d’indagare a fondo, i sottili veleni della passione (inganni rancori gelosie, ripicche ….). Quel pessimo surrogato del vero amore, del quale ci accontentiamo per complicare alla grande, le nostre labili esistenze.
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Cosa significa essere una poetessa?
Ogni scrittore è dotato di temperamento, di sensibilità individuale di educazione di valori, ricevuti nella famiglia e nell’ambiente nel quale è cresciuto e si è formato. La sua vita intima, il carattere, la sua fantasia viene influenzata dalla qualità e dalla quantità di amore che i genitori gli hanno profuso e persino dal tempo che gli è stato dedicato.
Poi ognuno intarsia e mette a frutto nelle proprie opere, le line guida recepite e le salienti esperienze del proprio vissuto, mai disgiunto da passioni civili e sociali e da alto senso di giustizia. Infatti nelle vicende dell’uomo e della storia, possiamo rilevare come la giustizia morale trasformi in sofferenza, le effimere, colpevoli gioie.
Le mie sillogi abbracciano diverse tematiche, sono difformi nella forma e nella sostanza, ma sempre animate da una ispirazione intellettiva onesta e sincera. Il linguaggio adottato è chiaro ed incisivo, affinché sia fruibile ad ogni classe sociale. Miro ad un intento stilistico lento e paziente, che si traduca nel tempo in un lessico vigoroso ed accettabile. Mi piace esaminare con attenzione, l’effetto sonoro della parola usuale o desueta, che appaghi interamente la musicalità del verso e il mio interiore concetto di senso estetico
Un testo, non è mai frutto di improvvisazione, di getto posso scrivere una frase che vortica nella mente. Perciò l’elaborato e l’architrave di ogni opera costituisce un lungo processo di riflessione, di ricerca formale e di contenuti. Consapevole degli errori e defezioni, seminati durante il percorso, creativo, cerco di attenermi all’imperativo polacco della sublime Wislawa Szymborska:“Tutto a questo mondo si distrugge per il continuo uso, tranne le regole grammaticali. Se ne serva con più coraggio, Signora” – bastano per tutti !!
Ti ha “impedito” più il dolore fisico o quello dell’anima?
L’avventura di lottare contro il dolore fisico, non è mai cassata, anzi si è intensificata, con i successivi interventi chirurgici, col progredire dell’età, col perdurare dell’insonnia. Riesco ad eludere per qualche ora del giorno, l’assillo del corpo dolente, se mi concentro sulle cose che mi appassionano molto. Esternamente sono refrattaria alle continue “geremiadi”, le pene profonde, almeno per me, sono come una emofilia dello spirit, si radicano invasive nella mente, e le ferite sanguinanti tendon a non risarcire mai.
Mi colpisce al cuore il tradimento delle persone che ritenevo amiche. La vendetta non è nelle mie corde, ma è difficile seppellire l’abitudine di una lunga amicizia, che abbia perso lo smalto della credibilità.
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Può un poeta essere felice?
Amalia, la mia saggia mamma soleva dire:“Ho paura della felicità che duri più di un istante”. Penso che lei avesse ragione! Inoltre, risponderò all’ enigmatica domanda con la condivisibile affermazione di Umberto Saba:”Solo là dove il bambino e l’uomo coesistano, in forme il più possibile estreme, nella stessa persona nasce il miracolo. Se l’uomo prevale troppo sul bambino, il poeta ci lascia freddi. Se quasi solo il bambino esiste, abbiamo il poeta “ puer””.
Illuminante è anche l’atteggiamento meno pessimista e più felice del sommo Giacomo Leopardi, lo possiamo desumere da qualche stralcio delle Operette morali, come nel “Dialogo di Timandro e di Leandro., in cui il poeta mitiga il suo atteggiamento verso la vita e fa esprimere Leandro con due frasi meno aspre del solito:“Ridendo dei nostri mali, trovo qualche conforto” e :“Dicono i poeti che la disperazione ha sempre nella bocca un sorriso” .
Pure Leopardi, ha trasferito la persistente disperazione, il radicale pessimismo, convertendo il crudo dolore in un corollario di certezze,nel suo lucido sistema filosofico. Chiedo venia, al divino Giacomo, e con spudorata sfrontatezza, osomettere, la prima strofa della composizione dal mio “Il giardino interiore” (“Le Temps suspendu et la vie Assise“ 200Prospettiva Editore).
“Tallonati dal dolore / conserviamo nel cuore / l’intatto entusiasmo / dell’infanzia perduta … “
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Chi come me, si inerpica nei sentieri impervi della Parola, assume il ruolo di appartenenza in una dimensione personale più alta, oserei dire vocazionale. È un espediente delle mie assurde chimere, per valicare le disastrate frontiere del corpo, con un paradigma di speranza. Da apprendista scriba(cchina) mi lascio contagiare dalle buone cose per vivere serenamente. Come la difesa della pace, caratterizzata da un pacato dialogo persuasivo e rispettoso, fra esseri diversi per cultura e tradizioni. La costante del mio dire, non dovranno essere l’egoismo, lo strapotere, la vana gloria, ma in qualità di autore consapevole e responsabile, vorrei poter influire positivamente sui lettori.
Mi piacerebbe essere considerata coerente, credibile, capace di propagare il vero senso dell’esistenza, della morte, dell’Amore.
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Puoi trascrivere qui di seguito la poesia che ti racconta meglio?
APOLOGO
ad Anton Pavlovic Cechov
Kòvrin anacoreta
della suggestione,
molato dal vizio
della Letteratura
s’invola solitario
nell’estasi morbosa
della fantasia.
Elude attediato
i fasti della gloria.
Nel siderale arco
dei giorni incrina
la gracile salute
per magre rendite
intellettuali.
Kòvrin animo eletto
si aggrotta e non recede.
Non è “l’uomo del gregge”
L’incomparabile
godimento dello spirito
è la sua vera vita.
(Siena, 19 marzo 1992)
Dal volume:- “Le Temps Sospendu et la Vie Assise”
Prospettiva Editrice 2002, prefazione di Giorgio Luti
postazione di Walter Nesti
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Perché hai sentito il bisogno di creare una Fondazione?
Vivo da anni in sobrie ristrettezze. Non avrei mai potuto creare una mia Fondazione. Chi mi conosce bene, sa che non sono abituata a sgomitare per ottenere premi e riconoscimenti immeritati. Non ho mai mercanteggiato per emergere o per ottenere favoritismi. Il mio temperamento troppo orgoglioso non lo permetterebbe.
Le opere che ho scritto, sono state pubblicate da piccole Case Editrici, a mie spese. Per esse ho accumulato tante delusioni e scarsa diffusione. Ricordo che un poemetto, al quale tenevo molto, dopo una sofferta gestazione di ben sette anni, fu pubblicato a Roma. Incaricai Marilena Ricciardelli, una cara amica di collegio, di cercare il volume nelle librerie della Capitale, segnalate dalla Casa Editrice.
Non solo la mia tenera creatura di carta, risultò introvabile ma, in uno degli indirizzi indicati, si ergeva solo, un mastodontico Ambulatorio di Analisi Mediche. Il piccolo nascituro, aveva già subito una fine ingloriosa! Del resto: “ Un editore vedrebbe nel suo ufficio più volentieri un ladro che un poeta.” diceva H. De Vere Stacpoole. Invece, secondo Kenneth Tynan:“ Oggi Barabba sarebbe un editore.” Così, se gli ultimi inediti dovessero prendere corpo, sarà grazie al generoso aiuto di persone care che da sempre mi incoraggiano e credono in me.
Anni addietro, fui invitata dal Professor Velio Abati, Direttore della Fondazione “ Luciano Bianciardi “ di Grosseto, ad inviare i volumi editati e altro materiale cartaceo (lettere, foto, locandine inviti etc.), ossia tutto ciò che l’autore decide di donare ad un Centro Letterario.
Qualche tempo, dopo su proposta del Capo del Dipartimento, approvata dal Consiglio d’ Istituto, il Prof. Luca Lenzini, Direttore della Biblioteca Universitaria di Siena della Facoltà di Lettere e Filosofia, mi comunicò che (nella Seduta del 27 aprile 2005, alle ore 14,30 ), era stato istituito un Fondo Letterario a mio nome.
Immensa fu, è e sarà, la mia gratitudine, per l’alto privilegio, spero di non deludere, di essere ancora degna del grande onore e del significativo riconoscimento.
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Cosa vorresti che restasse di te e della tua arte?
La scrittura è divenuta per me, una sfida, l’ardua scommessa della vita. La ricerca assoluta della verità, che mi renda libera dalla ristretta schiavitù del corpo, e m’invada con la sterminata sinfonia delle parole.
Vivo esiliata nel mio fortilizio, lontana dal clamore urbano. Sono protetta dal silenzio apparente delle amate piante, e dalle voci immortali, carismatiche che abitano nella folta libreria. Consapevole dei limiti lessicali e non solo, continuo ostinata a seminare per il futuro.
“Forse un giorno /qualche affocato / seme germoglierà / nel mio sarchiato campo” ?… /
Quando i versi saranno capaci di trasformarsi in raffinate immagini mentali, diverrò una piantina vitale e perenne?
Mi preme però precisare: quanto sia importante non prendersi sul serio ….. quindi, non senza patemi … attendo l’ultima chiamata.
Cosa diranno nell’epigrafe bugiarda?
Lascio “Ai posteri l’ardua sentenza.”
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Incisione 1 – Maria Teresa Santalucia Scibona (Santini, 2005)
Incisione 2 – Maria Teresa Santalucia Scibona (Santini, 2005)
Incisione 3 – Maria Teresa Santalucia Scibona (Santini, 2005)