Professore, può spiegare ai nostri lettori la sua teoria sulla ‘verdificazione’ dei deserti e sull’uso del bestiame per combattere i cambiamenti climatici?
A dire il vero non ho alcuna teoria, solo la pratica. La teoria è stata già fornita da J.C. Smuts, che nel 1926 scrisse “Holism and Evolution”. Smuts spiegò che gli scienziati non avrebbero mai potuto comprendere la Natura (che è lo scopo della ricerca scientifica) se prima non fosse stato chiaro a tutti che la Natura funziona solo per interi e modelli di quegli interi, piuttosto che attraverso parti separate ed interconnesse, come inteso dalla nostra visione meccanicistica del mondo.
Al lavoro di Smuts seguì l’elaborazione della Scienza dei Sistemi e della Teoria del Caos, ma trovo che queste teorie, per quanto utili, abbiano perduto molto dell’essenza di Smuts. Quando Smuts teorizzò che la natura funziona per interi e modelli di interi, mi sembrò che quanto diceva fosse coerente con tutto quello che stavo testimoniando nel mio lavoro di biologo, a contatto con le grandi popolazioni di animali selvatici dell’Africa, e potevo ben comprenderlo.
Esistono diversi centri di ricerca sulla complessità, come ad esempio il Santa Fe Institute nel New Mexico. Quello che penso è che siano troppo accademici e costantemente impegnati a produrre teorie, mentre il mondo continua a precipitare sotto l’urto di problemi di magnitudine esponenziale, a causa della nostra incapacità di disciplinare la complessità – sociale, ambientale ed economica. Quando la tua casa brucia, ho sempre pensato, spegnere l’incendio è più importante che pensare a come prevenirlo o teorizzare come spegnerlo.
La mia idea che la natura, in ambienti stagionalmente umidi, funzionasse per opera dei grandi erbivori in grado di garantire annualmente un rapido decadimento biologico iniziò a formarsi dalla semplice constatazione che i più floridi territori nei quali lavoravo erano associati a un più alto numero di animali raggruppati in popolazioni pressochè intatte (grandi branchi, mandrie, famiglie di leoni, cani selvatici etc.).
Inizialmente, insieme a due studenti del Fullbright Program con i quali lavoravo, pensammo di invertire la degradazione del territorio controllando il numero della fauna selvatica attraverso quella che in Sudafrica e negli Stati Uniti era diventata l’industria della caccia nelle grandi riserve, ma i problemi aumentarono. C’è voluto un po’ a capire che potevamo praticamente rigenerare il suolo e la vegetazione usando il bestiame da allevamento, anche perché – come gran parte della gente – anch’io imputavo al bestiame di essere causa della desertificazione.
Quando lei, da scienziato, dice categoricamente che l’unica possibilità rimasta all’umanità è usare il bestiame da allevamento per invertire la desertificazione globale, a molti fa un effetto impressionante poiché è difficile immaginare di trovarsi con una sola alternativa rimasta. Perché è così categorico?
Sono categorico solo su questo punto, e per una buona ragione. La desertificazione comincia quando l’esposizione del suolo tra la vegetazione rende le precipitazioni meno efficaci nel far crescere le piante e allo stesso tempo nel riempire il più grande spazio di immagazzinamento di acqua e carbonio: il suolo. Negli ambienti ad umidità stagionale in cui si verifica la desertificazione, la maggior parte dei rifiuti al suolo sono rappresentati da erba, perché le precipitazioni sono troppo scarse perché ci siano alberi che producono le foglie che andranno eventualmente a coprire il suolo una volta cadute. In questi ambienti, due fattori causano un’alta percentuale di terreno spoglio tra le piante: un inadeguato “disturbo” da parte dei residui di piante morte o del fuoco. E se all’inadeguato disturbo dei residui di piante morte si accompagna un’eccessiva vegetazione, il problema si accentua ancora di più. Per oltre 10.000 anni son stati fatti molti esperimenti per rallentare o invertire la desertificazione causata dall’uomo. Nella mia vita ho assistito a diversi tentativi nel campo della scienza del paesaggio (o delle praterie, per essere più precisi), che includevano sistemi di rotazione o di pastura prescritti dagli esperti, oppure gli incendi dei pascoli. Inoltre, gli scienziati del settore hanno sviluppato e promosso l’uso massiccio di macchine progettate per riprodurre il disturbo arrecato dagli animali, la ricoltivazione dei pascoli, la coltivazione di alberi e ovviamente l’uso massiccio di erbicidi e quant’altro. Se si esclude la coltivazione di alberi nei luoghi con abbondanti precipitazioni, tutto il resto si è rivelato un fallimento.
In quanto esseri umani, siamo animali che usano strumenti, e per oltre un milione di anni abbiamo utilizzato lo “strumento” della tecnologia, a partire da bastoni e pietre. E per circa un milione di anni abbiamo avuto il fuoco. Da quel momento, abbiamo potuto fondere la pietra ed attraversare l’età del rame, del bronzo e del ferro, mentre la nostra tecnologia continuava ad esplodere. Per gran parte dell’esistenza del genere umano, abbiamo avuto solo questi due strumenti: la tecnologia e il fuoco. Poi, con l’addomesticamento di piante e animali, abbiamo sviluppato l’idea di far riposare la terra come “strumento” (grazie ai pastori nomadi che spostavano gli animali e ruotavano le coltivazioni facendo riposare la terra). Adesso vediamo questo “strumento” alla luce della conservazione e della necessità di ridurre il numero di animali per concedere riposo alla terra e alle piante. L’unico altro strumento che abbiamo sviluppato è l’uso di micro-organismi per fare il formaggio o il vino, e adesso stiamo iniziando a creare nuovi organismi come strumenti per scomporre il petrolio etc. Se studiassimo in qualsiasi università del mondo per specializzarci in qualsiasi tipo di lavoro, impareremmo ad usare il denaro, il lavoro manuale o la creatività attraverso uno di questi “strumenti” per manipolare l’ambiente nel suo complesso. E non si può fare ciò senza occuparsi della desertificazione e del cambiamento climatico.
Due dei nostri strumenti – far riposare la terra ed il fuoco – aggravano la desertificazione e il cambiamento climatico in ambienti ad umidità stagionale. E non c’è alcuno strumento nella valigetta degli attrezzi a nostra disposizione che possa riprodurre il ruolo che in passato avevano i grandi erbivori ed i loro predatori al fine di sostenere una rapida decomposizione biologica e la copertura del suolo nei grandi ambienti ad umidità stagionale, specialmente dove le precipitazioni sono in diminuzione. Solo un animale con i micro-organismi nello stomaco può fare ciò che serve realmente.
Gli scienziati del settore, capendo il bisogno di alto disturbo periodico, ma temendo che il bestiame causasse la desertificazione, hanno sviluppato grandi macchine per riprodurre il calpestamento degli animali, la rottura del suolo e lo spargimento di rifiuti, ma anche macchine per seminare erba. Nonostante non sia stata condotta ad oggi nessuna ricerca scientifica, o non vi sia un principio scientifico fondato dietro l’uso della tecnologia per imitare gli animali, ma siccome queste pratiche sono state raccomandate da “autorità”, sono intervenuti sia i governi che le istituzioni internazionali. Milioni di dollari sono stati spesi per queste macchine e pratiche negli Stati Uniti ed in altre nazioni. E tutte hanno fallito. Adesso posso affermare senza ombra di dubbio che dobbiamo usare animali veri anziché la tecnologia che li imita, e i micro-organismi nel loro stomaco. E quello più pratico e facile da gestire ancora a nostra disposizione è il bestiame adeguatamente controllato. Tutto ciò in concomitanza con flora e fauna, come stiamo dimostrando in Zimbabwe.
Le sue teorie sono evidentemente innovative. Per questo motivo vanno naturalmente incontro alle critiche della scienza ‘ufficiale’. Chi critica i suoi studi, sostiene che i dati a sostegno sono scientificamente poco rilevanti. Come risponde a questa critica?
L’Holistic Management (HM) implica affrontare la complessità sociale, ambientale ed economica, sia nel breve che nel lungo periodo, in ogni situazione gestionale (dai governi alle politiche delle organizzazioni internazionali, alla conduzione di un’impresa agricola, agli interventi su larga scala per invertire la desertificazione).
In tutte le situazioni operiamo una modifica delle strutture di decision making sottostanti, e dovunque sia coinvolto o richiesto il bestiame da allevamento per invertire la desertificazione, usiamo il processo olistico di pianificazione del pascolo per affrontare quella complessità.
Chiaramente l’approccio ha bisogno di essere olistico e mai riduzionista, così facendo possiamo superare le settorialità scientifiche e al contempo far tesoro delle conoscenze e dei principi scientifici raccolti da tutte le discipline e dal sapere tradizionale, come nel caso dell’agricoltura. Grazie a questo approccio è stato confutato il paradigma della scienza ufficiale secondo il quale i pascoli e le praterie possono essere gestiti solo attraverso la rotazione delle colture o sistemi di pascolo simili. Questi sistemi di controllo del territorio, prescritti da “esperti” del settore, hanno accelerato il processo di desertificazione persino negli Stai Uniti, come ho dimostrato nella mia TED talk.
Mentre esistono molti studi di colleghi scienziati a sostegno della visione olistica e del concetto di pascolo pianificato, non sono a conoscenza di studi critici verso questo processo. Ci sono molte pubblicazioni scientifiche che criticano aspetti come la breve durata, il sistema rotazionale o altre tipologie di pascolo, credendo e asserendo che siano rappresentativi del sistema olistico. Ma nessuno degli autori di queste pubblicazioni ha mai fatto alcun tentativo per capire o studiare l’approccio olistico al di fuori dei paradigmi della propria professione.
Purtroppo l’opposizione “autorevole e accreditata” è normale in ogni situazione in cui la scienza affronta il cambio di un paradigma importante, e sarebbe anormale se questo non succedesse, come a riguardo è stato scritto sin dai tempi di Galileo o in maniera eccellente da Thomas Kuhn ne “La Struttura della Rivoluzione Scientifica”. Ecco, quello che abbiamo di fronte non è nient’altro che un problema di paralisi di un paradigma. Ci sono voluti molti anni, e morti, prima che alcuni ufficiali di cavalleria illuminati comprendessero che il filo spinato, le armi da fuoco e le trincee avevano reso inefficace l’utilizzo dei cavalli nelle moderne battaglie. Oggi invece dei brillanti scienziati devono ancora mettersi d’accordo sulla sostituzione di tutti i vecchi sistemi di pascolo, a rotazione e non, suggeriti da alcuni “esperti” senza prima aver preso in esame la complessità sociale, ambientale ed economica. In questo caso il prezzo che paghiamo sono milioni di uomini, donne e bambini che continuano a morire nell’attesa che gradualmente si innesti un cambio di paradigma istituzionale.
Se le sue intuizioni sono giuste, siamo di fronte ad una scoperta epocale. Esistono invece dei punti deboli nella sua teoria o delle difficoltà oggettive a renderla operativa?
Circa trent’anni fa il Prof. Jim Teer, un autorevole scienziato americano, mi disse “O ti sbagli e noi tutti non saremo capaci di scavare una fossa abbastanza profonda per seppellirti, oppure hai ragione e noi non saremo capaci di costruirti un monumento abbastanza alto!”. Io ribattei chiedendogli cosa pensasse lui, e mi rispose che era indeciso!
Io credo che di fronte alla gravità della desertificazione globale e ai drammatici sintomi della siccità, delle alluvioni, della povertà, del collasso sociale, dell’abuso di donne e bambini, dei genocidi culturali, dell’emigrazione verso l’Europa, della violenza, della guerra e dei cambiamenti climatici non possiamo più permetterci di essere indecisi. C’è bisogno che scienziati e climatologi vadano oltre i possibili difetti logici o scientifici dell’approccio olistico o del suo processo di pianificazione del pascolo, o avremo bisogno di iniziare una mobilitazione globale per far comprendere che ruolo enorme abbia l’inversione del processo di desertificazione nei cambiamenti climatici.
Quali sono i prossimi passi da percorrere nella diffusione della teoria olistica?
Senza dubbio la nostra visione del mondo sta progressivamente cambiando nei secoli dall’essere meccanicistica a diventare olistica. L’ultimo grande cambiamento di questa portata fu il passaggio dalla credenza che la Terra fosse al centro del nostro universo alla certezza che non lo fosse. Ci sono voluti tanti anni, come ce ne vorranno per questo.
La scienza sociale e dei sistemi che ho studiato suggerisce che l’avanzamento scientifico di questo tipo di paradigmi ottiene un’accettazione istituzionale soltanto quando l’opinione pubblica lo richiede. Non sono la quantità di fatti, di dati o di ricerche a guidare quell’accettazione, ma l’opinione della gente. La maggior parte degli scienziati ai quali si rivolgono i governi, le grandi organizzazioni ambientali e le agenzie internazionali per supporto e consulenza lavorano all’interno di istituzioni. Le quali hanno una proprietà di cui non si tiene conto, e cioè che sono pressochè impermeabili alle innovazioni nei paradigmi scientifici. Nonostante tanti individui cambino il loro punto di vista, il cambiamento istituzionale può impiegare anche più di 100 anni, e avviene solo quando è l’opinione pubblica a costringerlo.
Facendo un semplice esempio, le università, le organizzazioni ambientali, le agenzie governative e persino gli allevatori di bestiame sono ancora del parere che l’eccessivo sfruttamento della vegetazione sia causata dai troppi animali. Ma noi sappiamo da sessant’anni, ed oltre ogni dubbio, grazie al lavoro del ricercatore francese Andre Voisin, che tale sfruttamento non è dovuto al numero degli animali.
Nonostante la pubblicazione in cinque lingue e un periodo di tempo di oltre 60 anni, nessuna istituzione che io conosca ha già accettato questo avanzamento nella ricerca contrario al credo istituzionale. Nel frattempo migliaia di ranchers, allevatori e scienziati, ciascuno secondo la sua professionalità, hanno lavorato con me, e la pratica si è diffusa a quasi 15 milioni di ettari in tutto il mondo. Il cambio di pensiero dell’opinione pubblica sta iniziando a fare pressione sul cambiamento istituzionale.
Quello che finora è mancato per velocizzare il cambiamento istituzionale è stata quella tecnologia che adesso è fornita dai social media, che informano il pubblico bypassando le “autorità”, come ha dimostrato la mia TED2013 talk.
Come è cambiato il suo modo di pensare dall’ episodio della strage degli elefanti ad oggi, quando lei afferma che “la desertificazione è solo un sintomo della perdita della biodiversità”? Quali momenti hanno segnato l’evoluzione delle sue teorie?
Come detto, non propongo una teoria ma semplicemente un processo decisionale e pianificatore per affrontare l’incredibile complessità della gestione di tutte le risorse naturali. Il mio più grande errore è stato credere, a causa del mio background accademico, che troppi elefanti fossero la causa della terribile distruzione che tuttora possiamo testimoniare in alcune delle più belle riserve naturali africane, e ciò mi determinò a trovare delle soluzioni. Come mi sbagliavo! Solo più tardi, avendo accresciuto di molto la mia comprensione delle cose, ho potuto realizzare che la distruzione (la desertificazione) che vedevo nei parchi nazionali era in realtà la conseguenza della perdita di biodiversità.
Riguardo alla mia ricerca, tengo a precisare che mi riferisco a quei territori nei quali l’umidità è molto stagionale. La conservazione basata sul concetto di far riposare l’ambiente o di lasciarlo al suo corso naturale è lo strumento più potente che abbiamo per recuperare e mantenere le superfici e la biodiversità dei terreni in ambienti di umidità permanente o quasi permanente, ma questa particolarità noi scienziati abbiamo omesso di considerarla a lungo.
Per tornare ad un tema vicino al nostro lavoro di comunicatori ambientali, la sua Ted Talk è stata vista da centinaia di migliaia di persone nel mondo. Che ruolo hanno i media digitali nella diffusione delle sue teorie presso il grande pubblico ed i governi internazionali?
Grazie alla tecnologia e al ruolo del TED nell’esporre il mondo a nuove idee, quella conferenza è stata vista finora da oltre due milioni di persone, ed il numero continua a crescere. Come scrissi nel libro “Holistic Management: A New Decision Making Process” (seconda edizione del 1999), non saremmo stati in grado di affrontare la desertificazione ed i cambiamenti climatici finchè tutti non avessimo riconosciuto i rischi per la sopravvivenza umana e la tecnologia non fosse stata in grado di comunicare globalmente. Fortunatamente quella tecnologia adesso è a nostra disposizione e ci ha consentito di portare il nostro lavoro al pubblico, superando gli anni della censura delle “autorità esperte in materia”. La leadership necessaria non può mai provenire da alcun governo, università o organizzazione internazionale, ma solo dalle persone comuni che comunicano fra di loro. Questo sta iniziando a succedere grazie ai media digitali e al seguito del TED.
Cos’è buona comunicazione ambientale e cosa non lo è?
Quello che so è che sarebbe auspicabile e necessaria una comunicazione aperta ed onesta. E che implichi il bisogno di ascoltare, per comprendere prima di rispondere. Quello che non fa bene è che autorità accademiche, economiche o politiche controllino per varie ragioni l’informazione ambientale destinata al pubblico. Di solito le istituzioni hanno un obiettivo in agenda, sia esso la conservazione dello status quo, il fund raising, i profitti d’impresa o la difesa del profilo istituzionale e tutto questo pregiudica l’informazione ambientale. Dico questo non solo per via della mia esperienza con le autorità, ma anche per via della Scienza dei Sistemi. Essa dimostra che noi formiamo organizzazioni e/o istituzioni perché siano efficienti, e generalmente lo sono. Tuttavia l’essere dei sistemi complessi li sottopone ad alcuni problemi non prevedibili ed estremamente difficili da risolvere. Due di questi, portati alla luce dalla ricerca, sono: 1) organizzazioni ed istituzioni sono quasi completamente impermeabili di fronte ai cambi di paradigma, come dimostrato sin dai tempi di Galileo 2) indipendentemente dall’intelligenza o dall’interesse dei membri che fanno parte di un’organizzazione gerarchica, tendenzialmente essa mostra due caratteristiche: mancanza di senso comune e di umiltà. A conferma di quest’ultima, basterebbe chiedere a una qualunque persona assennata se è sensato produrre combustibili per la coltivazione del mais e poi usare il 40% di quel mais per produrre carburante per le auto. La risposta sarebbe che non lo è, dovendo fronteggiare i cambiamenti climatici e con un miliardo di persone affamate. Tuttavia, guardate quanti scienziati ‘ufficiali’ negli Stati Uniti hanno appoggiato politiche come questa, e quale piccola opposizione è venuta da singoli scienziati o da piccoli gruppi di essi e da membri eruditi del pubblico. Io credo che possiamo riporre maggiore fiducia nel senso comune della gente di quanta ne potremmo mai riporre nelle istituzioni che controllano o influenzano i media.
Lei crede che qualcuno ci stia mentendo sul clima? Come possiamo riconoscere un inganno informativo, e di chi ci possiamo fidare?
Sì. Le bugie istituzionali vengono usate per prolungare i profitti e per difendere la reputazione. Come le compagnie del tabacco mentivano al pubblico, così – io credo – c’è evidenza dello stesso comportamento da parte delle compagnie del petrolio, del carbone, del gas, le quali si sforzano di mantenere i flussi di profitto nonostante i rischi ormai evidenti per il futuro dell’umanità e di tutte le forme di vita più evolute. Il grande tema della desertificazione globale e dei cambiamenti climatici avrebbe dovuto allertare tutti i governi già da molto tempo, metterli sul piede di guerra. Con ciò intendendo che, quando si è in guerra, le nazioni si mobilitano, annullano le differenze fra loro e si uniscono, facendo non quello che si vuole fare, ma quello che si deve fare. In certe circostanze, chiunque mentisse, ingannasse o danneggiasse il bene comune sarebbe considerato colpevole di tradimento.
Così dovrebbe essere letto l’atteggiamento di quelle corporations che ingannano e confondono l’opinione pubblica, e credo che questo un giorno avverrà. Ma soltanto a seguito di un radicale cambio di paradigma nell’opinione pubblica i politici saranno capaci di comportarsi saggiamente e tutti noi, aldilà di ogni differenza di cultura, razza, tribù, religione o qualsiasi peculiarità, inizieremo a collaborare come esseri umani.