Cresce la tensione a Gerusalemme ed in Cisgiordania. Ha infatti preso il via da qualche settimana la cosiddetta “terza intifada” tra Israele e Palestina: una chiamata alle armi che getta benzina sul fuoco di una questione irrisolta da decenni. In mostra tutte le incertezze e le difficoltà politiche di entrambi i fronti, dall’immobilismo israeliano targato Benjamin Netanyahu alle difficoltà di Hamas e dell’Autorità Nazionale Palestinese. Giorni complessi e faticosi, tristemente segnati da omicidi e violenze, da giovani(ssimi) in prima linea armati di coltelli, pronti ad uccidere o ad esplodere, per la liberazione di una terra martoriata da contraddizioni fallimenti storici (dal Mandato britannico alle soluzioni Onu, insomma dal lontano 1947). Ma qual è esattamente il bilancio di quest’ultima fase? E soprattutto, quali saranno le prossime mosse della comunità internazionale per venirne a capo?
Gli ultimi aggiornamenti.
E’ di oggi, la notizia dell’arresto di uno dei leader storici di Hamas, Hassan Yussef, mentore politico e spirituale nei Territori occupati, già più volte detenuto da Israele. Il fatto riveste una certa importanza, soprattutto alla luce delle dichiarazioni non certo distensive di Hamas, che continuerà a sostenere il conflitto dei coltelli sino alla liberazione definitiva, e dunque alla totale legittimazione, della Palestina. Gerusalemme ed Hebron (Cisgiordania) continuano a versare lacrime e sangue, mentre le vittime si contano su entrambi fronti. La comunità internazionale, via Onu, mette piede proprio oggi in Israele, su decisione del Segretario generale Ban Ki-moon: obiettivo sarà quello di perseguire un allentamento delle tensioni attraverso un doppio colloquio con Netanyahu e il presidente Anp, Abu Mazen. Pressochè inutile lo scaricabarile politico delle responsabilità belliche: ulteriori attese equivalgono ad ulteriori vittime e all’impossibilità di giungere ad una soluzione: ad ogni ora il processo di pace si fa sempre più complicato e lontano. Alessandro Giglioli nella sua analisi su “L’Espresso” sottolinea infatti – efficacemente – che a determinare una guerra non sono solo armi e coltelli, ma anche di parole. Ed è su questo fronte invisibile che Israele valuta i confini con il principio della libertà di parola, con il rischio di essere costretta a metterne in discussione i fondamenti. Le accuse di istigazione continuano forse solo a nascondere le reali ambizioni di cercare con serietà una soluzione per entrambi gli stati, più volte auspicata da Europa e comunità internazionale.
Il bilancio.
Nella giornata di sabato, tre palestinesi sono stati uccisi, mentre ad Hebron una poliziotta israeliana reagiva alla pugnalata di una donna palestinese, causandone il decesso. I tentativi di utilizzo dei coltelli sono purtroppo sempre più numerosi e quasi casuali. Sarebbero 39 i palestinesi morti dall’inizio del mese di ottobre, a fronte di 8 perdite tra gli israeliani. Senza dimenticare l’attacco palestinese alla tomba di Giuseppe, a Nablus. Secondo l’Anp, il bilancio sarebbe più vasto: 44 arabi morti e 1800 feriti. Si colpisce quasi senza sosta ed a prescindere, in un conflitto sempre più confusionario e proprio per questo differente, dai primi due conflitti tra la fine degli anni ottanta e la metà degli anni 2000 (nel mezzo, gli accordi di Oslo 1993, che decreterebbero storicamente la fine della prima intifada).
E’ un conflitto anomalo, individuale, arbitrario. Senza guida politica, con il profondo disappunto dei palestinesi verso l’Anp e Hamas. Colpiti da un gradimento e da un consenso ormai ai minimi termini. L’organizzazione non è una priorità: lo è invece, il colpire a morte. E gli attentati, continuano a crescere e a minare la sicurezza del territorio. La speranza è che quel vuoto politico non venga riempito da catastrofici risvolti politici (Isis?), considerata la crisi del «modello moderato» di Abu Mazen e dell’estremismo di Hamas e le modalità social di manifestazione dell’intifada dei coltelli. Con all’orizzonte il drammatico scenario della fine del processo di pace. Perché basta un computer, un cellulare, un video, o una emulazione. Non sorprenda l’individualismo bellico del momento: la spinta, pur restando fermo il deserto politico, resta collettiva, ed espressione di un malcontento generale che il mondo intero (inteso dal punto di vista istituzionale) fatica a sbrogliare. E forse, anche a comprendere: il popolo palestinese esisteva primo dello Stato ebraico, è esistito e continuerà ad esistere. Così come esiste giuridicamente il principio di autodeterminazione. Al tempo stesso lo stato di Israele subisce aggressioni, spesso motivate prevalentemente da motivazioni etniche e di odio religioso, a cui difficilmente si può dare giustificazione. Ed ha acquisito i territori che lo ospitano in linea con il diritto internazionale e con il consenso delle generazioni precedenti agli attuali palestinesi. L’auspicio rimane quello di una soluzione che non passi necessariamente dalla violenza e dall’estremismo.
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