Tesse Penelope parole, 2014, Duende, è l’ultima raccolta poetica di Giuliana Sanvitale che presenta le sue poesie raggruppate per temi: la parola come ricerca di senso, come mezzo per metaforizzare i sentimenti, i luoghi della mente, i luoghi del cuore, il rapporto con il mare, i paesaggi dell’anima, l’omaggio ad alcune città legate alla sua vita e l’amore.
Giuliana Sanvitale in questi ultimi anni è passata attraverso copiose produzioni, dalla poesia al racconto, per sperimentare, come ha spiegato nella sua “Conversazione con il lettore”, nuove forme di scrittura. Oltre ad una velata precisazione con cui l’autrice sottolinea che ricorrentemente le hanno fatto notare che ricorre a citazioni, ne aggiunge una dell’immenso Dante, che riceve l’impulso da Dio (Motore immobile) e lo distribuisce.
Da questo concetto aristotelico, il sommo Dante, trasse diversi spunti per la composizione della Divina Commedia, tanto quanto Giuliana Sanvitale trasforma il suo pensiero in poesia, ordinando ininterrottamente tutto il materiale che aveva raccolto nel tempo. Qui, il tempo diviene il panorama su cui si stagliano i suoi temi ed è al centro di questa sua nuova raccolta poetica per mezzo della sua parola “dal Vento sospinta/ verso mete lontane/ ricama diacroniche visioni”.
Di Giuliana Sanvitale ho spesso scritto e mai chiesto: da dove provengono i lunghi chilometri di sillabe che sempre ha condiviso con me. Non le ho mai chiesto se parla da sola quando cammina nei corridoi semideserti della sua anima, nemmeno in che modo, la penna – che ha trasformato il gesto della sua mano in un atto che “forse” non si aspettava di compiere- sia ormai parte della sua vita. Quella penna in rapporto intimo con la sua memoria, che avrebbe potuto divenire oblio se non l’avesse diffusa e che mai l’ha lasciata.
Leggo il suo libro e a fine lettura mi ritrovo ferma su un passo, un passo a forma i chiave che nella sua limatura combacia perfettamente con il foro d’ingresso del cuore delle donne: “Di nebbia uno scialle/ Ho tessuto per ripararmi/ dall’indifferenza. La tua lontananza, uomo/ l’insofferenza che invade/ i tuoi occhi,/ la distrazione con cui/ mi vivi accanto, tu, che/ elessi a compagno, non/ mi sovrasteranno/ Voglio vivere!/. Da “Andrò per strade note.”
Di parole ne ha tante Giuliana Sanvitale, esplodono con forza prorompente tra le sue dita, contano il tempo, mentre ballano aggregandosi in sillabe. Io che la leggo, resto tra i tanti versi a cercare un metro che graffia, che ferisce di realtà, che strozza le notti e toglie il sonno, resto, nel silenzio assordante della sua sintassi, ad ascoltare il suo vuoto e le sue mancanze e le assenze che diventano presenze.
Dentro le parole ci sono le cose che si vedono e quelle che non si vedono. Le cose che si vedono, in genere, si possono anche toccare, come lo scialle di nebbia metaforico che Giuliana Sanvitale mi ha lasciato tra le mani con il potere della sua Poesia: “dai cento abiti,/dai mille volti.” Da “Andrò per strade note.
C.S.: Giuliana, non ti chiedo come si passa dalla poesia al racconto e al romanzo. Ogni elaborazione testuale è una rilettura soggettiva della realtà e penso non sia possibile parlarne in modo personale senza aver prima tenuto conto dell’esperienza dello scrittore, ma ti chiedo: dopo aver fatto i conti con la realtà e le sue sfumature di vita e di morte, di fusione e di solitudine, di presenze e di assenze: puoi confermare che la scrittura sia un demone che si impossessa della mente e del cuore dell’uomo e fa emergere in modo, anche drammatico, elementi nascosti o sconosciuti, che vengono portati alla luce dalla forza dirompente dell’emozione?
Giuliana Sanvitale: Ho definito quest’ultima raccolta poetica una autobiografia in versi, un tentativo di rilettura del mio percorso di vita, un viaggio che, partendo dal mio Io, si spinge verso le strade del mondo per tornare poi, arricchito di emozioni e conoscenze, ad operare una riscoperta di me stessa. Tante, forse troppe sono le definizioni che della Scrittura e in particolare della Poesia sono state date. Per i Greci era farmaco, per Goethe veleno e medicina, per Luigi Santucci un vaccino, un antidoto contro i mali dell’esistenza. Scrive Umberto Eco: “…in segreto, giorno dopo giorno, notte dopo notte, queste pagine agitate dal demone della poesia”. Potremmo continuare all’infinito. Certo la Poesia è anche un demone di cui non riesci a liberarti, ma io la sento al contempo come un angelo che m’illumina il cammino, smussa il dolore, lo frantuma in frammenti di stelle. Forse è uno di quegli angeli-demoni cacciati dal cielo che tuttavia ha conservato qualcosa della bellezza siderale di cui si era nutrito e me ne rende a volte partecipe.
C.S.: “Tesse Penelope parole” oltre ad essere la prima poesia del libro è anche la lirica che dà il titolo all’intera raccolta che definisci: “un viaggio per le strade del mondo alla ricerca di nuove conoscenze, forse di conquiste, ma anche un viaggio interiore alla ricerca di te stessa”. Ad ogni viaggio corrisponde un arrivo. A questo tuo nuovo viaggio in versi che tipo di arrivo hai considerato?
Giuliana Sanvitale: Sì, come giustamente asserisci, ad ogni viaggio corrisponde un arrivo e magari un ritorno. Il mio non è un arrivo definitivo, almeno non lo sento tale. Ho intrapreso il viaggio ripercorrendo le tappe della mia esistenza ed ho rivissuto il dolore, intenso e corrosivo, ma ho scalato anche qualche vetta, ho guadagnato a volte la riva e sono “arrivata” a decidere che il “viaggio” va affrontato. Spesso al nostro arrivo la Vita ci volge le spalle, ma io sono pronta a ripartire.
C.S.: Nella sezione dedicata ai “Canti” si trovano alcune città: Giulianova Posillipo d’Abruzzo, Ode a Ortona, Amore per la mia Terra martoriata, Ode a Siena, Parma del sangue; Sant’Anna di Valdieri; Faiete; Terra d’Abruzzo. La Terra torna nei tuoi ricordi come immagine vibrante e si fa verso. In che modo è avvenuto questo processo dentro di te?
Giuliana Sanvitale: In “Acquaria” scrivo che affido all’Aria i miei sogni perché lievitino verso l’alto unitamente alle speranze, in un desiderio indefesso di ricerca interiore, in un anelito di assoluto, di infinito. E l’Acqua è l’elemento in cui purifico le mie giornate, levigo le asperità; di nuovo in essa si liquefanno i sogni quasi a diventare vapore pronto a perdersi nell’aria. Ma è dalla Terra che ha origine il mio canto. È dal bianco delle passioni ancestrali, dal rosso delle viscere della terra, alla quale mi sento saldamente ancorata, che muove l’esigenza della mia ricerca. L’abbandono della casa della mia infanzia (addirittura un castello), la nostalgia cocente dei miei spazi, dei giochi durante lo sfollamento, quindi i lunghi anni del collegio, quando la lontananza dalla mia terra si identificava con la mancanza della famiglia, degli affetti, della libertà, hanno acuito il mio attaccamento ai luoghi, a “certi” luoghi. Quelli cui dedico i miei versi o meglio quelli che mi hanno dettato quei versi, affondano come stiletti nella mente e nella carne. Sono ferite che non si rimarginano, che neppure il tempo può cassare e che solo la forza vitale della parola poetica potrà purificare. Con Heidegger concordo che occorre aprire l’animo e il cuore per “ascoltare dentro e attorno a noi le voci segrete che chiedono di essere ascoltate”.
Written by Carina Spurio