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Intervista allo scrittore e kickboxer Joe Santangelo

Creato il 15 maggio 2013 da Serenagobbo @SerenaGobbo

MEGITRE 1-3 (11.5.2013 RM)

In concomitanza con l’uscita del suo saggio “Four Sides”, Caosfera ed., per la seconda volta in questo blog, Joe Santangelo si è gentilmente sottoposto alle mie domande:

“Joe”: quando hai scelto questo pseudonimo e perché?
JOE è tutto ciò che non è istituzionale, ufficiale. Giuseppe Santangelo è il professionista, il laureato, il responsabile, l’intestatario di utenze, crediti e debiti. Joe è – invece – l’artista, l’amico, il papà. Sulla rete sono presente con entrambi i nomi e per motivi decisamente diversi. Oggi è frequente (e anche buona norma) che un potenziale Partner – soprattutto se internazionale – acquisisca notizie sulla controparte attraverso il web. È sorprendente scoprire che NESSUNO dei miei Partner riesca a matchare il mio nick-name (Joe, con cui io mi presento: in inglese è più facile) con il mio cognome: se facessero questo, su internet, gli si aprirebbe un mondo diverso e non riuscirebbero più a qualificarmi. Dunque “Giuseppe” è per il lavoro (Dr. Jeckill), mentre “Joe” resta per la parte creativa (Mr. Hyde). Tutto nasce in un passato così lontano, da essere stato dimenticato. Sono sempre stato Joe: mai stato Giuseppe.

Considerando l’invasività di tutto quanto è istituzionale e lavorativo, è un buon metodo per tenere separati i due ambiti! Dovrò pensarci pure io: di fatto, al lavoro non parlo mai di quanto mi piace (libri! Arti marziali! La mia scrittura!). Ma torniamo a te: è stato facile trovare un editore per questo saggio?
Molto più difficile scrivere la sinossi del proprio volume, piuttosto che trovare un Editore disposto a pubblicartelo. La scrittura, per quanto “attività vera, concreta”, conserva il dono dell’aleatorietà: quand’anche tu abbia già scritto volumi, non sarai mai certo della qualità di ciò che hai prodotto. Sintetizzare in una nota critica gli elementi che caratterizzano il tuo scritto – pertanto – è l’ultimo atto di creatività di cui l’Autore deve farsi carico. Tutto ciò che segue – dunque: cercare/trovare un Editore qualificato, fornito di un’adeguata distribuzione e di una struttura di editing competente – è “lavoro”. E io, nel lavoro, purtroppo sono bravo. Il mestiere dello scrittore è produrre il meglio possibile con quanto a propria disposizione (le parole). Tutto il resto è fatica, zavorra. Tutto il resto è “lavoro”.

Ogni tanto mi chiedo cosa sia il “lavoro”; secondo me (lasciamo da parte Marx e i secoli di riflessioni sull’argomento), è un vendersi il tempo e il corpo (anche per un semplice lavoro d’ufficio) in cambio di denaro che mi è necessario per vivere. In questa definizione che mi sono auto-fornita, però, non mi ci sta la passione della scrittura, perché non scrivo (e forse non scriverò mai) per necessità. Tu inserisci l’attività di diffusione del libro nel “lavoro” e, soprattutto, lo associ alla parola “fatica”…
Lavoro – per me – significa “prostituzione”, seppure intesa nella sua forma “etimologica” (prostitùere: rendere evidente per fini di mercato, per traffico). Vendo una prestazione – manuale/intellettuale – per ottenere qualcos’altro in cambio (danaro). In particolare io vendo le mie giornate – lunghe, faticose, ovunque – e mi compro le mie nottate, quelle in cui gioco, mi diverto, scrivo. Ho risposto che “nel lavoro, purtroppo, sono bravo”, perché l’apprezzamento procura responsabilità, promozioni e le responsabilità richiedono tempi ulteriori, sottraggono energie. Se il mondo del lavoro mi respingesse – può accadere a chiunque, soprattutto in un periodo complicato come quello che stiamo vivendo – allora non mi resterebbe che immergermi dentro il mio sogno: la scrittura. Nel mio linguaggio personale è AMORE tutto ciò che pratico senza dispendio di energia, mentre è LAVORO e fatica tutto ciò che richiede tempo e recita continui, energia e che produce pensieri cattivi. Qualcosa che da un lato ti “migliora” (è il tuo “antagonista”), ma dall’altro ti snatura.

Credo che questo libro abbia un punto di forza che è, allo stesso tempo, anche un punto di debolezza: non è schematizzabile. Non è etichettabile. Saggio di filosofia? Di arti marziali? Autobiografia? Antropologia? Tutto questo e di più. È un punto di forza perché non hai ceduto alla tendenza classificatoria del mercato editoriale (ma non solo di quello), e hai scritto qualcosa che corrisponde alla tua Verità. Ma può essere un punto di debolezza perché, là fuori, la gente ragiona per schemi, acquista i libri in base alla pubblicità, brama etichette e schemi. Che ne pensi?
Ho scritto questo libro per me, lo confesso. Nessuno me lo ha chiesto, nessun editore me lo ha commissionato, nessun amico mi ha confortato. Nessuno meno uno: quel Beppe che mi ha provocato e, a modo suo, mi ha sollecitato. Le prime parole che ho “trascritto” sul mio taccuino, costituiscono la forma abbozzata della prefazione. L’immagine di quel ragazzo fragile e vulnerabile, ma così tenero, quasi poetico. L’immagine del ragazzo che sono stato, ha toccato certe corde e mi era sufficiente “rientrare” in quel mood per attivare le mani: i contenuti si sono scritti da soli e in una forma lessicale molto prossima a quella definitiva. Avrei scritto questo volume nella forma che ha preso luce anche se fossi rimasto da solo, su un’isola. Oppure agli arresti domiciliari: spazio e tempo – come spiego – sono diventati la stessa cosa da tempo, per me. Sono stato una freccia: ho scritto decine di pagine in sessioni uniche nel periodo più complicato della mia esistenza. La stesura è stata una medicina e rientrare in certe pieghe sulle quali si era sedimentata polvere e melma (le parole, gli inganni del tempo che passa) è stata un’esperienza di pulizia molto soddisfacente. Mi sono sforzato di rendere fruibili le esperienze ad altre persone, certo, perché questo è primariamente il mestiere di chi scrive. Ma chi muove da questo genere di motivazioni non ha altre aspettative se non quella di fare chiarezza estrema sulle forze in gioco, per potersene disfare, a opera compiuta. Di conseguenza non ho mai pensato alla “classificazione”. Ho scoperto io stesso – piuttosto – che alcune librerie/portali hanno inserito il volume tra i saggi di psicologia o di educazione emotiva. In quel momento ho scoperto che gli operatori – per ragioni di necessità – hanno dovuto “percepire” il mio lavoro in quel modo, per poterlo catalogare e renderlo fruibile ai lettori. Ma non sono affatto d’accordo. Il volume è – piuttosto – un taccuino, un semplice quaderno di consigli. Deve andare nelle mani dei ragazzi – femmine e maschi – perché raccolgano l’unica verità che voglio permettermi di promuovere: tutto è possibile amico mio. Coraggio: fa il primo passo, perché la strada ti si costruirà sotto i piedi!

In questo “saggio” racconti la tua storia di combattente quando già sei alle soglie della notorietà e del successo. Ma che ci dici di quel bambino di 13 anni che è entrato in una palestra di arti marziali per la prima volta con un’enorme necessità di riscatto addosso?
Quel bambino sono io. Gli ho messo sopra una quantità di libri, corsi, esperienze e altre brutture di ogni genere, ma sotto tutta quella quantità c’è ancora una generosità, un desiderio di osare, un’aspirazione genuina a impegnarsi ripartendo dal nulla, la curiosità e l’ambizione di ascoltare la canzone perfetta. C’è la qualità. Ho scritto un Romanzo che probabilmente non vedrà mai luce (SWITCH, N.d.A.): sviluppo la storia di un uomo che incontra il bambino che è stato e questo – il bambino – si ritrae e si nasconde dietro le mani e comincia a piangere e l’unica cosa che riesce a dire, tra le lacrime, è “Perché? Perché mi hai tradito?”. Io temo che crescere sia “tradire” continuamente il bimbo che siamo stati, ma vorrei trovare una soluzione, perché altrimenti avrò fallito. Con me stesso, con mia figlia, con tutti i bambini del mondo. Sono la nostra ricchezza, dobbiamo prendercene cura per sempre.

Quando viene il momento di scrivere, si scrive; quando viene il momento di combattere, si combatte. Ma c’è tanta gente là fuori che questi momenti se li lascia sfuggire sotto il naso, non ti pare? Parlo di uomini e donne che trascorrono il proprio tempo libero davanti a una partita o una soap spegnendo il cervello; di uomini e donne che si sentono soddisfatti quando entrano in un centro commerciale; di uomini e donne paghi di eseguire ordini, espressi o inespressi. Sono uomini e donne che portano in sé un’energia inutilizzata, e, dunque, attutita. Se il mondo è un grande corpo, l’energia si blocca su di loro. Ognuno deve svegliarsi da sé, oppure quelli che sono un poco più avanti hanno la responsabilità di dare uno scossone?
Io penso che ciascuno faccia ciò che deve e che mentre lo fa, stia spingendo alle sue massime possibilità. Che ciascuno si esprima già al meglio delle proprie possibilità. Non si tratta di una regola teorica o – meglio – di un precetto: “Fai ciò che devi e fallo alle tue migliori possibilità”. Si tratta di una regola matematica, è l’unico modo in cui mi riesce di interpretare il mondo – e il suo faticoso “svolgersi” – in modo credibile. Ciascuno di noi pratica esattamente le attività che desidera e si esercita continuamente, ogni giorno. Nei pensieri, nelle immagini, utilizzando il linguaggio che più corrisponde alle proprie aspettative, scegliendo i propri amici e i propri nemici, scommettendo sui propri obiettivi e destinando proprio “quel” quantitativo di energia, piuttosto che uno diverso. Non ci sono giustificazioni: le motivazioni che portiamo a nostra discolpa sono alibi (non ho tempo, non ho possibilità, non sono stato io), e noi siamo i migliori avvocati difensori di noi stessi, ma troppo spesso difendiamo un colpevole. Chi “abbocca” alla ripetitività e alla superficialità, è un individuo ripetitivo e superficiale e non può essere “meglio” di ciò che è. Quello che chiamiamo “presente” è – nel mio modo di vedere le cose – una forma cinica di “passato”: sta accadendo ciò che non poteva non accadere date le premesse. Ciascun individuo può evolvere (vorrei dire “deve”, ma preferisco farmi i fatti miei). Ciascuno di noi ha la possibilità di “salvarsi” dalla propria pigrizia, dall’indolenza, dall’afasia, ma prima deve cogliere una verità fondamentale: ogni individuo è responsabile del proprio destino, da cui discende che il mondo che ci circonda rappresenta la condizione migliore nella quale ho il dovere di evolvere, il mio miglior “amico”, vorrei dire. Mi trovo in questa situazione “proprio perché” devo uscirne fuori e devo tirarmi fuori da questo inganno con le mie stesse mani, perché io stesso – da solo, senza l’aiuto di nessuno – mi ci sono ficcato. Il mondo è la nostra palestra: se abbiamo la volontà di cambiarlo, allora lui cambierà. Ma dobbiamo cambiare noi stessi: è questo lo scoglio vero. Io non posso aiutare nessuno, ma la forza dell’esempio – silenzioso, dignitoso, modesto – non ha pari. Il mio nemico, in sostanza, è il mio miglior amico.

Hai imparato ad amare ciò che odiavi e ciò ti ha reso un uomo migliore, spieghi nel libro. Ma noi cambiamo ogni momento che passa: qui e ora c’è ancora qualcosa che odi, se puoi raccontarcelo?
Nel “qui e ora” non ce n’è per nessuno. Il “qui e ora” (che gli inglesi stigmatizzano in “herandnowness”, essere nel qui-e-ora) ogni uomo si trova nella migliore condizione di creatività possibile. Tutto ciò che non accade da sé – ovvero: tutto ciò che non “accade”, che cade dall’alto, che si verifica senza il consenso dell’uomo – è governato dal qui-e-ora di ogni individuo, all’interno della sua sfera di insistenza. In altre parole voglio dire che la condizione del “qui-e-ora”, molto complessa da conseguire e altrettanto rara, è quella condizione dello spirito di massima coscienza che concede un grado di consapevolezza massimo della propria forza e del proprio essere, la sede della pura volontà. All’interno di questa “occasione” l’individuo può scegliere, può creare. In ogni altra occasione l’uomo dorme, alimentato dall’inganno del tempo che passa, imbrigliato da catene invisibili che rendono ogni passo pesante e uguale al precedente. La pratica del combattimento – per ogni stile, ma solo su livelli elevati – è finalizzata esclusivamente al perseguimento di questo stato (vincere senza combattere, pace dello spirito, estrema consapevolezza). Nel “qui-e-ora” l’attenzione è talmente elevata da disinnescare ogni minaccia. Questo vale sul ring, questo vale nella vita. In una condizione di questo tipo, non c’è spazio per l’odio, perché l’uomo supera il livello del “guardare”: riesce a “vedere” e a convincersi spontaneamente che il giudizio è un aspetto tipicamente umano, che la realtà rifugge gli schemi, perché prende forma e si sviluppa nel tempo indipendentemente dalle considerazioni umane. È “umano” desiderare qualcosa ed altrettanto umano è detestare qualcos’altro. Ma il presentarsi di un’attività odiosa, rientra nell’intelligenza del superamento: devo applicarmi su questa cosa che mi si è presentata, perché probabilmente non sono ancora riuscito a superarla. L’attrito ci migliora, perché ci sta testimoniando una ritrosia, una capricciosità che saremo in grado di superare, digerendola nel corpo e nel cuore. Penso che esistano alcuni aspetti della mia esistenza che tollero meno di altri, non riuscirei a definirli oggetto di odio, ma certamente ci sono e ne sono contento, perché devo imparare a farci i conti se voglio superarle, in futuro. Non sopporto che venga intaccata la mia sfera privata, per esempio, in tutte le modalità in cui ciò può avvenire. Disapprovo la fretta, perché non mi consente di correggere, rifinire, riflettere. Non sopporto di essere “interrotto” mentre sono impegnato su un progetto, quand’anche e soprattutto venga distratto da chi ha autorità per farlo. Non sopporto l’autorità, per concludere, volendo intendere quella che insiste nulla mia testa, ma estenderei anche al senso assoluto. Un uomo serio è un uomo che ha il centro in sé stesso. Un insieme di uomini seri dovrebbe poter governare l’esistenza sociale autonomamente, senza affidarsi a un capo-condomino che gli impone regole e comportamenti.

Nell’intervista tenuta su questo blog un anno fa, dicevi che incominciavi dal titolo. Hai fatto lo stesso anche con questo libro? O tutto è nato dal commento del tuo amico, come spieghi nella prefazione?
Tertium datum, questa volta: né l’una né l’altra. Il titolo originario ha tenuto fino alla conclusione della prima stesura (Quadrophenia), ma sentivo che lo avrebbero compreso in pochi e poi mi sembrava oltraggioso rispetto al film/colonna-sonora meravigliosi di quel gruppo straordinario che sono i “The Who”. Cominciai a rifletterci seriamente quando fui costretto a farlo, perché l’Editore richiedeva un’idea grafica per la copertina che rappresentasse i contenuti e fosse allineata al titolo. Un’equazione di terzo grado: dati i contenuti, avrei dovuto tirare fuori titolo, copertina e una corrispondenza tra tutti gli elementi. Inizialmente pensai a una piramide, ma sul piano (foglio, due dimensioni) sarebbe stato impossibile rappresentare quattro dimensioni. Allora cominciai a pensare a due dimensioni. Mi trovavo in un Pub, a Cortina, dentro un freddo gelido, ma sotto un cielo del colore del cobalto. Chiesi un foglio e lo divisi in quattro parti e presi a disegnare. Cominciai a rifinire e provai più volte un titolo. “Four Sides” mi sembrava molto musicale. Chiamai la mia amica Sissy e spiegai la mia idea. Pochi giorni dopo mi inviò la prima bozza. Le chiesi di utilizzare colori “fluo” e di rendermi irriconoscibile: quel ragazzo dev’essere “chiunque”, le dissi. Buona la prima, disse l’Editore, ma i meriti vanno a Sissy.

Lo Shihan Cognard (aikido) mi diceva che l’attacco è una richiesta di aiuto, e che la violenza deriva dalla mancata consapevolezza dei propri confini, fisici e mentali. Commenti?
Se non fossi d’accordo significherebbe che starei ancora alla prima elementare, mentre penso di aver superato le scuole medie, almeno. La condizione di armonia (assenza di scontro) dev’essere letta in modo duplice. Può preludere allo scontro, e pertanto va definita propriamente “ristagno, stallo”, oppure può essere una condizione di pace definitiva, e pertanto dev’essere considerata un traguardo. Volendo escludere la seconda definizione – inapplicabile, perché stiamo parlando di attacco – significa che ci troviamo in una situazione dinamica. Chi scaglia il primo attacco, si è assunto la responsabilità di rompere una condizione originaria di pace, dunque sta generando una condizione di scontro, meglio definita “confronto”. Ma l’uomo – ogni uomo – proietta fuori di sé ciò che porta dentro, dunque chi attacca sta testimoniando la presenza di uno squarcio interiore, di una ferita dell’anima. Chi attacca sta dicendo “non mi trovo in una condizione di serenità”, non sono un uomo compiuto e dunque sta chiedendo aiuto all’avversario. Nella filosofia dell’arte marziale non esiste un vincitore e un vinto. Ciascuno torna sempre in possesso di ciò che ha, ciascuno “diventa sé stesso”, perché si vince “prima” dello scontro. Ogni uomo porta sul campo da combattimento le proprie ferite (prima) e ogni uomo torna a casa con le proprie risposte (dopo). L’esito dello scontro è un altro modo di “conoscere” i propri limiti.

Hai una figlia di 9 anni: è già stata contagiata da qualcuna delle tue passioni?
Mia figlia Eva ha già sviluppato un amore per la lettura e addirittura per la scrittura. Le ho promesso che mi impegnerò a pubblicarle il suo primo Romanzo, non appena avrà la forza e la responsabilità per cominciarlo e portarlo a termine. Ha già le sue idee. Sul TAB che le ho regalato, di tanto in tanto continua a scrivere una fiaba che ha cominciato circa un anno fa. È una ragazza molto dinamica: ama il calcio, ma frequenta una scuola di danza contemporanea. Il suo sogno è quello di aprire una “Scuola di Sport”, come la definisce lei: le ho promesso che l’aiuterò e che io mi occuperò degli sport da combattimento, ma lei dovrà essere alla guida di quest’avventura. Ama la musica e conosce già molti gruppi, testi in inglese compresi. Direi che sì: è stata contagiata da alcune delle mie passioni. Le serve tempo. Un giorno sarò io stesso a dover imparare da lei.



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