Alessandra Bello nasce nel 1985 a Gemona del Friuli Venezia Giulia in provincia di Udine. Frequenta l’Istituto Statale d’Arte “G. Sello” di Udine dal 1999 al 2004 diplomandosi in Maestro d’Arte nella sezione Rilievo e Catalogazione. Inizia il suo percorso di fotografa nel 1999 continuando a sperimentare altre forme d’arte come la pittura e l’installazione.
Dal 2004 frequenta lo IUAV (Istituto Universitario di Architettura di Venezia) e si laurea in Scienze dell’Architettura. Nel 2007 segue alcune lezioni di Guido Guidi che riconosce come suo primo vero Maestro della fotografia che la indirizza verso un fare fotografia più cosciente. Nello stesso anno segue un seminario sulla produzione di un progetto fotografico con Roberto Salbitani.
Nel 2008 è impegnata in uno stage di dieci giorni in Sardegna organizzato da SuPalatu dove incontra John Davies, Giovanni Chiaramonte, Diego Mormorio e Leonard Sussman. A partire dal 2004 i suoi scatti sono esposti in diverse mostre personali e collettive.
Alessandra Bello è finalista al Sony World Photography Awards con “Sight Blue Sense” in mostra a Venezia dal 1° al 15 aprile presso il Palazzo delle Prigioni (Sala Risorgimento).
I.G.:Vorrei partire con te dalla fotografia “The Temple of Time” che è in finale al Sony World Photography Awards e che farà parte della mostra “Sight Blue Sense” in questi giorni a Venezia. In questo scatto, come in molti altri, il gioco di riflessi ammirevole diventa, oltre che una firma personalissima, anche piuttosto significativo di una tua necessità: il riflesso di una vetrina riesce a mostrare ciò che è al di là, all’interno della vetrina, ma anche ciò che è in strada e proprio te che scatti la foto. Possiamo dire che questa fotografia rappresenti il tuo modo di guardare la realtà?
Alessandra Bello: “Sight’s Blue Sense”, in mostra a Venezia fino a metà Aprile e di cui una serie di dieci immagini in finale al Sony World Photography Awards 2015, è il progetto che in assoluto sento appartenermi profondamente. Esso è nato così, un po’ per caso e rappresenta il mio modo di guardare intimamente alle cose e alle situazioni. Le fotografie di questo progetto rappresentano il mio modo di cercare la realtà, di capirla, di rendermela familiare. Esse sono per me una vera e propria ricerca di libertà, inespressa altrimenti, e la libertà porta sempre con sé il senso di meraviglia. “Sight’s Blue Sense” parla di diverse realtà, di stratificazioni, di storie, di uscire dal tempo e di rientrarci. In fondo, come mi dicono spesso anche Miriam e Alessandra, due amiche proprietarie di un atelier: il fine è sempre altrove e niente è come sembra! Spesso ci sono situazioni che ci “imprigionano”, ma niente è come sembra e tutto cambia se cambiamo punto di vista: è esattamente questa libertà di cui parlo con “Sight’s Blue Sense”, ed è esattamente la mia ricerca non solo fotografica ma nella vita. Cambiare punti di vista è una bella libertà. La fotografia è un mezzo davvero specialissimo per riuscire a capire esattamente cosa significa e dove si trova questo altrove. Essa, nella visione comune, registra e non cambia, non toglie e non modifica: niente di più sbagliato! Ed è proprio questo errore di percezione del mezzo che si concretizza in queste immagini: la fotografia cambia, distorce, aggiunge o toglie valore; in due parole: è soggettiva. Il perché di questo titolo trova origine nel difficile significato di un colore, il blu, inteso come idea, sensazione, movimento. Esso non è solo un colore di per se stesso ma un concetto, un modo di essere, un’emozione, uno stato di coscienza. Ecco perché non tutte le immagini contengono obbligatoriamente il colore blu ma contengono una atmosfera che potremmo definire semplicemente sospesa. Come dichiara Kieślowski parlando del suo film “Blue”: la chiave per comprendere la storia (fotografia) è il significato del suo colore, che non è associato alla libertà intesa solamente in senso politico o sociale, ma come libertà della vita stessa. “Sight’s Blue Sense” racconta di una coscienza che guarda il mondo e lo fa utilizzando il riflesso. Credo che il riflesso, punto d’incontro fra l’interno e l’esterno di un luogo, sia una soglia e per me esso diventa metafora della soglia per eccellenza, lo sguardo, che è il punto d’incontro fra la nostra interiorità e il mondo fuori. La vaghezza di questo incontro, fra interno ed esterno, rende la lettura dell’immagine aperta a sempre più possibilità di lettura. Il fotografo mette semplicemente in luce questa possibilità e la rende fruibile. La fotografia mostra la nuova realtà, ibrida fra autentico e virtuale, e crea un senso di straniamento dove diventa difficile capire cosa è veramente tangibile e cosa è riflesso perché tutto è documentato e portato sullo stesso piano; la consapevolezza di chi osserva si trova così sospesa e proprio questa sospensione rende possibile il passaggio del messaggio: la meraviglia della scoperta e del nuovo. La tensione tra il reale e il riflesso carica l’immagine di un carattere ipnotico e noi restiamo fermi, meravigliati e alla ricerca della libertà. Queste immagini vogliono essere un innesco, Barthes parla appunto di “punctum”.
I.G.: La tua ricerca ti porta ad esplorare territori abbandonati e città, studi complessi architettonici ed interni e ti concentri sul rapporto tra natura e industria, tra natura e città-metropoli. Cosa ti attira e ti spinge a muoverti tra il Passo dello Stelvio o Parigi o in una Storia Noir nella Laguna veneziana?
Alessandra Bello: Uno dei miei obiettivi è quello di sondare la validità della fotografia d’autore nel tempo odierno e il grande potere, di valore o meno che sia, che le immagini hanno comunque. In questo senso mi trovo sempre molto d’accordo con un aforisma di Nadar: «Non esiste la fotografia artistica. Nella fotografia esistono, come in tutte le cose, delle persone che sanno vedere e altre che non sanno nemmeno guardare». Oggi c’è una grande crisi immaginativa e immaginaria: la fotografia ha assunto sempre più importanza ma in maniera proporzionalmente inversa, come in una altalena, ha perso il suo valore. Relativamente al “cosa”, le domande che mi faccio e mi pongo continuamente sono poche, solo che poi hanno diverse declinazioni a seconda della realtà con la quale faccio i conti. Il vero motore di tutti i miei spostamenti è la curiosità: capire, vedere, esplorare, guardare sono i pistoni che mi danno la giusta energia di movimento. Il rapporto fra uomo, architettura e paesaggio è il secondo tema che per me è importantissimo ed esso non nasconde il mio background universitario (sono laureata in Architettura): proprio durante gli studi ho scoperto la fotografia e la sua speciale connessione con l’architettura. Oggi molte architetture sono “solo” fotogeniche, ma non vivibili e al contrario, spesso, le più vivibili non sono fotogeniche: ma è proprio così? Non lo so: sto cercando di capire, i miei non sono altro che tentativi, più o meno riusciti, di visione della città contemporanea. Capire come percepiamo la città contemporanea italiana, luogo in primis dove la stratigrafia storica è evidente nella sua fisicità e dove io vivo, può forse aiutarci a capire come viviamo e chi siamo. Credo fermamente che l’architettura rifletta e materializzi la società che l’ha creata: immagini di vita, successi, sconfitte, desideri di un’epoca sono concretizzati nelle sue pietre; tramite la sua continua presenza ci consente di capire e ricordare chi siamo perché ci colloca nello spazio e nel tempo.
I.G.: “Migrazioni in prospettiva” ribadisce lo scopo della tua ricerca come “Lezioni di volo”. In una società così globale quanto consideri importante avere delle radici e come queste interagiscono con il desiderio di approcciarti ad altre culture?
Alessandra Bello: Un tempo credevo che le due cose non andassero d’accordo, oggi invece sono convinta che non può esserci sincero desiderio di conoscere l’Altro senza conoscenza e amore verso le proprie radici. Le proprie radici sono fondamentali per riuscire a restare ‘centrati’ in se stessi ed è uno dei motivi per il quale ho affrontato il lavoro di “Migrazioni in Prospettiva”. Volevo capire perché ero in laguna, cosa mi mancava (io sono originaria del Friuli) e cosa invece avevo trovato di nuovo. Alcune delle mie domande hanno trovato risposta, altre invece mi hanno portato sullo Stelvio e ad iniziare il lavoro sui Sacrari. “Lezioni di Volo” invece parla proprio del mio desiderio di curiosità dell’Altro. Imparare a volare è una bella metafora e personalmente è un desiderio che ho fin da bambina: sogno spesso di volare. Imparare a volare significa imparare a fidarsi delle proprie capacità e di buttarsi nel mondo senza timore. Le nostre ali sono la nostra immaginazione e la nostra creatività immaginativa e credo che, in fondo, se abbiamo le ali vuol dire che siamo fatti per volare!
I.G.: Il critico russo Bachtin parla di cronotopo intendendo la necessità di “leggere” un’opera letteraria tenendo conto dello spazio e del tempo che nel loro mutare autonomo risultano tuttavia determinanti l’uno per l’altro. Credi si possa applicare questo metodo interpretativo anche all’idea che la fotografia sottende?
Alessandra Bello: Assolutamente sì: anzi, si deve! Una fotografia estrapolata dal suo tempo e dal suo contesto può perdere tutto il suo significato e diventare muta. Volendo andare più in profondità, credo che la fotografia abbia una sorta di valore mutevole: dal giorno del suo scatto la fotografia avrà sempre un continuo cambiare di valenze e significati. Per essere più chiari: il significato di una fotografia oggi non sarà mai il significato che avrà fra cento anni: probabilmente alcune parti del suo significato di oggi andranno perdute ed altri significati (per esempio di valenza storica o archivistica) si stratificheranno andando a ‘nascondere’ un po’ il suo significato, diciamo, originario. Ma è pure vero che se noi continuiamo a conoscere il periodo storico e dove la foto è stata scattata abbiamo meno rischi di perdere il suo significato originario.
I.G.: Nei tuoi scatti c’è una forte tendenza, molto suggestiva, a ritrarre spazi pieni del loro rigore geometrico e di giochi di luce piuttosto che la moltitudine e la coralità. In alcuni casi la scelta è necessaria, in altri sembra programmatica. Puoi parlarcene?
Alessandra Bello: Quando studiavo per affrontare il difficile esame di fisica all’università ho scoperto che tutto è un’onda (o energia): ci sono le onde radio, poi al crescere della frequenza, troviamo il calore, la luce, la radiografia e infine la radioattività; in quel momento ho iniziato a provare un fascino speciale per la luce. Quella stessa luce con la quale mi divertivo a giocare mediante la fotografia era in realtà una sorta di tutto. Tutto era luce e la fotografia allora diventava il mezzo per eccellenza per indagare questo tutto nel quale siamo immersi e di cui facciamo parte. Tralasciando queste fascinazioni: la fotografia è fatta di luce e fotografare vuol dire imparare a vedere e giocare con la luce. Lo spazio è vivibile ed esperibile solo grazie alla luce: non a caso anche da bambini si ha paura del buio. La luce è conoscenza, speranza, voglia di vivere: ecco perché per me essa è il primo vero soggetto del mio lavoro. La mia tendenza di lavorare molto sulla composizione e con la geometria si basa sul mio grande amore per il disegno. In fondo la fotografia non è altro che un disegno “perfetto” e in questo senso mi piace molto l’idea che la fotografia è “disegnata” perché non fa altro che rimarcare ancora di più il suo vero significato: la mano che la disegna è sempre di un uomo e il pensiero, il messaggio che trasporta è voluto dal suo autore. In altre parole, non so dire se le mie scelte sono programmatiche o necessarie di certo trovo che siano un modo corretto per affrontare il difficile tema di descrizione di uno luogo nel sua interezza, anche immaginativa, e non fermarsi solo all’idea di spazio, sterile e senza vita.
I.G.: Puoi raccontarci del progetto “Sacrari della Grande Guerra”?
Alessandra Bello: La ricerca fotografica che sto portando avanti documenta i più importanti monumenti ai Caduti della Prima Guerra Mondiale presenti nel territorio regionale e nazionale (visto che essi si trovano ubicati, oltre che in Friuli Venezia Giulia, in Veneto, in Trentino–Alto Adige e, in misura inferiore, in Lombardia) costruiti durante il Ventennio. Il lavoro sui Sacrari è un progetto al quale sono molto affezionata per diversi motivi, ma in primis esso deriva dalla mia voglia di vedere, ascoltare e capire le mie radici. È uno di quei progetti che si può serenamente definire a lungo termine, le prime immagini risalgono al 2010, e che porta con sé molte domande, sia di carattere personale che generale. Proprio questa sua valenza intima e allo stesso tempo sociale lo rende un progetto difficile e che abbisogna di periodi di decantazione, di studio e di riflessione. Questi luoghi vanno salvaguardati non perché luoghi di memoria del sacrificio ma in quanto identitari di una memoria diversa. Pur non perdendo mai di vista ma valutando nel loro complesso le motivazioni storico-politiche che hanno portato alla loro costruzione, questi complessi monumentali di rara importanza acquistano valore anche per la loro dimensione di identificazione di una collettività. Con questo progetto, condotto ad analisi della relazione dei monumenti con il loro contesto, del dettaglio costruttivo monumentale e del valore simbolico da essi rappresentato, mi pongo il difficile obiettivo di far comprendere che queste rappresentazioni monumentali ci appartengono in quanto cittadini e sono la forma materiale della nostra storia. Oggi, anche grazie alle celebrazioni per il centenario, questi monumenti sono usciti dall’oblio forzato degli anni successivi la Seconda Guerra Mondiale e sono ritornati all’attenzione del grande pubblico: ma non dobbiamo dimenticare che essi richiedono di essere ricollocati nel loro posto nella Storia. La loro lettura può e deve essere fatta secondo diversi punti di vista, storico ed umano, affinché queste architetture acquistino nuovi valori nel presente. Credo che la fotografia possa riuscire a mostrarli per quello che sono: parentesi silenziose in un territorio sovraffollato di segni, dove la grande Storia e la nostra storia si incontrano nell’architettura.
Written by Irene Gianeselli
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